Coeva di Maria Montessori, Justine Ward (1879-1975) visse e operò in un’epoca di inedita vivacità pedagogica; potremmo sinteticamente riportarci all’attivismo, corrente che riconosceva il bambino come soggetto attivo, centrale in un processo educativo che doveva muovere dai suoi interessi e dalle sue capacità. In particolare, nel contesto statunitense queste istanze si incontrarono con un ampliamento della domanda di istruzione, accentuata dall’accoglienza di ampi flussi migratori, e dettero origine a feconde sperimentazioni a cavallo tra Otto e Novecento.
Con lo stesso sguardo della Montessori (con cui peraltro si incontrò, quando quest’ultima presenziò a un’esibizione dei piccoli cantori di Serravalle), la Ward sosteneva che ogni informazione dovrebbe essere presentata al bambino in modo conforme allo stadio del suo sviluppo: infatti, se gli è fornito il corretto stimolo al momento giusto, qualunque bambino sarà in grado di apprendere. Richiamando le teorie di Lev Semënovic Vygotskij sulla Zona di sviluppo prossimale, la nostra sosteneva che ogni lezione dovrebbe mettere in relazione l’acquisizione “ignota” proposta, con il “già conosciuto”, dosando con grande attenzione la distanza tra il livello di sviluppo attuale e quello di sviluppo potenziale, stimolando il bambino a usare le nuove acquisizioni attraverso esperienze personali dirette.
La Ward applicò queste consapevolezze all’ambito musicale, scindendo gli elementi musicali in strutture base da trasmettere in ogni lezione, per condurre il bambino in un percorso di scoperta vocale. Per lei, le “fasi” che l’apprendimento necessariamente attraversa sono: l’imitazione, pura in un primo momento, poi alternata alla seconda fase, cioè la riflessione, per raggiungere infine l’autonomia. Il metodo propone quindi esercizi che procedono dalla semplice imitazione di un suono ascoltato o di un movimento ritmico osservato, alla progressiva presa di coscienza e all’utilizzo libero degli elementi appresi, fino all’attivazione della metacognizione e all’espressione della propria identità musicale. Per l’avvio della lettura ritmica e melodica, elaborò quindi una vasta serie di esercizi (vocalizzi, movimenti ritmici, gesti chironomici, dettati melodici ecc.), da lei minuziosamente graduati ed esposti nei manuali per gli insegnanti.
Justine intendeva creare un metodo semplice, propedeutico alla lettura tradizionale della partitura: «la notazione sul pentagramma con le moderne chiavi è complessa; la relazione melodica delle note scritte sulle righe e negli spazi cambia a seconda della chiave e a seconda della tonalità. Se è necessario che i bambini arrivino a leggere la musica sul pentagramma, conviene evitare, all’inizio, questa difficoltà». Ispirandosi alle chiavi del gregoriano, andò orientandosi verso la metodologia del do mobile, utilizzando i nomi delle note per indicare i suoni in modo relativo, cioè in corrispondenza della loro posizione nella scala, indipendentemente dalla loro altezza assoluta, per far risaltare la loro funzione nella struttura armonica e le relazioni intervallari.
La Ward avvertiva però un’ulteriore esigenza: «un suono dovrà essere immediatamente associato a un simbolo scritto e a questo così strettamente unito, che il suono dovrà evocare l’immagine del simbolo scritto, come se l’orecchio vedesse; e viceversa, il simbolo scritto dovrà evocare il suono, come se l’occhio sentisse. L’associazione dovrà realizzarsi rapidamente, quasi automaticamente. Per raggiungere questo obiettivo, il simbolo utilizzato dovrà essere semplice, facile da leggere, facile da scrivere». Riprendendo la metodologia con i numeri elaborata a inizio Ottocento dagli insegnanti francesi Émile Chevé e Pierre Galin (a loro volta ispiratisi a Rousseau), la Ward aggiunse quindi un elemento di novità rispetto agli altri metodi: l’introduzione delle cifre per indicare i gradi della scala.
I numeri utilizzati sono sette e il variare di ottava viene reso con l’utilizzo di un puntino sottostante (o soprastante) il numero per l’ottava inferiore (o superiore), coprendo in tal modo tre ottave. Essendo la scala di do l’unica scevra da alterazioni, il do viene eletto a prototipo di tonica di ogni scala maggiore: così il primo grado di ogni scala maggiore viene indicato con 1, e il primo grado di ogni scala minore con 6, coincidendo tra l’altro col sesto grado della precedente, onorando il forte legame con la sua relativa minore.
Con questo stratagemma, l’acquisizione della lettura della partitura è molto semplificata, perché riconduce la complessa varietà di intervalli nelle diverse tonalità, a una gamma limitata e stabile, immediatamente percepibile, più rapida da interiorizzare, libera dalle varianti date da diesis e bemolle, inseriti solo per mantenere stabili le relazioni intervallari tra le note. In particolare, i semitoni si trovano sempre tra mi e fa (3-4), e tra si e do (7-1˙) e così gli altri intervalli, corrisponderanno sempre agli stessi valori numerici (1-3 terza maggiore, 1-4 quarta ecc.).
Il metodo prevede sistemi di scrittura delle alterazioni, ricorrendo a un taglietto inclinato a destra, come un accento acuto, per i diesis (fa# = 4/), e uno inclinato a sinistra, come un accento grave, per i bemolle (sib = 7\), da porre sopra il numero. Nella nomenclatura, le note alterate avranno sempre una “e” nel loro nome, per distinguerle da quelle non alterate (eccezion fatta per il re, che avendo già la “e” la sostituirà con una “a”): verranno quindi chiamate “de, ra, me, …”, sottolineando la straordinarietà e la transitorietà dell’alterazione.
Per quanto riguarda il ritmo, il metodo ricorre a puntini accanto alla nota che ne prolungano il valore e a linee sopra i numeri che ne accorciano il valore con progressivi tagli; tuttavia, queste convenzioni sono transitorie, perché progressivamente i ragazzi impareranno ad apporre la “chiave di do”, e quindi la “tonica”, da soli sul pentagramma e a vedere (prima scritti, poi nella mente) i numeri in corrispondenza delle note sul pentagramma. Questa idea della “chiave di do” è evidentemente mutuata dal gregoriano, elemento fondamentale della formazione e della didattica della Ward.
Nata da famiglia protestante, nel 1904 si convertì al Cattolicesimo e sposò la causa della riforma della musica sacra avviata da Pio X: questi, nel 1903, aveva emanato il Motu proprio, che riconosceva la musica sacra come parte integrante della liturgia, individuava nel gregoriano il canto proprio della Chiesa Romana, il modello supremo di musica sacra, ereditato dagli antichi padri, e ne auspicava l’apprendimento da parte del popolo. È con queste finalità che la Ward andò elaborando il metodo: avviata alla conoscenza del repertorio dal gesuita Padre Young, e formata dall’impronta didattica di Padre Shields, nel 1920 approdò a quella sorta di icona sacra che era dom André Mocquereau, monaco di Solesmes, musicologo che ebbe un ruolo di primo piano nella restaurazione e nell’edizione del canto gregoriano.
In quegli anni, incontrò anche Paolo Egisto Fabbri, nobile architetto fiorentino che, visitate le scuole americane dove veniva insegnato il metodo, ne rimase così colpito da invitarla in Italia per tentare di esportarlo. In particolare, aveva una villetta estiva a Serravalle di Bibbiena (Arezzo) e, innamoratosi del posto e della sua gente, divenne per quel paese una sorta di mecenate, arrivando a finanziarne la costruzione della chiesa parrocchiale e della scuola elementare, e sovvenzionando molteplici iniziative per la popolazione: desideroso che quel popolo montano imparasse il repertorio gregoriano, nel 1925 fece inviare dalla Ward due insegnanti ben preparate, che si stabilirono a Serravalle, presso l’Istituto San Gregorio delle Suore Mantellate Serve di Maria. In paese venne rigorosamente impostata la scuola di canto per tutti i figli dei contadini e dei boscaioli, tra i 9 e i 13 anni (ma in seguito l’insegnamento del metodo verrà esteso anche agli adulti). I risultati non tardarono ad arrivare e nel 1931 un quartetto di quei bambini (Nadia Cordovani, Domenico Fiorini, Nives Bartolini e Concetta Milanesi) vennero mandati come delegazione a Baveno (sul Lago Maggiore) per poter essere ascoltati dalla Regina Elena, moglie e Regina consorte di Vittorio Emanuele III di Savoia. Il Fabbri sperava di attirare l’attenzione istituzionale sul metodo, affinché venisse adottato nelle scuole del Regno d’Italia. Speranza che effettivamente si realizzò, quando Benito Mussolini conobbe il metodo, assistendo a un’esibizione di alunni di una scuola elementare di Trento, alla presenza della Ward, nel 1936 a Roma: ne rimase entusiasta e il metodo fu a un passo dal divenire ufficiale per tutte le scuole d’Italia. Tuttavia, volle prima consultare Pietro Mascagni, Accademico d’Italia, che bollò il metodo come non degno di interesse, bloccandone l’adozione nella scuola italiana.
La Ward rimase profondamente delusa e cominciò ad allontanarsi progressivamente dalla realtà italiana, incidendo ulteriormente sulla scomparsa del metodo dal nostro Paese. Ma torniamo alla piccola realtà toscana, che per chi scrive ha determinato anche il fortunato incontro col metodo. Col passare degli anni, la pratica didattica andò sempre più strutturandosi e il coro scolastico nel 1953 partecipò e nel 1955 trionfò (su 69 scuole) al Concorso nazionale per le scuole, indetto dalla Rai per incoraggiare la pratica corale, nel programma Radio per le scuole: un’iniziativa nata nel 1945, che prevedeva inserti letterari, musicali, storici, folkloristici ecc. La programmazione era realizzata dalla Rai, ma l’indirizzo era stabilito in accordo col Ministero della Pubblica Istruzione; il programma cominciava alle 11 e andava in onda da novembre a maggio, per le scuole fortunate che avevano un apparecchio radio. Per l’occasione, il coro della scuola di Serravalle, diretto da suor Virginia Cellai, oltre al brano d’obbligo, ne propose uno composto appositamente da Luigi Colacicchi che, appassionatosi alla realtà casentinese, la onorava spesso della sua presenza e delle sue attenzioni.
Per permettere la partecipazione al concorso, era la Rai stessa che si muoveva, inviando nelle scuole un’équipe di registrazione; a seguito della vittoria, il coro fu invitato per l’anno successivo al Teatro della fiera di Milano, per la trasmissione Anche oggi è domenica. Il 1955 fu un anno favorevole, perché il Ministero, sensibilizzato, attuò a Serravalle una sperimentazione unica: il Corso triennale di addestramento al canto corale per maestri elementari. Questa fecondità culminò nel 1960, quando il coro di voci bianche, diretto da Colacicchi, presentò nelle manifestazioni del Concorso polifonico di Arezzo la prima esecuzione in Italia della Missa Brevis di Benjamin Britten: il successo fu enorme e lo stesso Britten inviò una lettera per ringraziare Colacicchi per lo splendido lavoro e per l’esecuzione curata così efficacemente.
L’esperienza di Serravalle (che andrà poi a ridimensionarsi a seguito della morte del Fabbri) fu portata avanti per molti anni da don Valter Iacomoni, allievo di Francesco Coradini, che lì fu parroco dal 1946 al 1990; verrà poi trasferito a Monte San Savino (Arezzo), portando con sé il metodo e la ricca esperienza didattica accumulata: è qui che la sottoscritta avrebbe incontrato e praticato per anni il metodo, nell’alfabetizzazione degli adulti. Se infatti è stato pensato e strutturato specificatamente per gli alunni della scuola primaria, si rivela perfetto per promuovere la lettura della partitura da parte di coristi adulti, anche privi di qualunque approccio precedente. Il direttore che volesse intraprendere questo percorso dovrà farsi intermediario, diventare una sorta di traduttore della partitura in notazione cifrata. Le possibilità sono due: la trascrizione numerica e ritmica di tutte le voci della partitura (esempio 1), oppure la scrittura delle cifre direttamente sulla partitura, traducendo in numeri i gradi della scala, ma rimandando alla notazione classica la decodifica degli aspetti ritmici (esempio 2).
I coristi studieranno la propria parte cantando i nomi delle note e solo dopo aver acquisito sicurezza inseriranno il testo; come è evidente, la notazione cifrata rende immediatamente palesi le relazioni intervallari tra le note, anche nelle voci delle altre sezioni scritte in altre chiavi, e rende accessibile anche la riflessione sulle strutture armoniche (che si fondano sempre sulle solite strutture 1-3-5, 5-7-2…).Tra le prime osservazioni che vengono mosse, c’è la perplessità circa un “codice alternativo” che apparentemente non ha legami con la partitura e che addirittura richiede del tempo per essere appreso: c’è l’idea che il tempo impiegato per imparare ad associare il numero al nome della nota sia lo stesso che un corista impiega per iniziare a leggere le note sul pentagramma, e allora tanto vale investirlo in questa seconda strada. Se questo fosse anche vero, l’obiettivo che il metodo persegue non è la nomenclatura del numero, ma il guadagno delle relazioni intervallari e della relativa lettura a prima vista. Se è pur vero che nel tempo il corista impara a orientarsi comunque sul pentagramma, seguendo con l’occhio le distanze più o meno accentuate tra i “pallini”, raramente un corista analfabeta raggiunge una competenza così elevata come quella della prima vista nelle varie tonalità. In altre parole, la consapevolezza e l’acquisizione della sonorità di una quinta 1-5, è molto più rapida da conquistare rispetto alla coscienza che do-sol, fa#-do# e mib-sib (scritte per di più in due chiavi diverse, tra le varie sezioni del coro) sono “la stessa cosa”. Investire sull’acquisizione della lettura richiede impegno e una quantità di tempo tali da pregiudicare inizialmente la quantità di repertorio appreso dal coro. È questo investimento che tante volte, da direttori, ci fa desistere e ci fa propendere per un apprendimento mnemonico delle parti che sul momento pare garantire un risparmio di tempo ed energie. Ovviamente, il metodo è congeniale alla musica tonale, perché su quella è stato strutturato; prevede un sistema di modulazione (scrivendo strutture di identità col precedente grado della scala che va ad assumere il valore di tonica nella nuova sezione del brano), ma poco si adatta ai repertori che modulano continuamente o prevedono frequenti sezioni transitorie. Se è comunque utilizzabile negli ambienti modali, poco si adatta a quelli che si spostano verso l’atonalità. Questa valutazione spetta al direttore, che conosce le tipologie di repertorio che con il proprio coro affronta, oltre che le esigenze didattiche dei propri coristi. Ma considerando che la quasi totalità del repertorio fino al XX secolo è perfettamente leggibile con il metodo, e considerando che una larga fascia di coristi non ha chiavi di accesso alla lettura musicale, probabilmente il lascito di Justine Ward avrebbe ancora molto da dare ai cori italiani!