Diplomatosi e in organo e composizione organistica presso il Conservatorio C. Pollini di Padova, in seguito consegue la laurea di primo livello in composizione corale e direzione di coro presso il Conservatorio G. Tartini di Trieste. Ha al suo attivo un’intensa attività concertistica come direttore (precedentemente anche come pianista e organista) e varie registrazioni discografiche, televisive e radiofoniche. Più volte premiato in concorsi nazionali e internazionali come direttore e compositore, ha scritto musica corale, vocale e strumentale. Suoi lavori sono stati pubblicati, incisi su cd e dvd, trasmessi da emittenti radiofoniche (Radio Rai, Radio Koper, Rai Slovenia e Rai Fvg) e televisive, eseguiti in Italia e all’estero (Usa, Thailandia, Corea del Sud, Sudafrica, Argentina, Svizzera, Germania, Francia, Portogallo, Polonia, Spagna, Slovenia, Slovacchia, Croazia, Ungheria, Irlanda, Inghilterra, Olanda, Finlandia, Austria), anche da qualificati solisti e importanti compagini corali, in rinomate sedi concertistiche, importanti chiese e basiliche e in occasione di prestigiosi festival e concorsi. Dal 1º febbraio 2017, dopo aver vinto la relativa selezione nazionale, è il direttore della Cappella Civica di Trieste, storica istituzione fondata nel 1538 presso la quale ha precedentemente (dal 2008) ricoperto il ruolo di organista. In questa veste programma l’attività artistica, compone brani per le liturgie e dirige il coro nelle funzioni domenicali e festive nella Cattedrale di San Giusto, trasmesse in diretta da Rai Fvg, nonché nell’attività concertistica. Dopo aver diretto in passato il coro Giovani del Contrà, il Coro giovanile dell’Istituto Musicale Opitergium di Oderzo (Tv), il gruppo vocale Made in Vox e il Coro giovanile del Liceo Oberdan di Trieste, dirige da vari anni l’Ensemble InContrà di Fontanafredda (Pn), con il quale ha vinto premi in concorsi nazionali e internazionali. È stato invitato più volte a far parte di giurie di concorsi nazionali e internazionali, soprattutto per quanto riguarda la composizione.
Nel suo sito web si definisce compositore, direttore, pianista e organista. Tutte queste figure trovano una sintesi nella sua attività compositiva?
Senz’altro. Nell’ordine, io nasco pianista. Poi ho avuto l’occasione sin da bambino di suonare l’organo nella mia parrocchia e ho sviluppato già negli anni del liceo una vera passione per questo strumento, per la musica di Bach e per la musica d’organo antica: così ho deciso di studiarla e di conseguenza ho intersecato per una certa fase gli studi organistici con quelli pianistici. Ho sempre accompagnato molti cantanti e strumentisti anche con il pianoforte, perché mi è sempre piaciuto e ho sempre trovato più congeniale suonare con gli altri che suonare da solo, però l’organo mi ha offerto l’opportunità di lavorare con i cori; è stata questa l’occasione di conoscere un repertorio che mi era abbastanza estraneo, perché io purtroppo non ho cantato da ragazzo. Così si è acceso l’amore per il coro, che ha anche favorito le prime esperienze compositive.
Dirigere le proprie composizioni pone davanti a problematiche diverse rispetto all’eseguire brani di altri autori?
Ho cominciato a scrivere con regolarità e una certa frequenza piuttosto tardi e all’inizio, ovviamente, non ero molto conosciuto ed eseguito. Dirigere un proprio coro e scrivere qualche pezzo per esso è anche l’occasione preziosa per “far suonare” i propri lavori, verificare come quello che hai immaginato trovi riscontro nella realtà sonora e, di conseguenza, attuare anche meccanismi di crescita e acquisire consapevolezza nella propria scrittura. Il fatto che spesso mi capiti di eseguire miei lavori dipende essenzialmente da due fattori. L’impegno di maestro di cappella con la Cappella Civica di Trieste prevede lo scrivere musica (in prevalenza destinata alla liturgia) come parte integrante e caratterizzante. Nel caso dell’Ensemble InContrà ho anche la possibilità di scrivere per un coro, che dirigo e conosco molto bene, con cui condivido un gusto musicale e un ideale sonoro preciso. Capita dunque spesso che ci sia almeno un brano mio nei programmi che presentiamo, anche perché il coro, carinamente, canta volentieri lavori del proprio direttore.
Nondimeno cerco comunque di non inflazionarne la presenza e anzi, in più di qualche occasione, abbiamo predisposto progetti per i quali sono stati commissionati lavori ad altri amici colleghi che stimo particolarmente; mi piace che i compositori, anziché essere in competizione, si confrontino, si stimolino gli uni con gli altri e si diano altruisticamente delle reciproche opportunità. In merito alla seconda parte della domanda, dirò che non credo di avere un atteggiamento diverso nell’esecuzione di un brano mio piuttosto che nell’esecuzione di un brano di un collega. Piuttosto, se il tempo per studiare è poco, tendo a essere più scrupoloso con i brani di un altro che con i miei. Direi comunque che nell’eseguire la tua musica tendi ad astrarti e a lavorare sul tuo brano come fosse un brano altrui. La differenza più marcata è che quando lavori su un tuo pezzo sei perfettamente consapevole delle intenzioni in rapporto al testo, alle sonorità, al timbro; quando affronti lavori di altri, come per qualsiasi attività interpretativa, devi invece scavare nella partitura. A tal proposito, trovo che l’attività di scrivere, indipendentemente dai risultati, sia molto utile anche pedagogicamente per un direttore di coro, perché abitua a entrare nei meccanismi che stanno alla base del linguaggio musicale e della composizione, rendendo più facile cogliere le intenzioni dell’autore, capire quali mezzi musicali vengono usati e come sono gestiti i vari aspetti della scrittura (l’armonia, il ritmo, la tessitura) in funzione di determinate intenzioni espressive ed effetti. Tant’è che, quando lavoro col coro, personalmente non disdegno per nulla di sottolineare questi aspetti, anche se molti ritengono tale condivisione inutile, quasi che il coro dovesse essere solo un semplice strumento allenato a ubbidire alle indicazioni del direttore senza farsi troppi problemi. Io credo invece che se tutti gli esecutori sono consapevoli di ciò che c’è in partitura e di come viene espresso, la resa nel pezzo sarà sicuramente più efficace e pregnante.
Proviamo ad andare sul tavolo di montaggio. Nello scrivere parte da un testo o da una suggestione musicale?
Nella scrittura corale per me il testo è la base di partenza: non mi capita mai di buttare giù delle idee musicali in assenza di un testo. Difficilmente mi metto a tavolino con l’idea preconcetta di scrivere un brano in questo o quello stile; è sempre il testo, nonché il clima che esso mi suggerisce, a invitarmi a determinate soluzioni musicali. Anche quando scrivo, ad esempio, un semplice ritornello monodico per un salmo responsoriale sento sempre l’esigenza di trovare una connessione col testo, che può essere di diverso tipo. Può esserci una connessione sotterranea, che ha a che fare con una tinta generale suggerita dal testo. Oppure una maniera “madrigalistica” o simbolica, o entrambe. Nel caso della musica sacra si può cercare anche una certa asciuttezza, un’astrattezza della resa musicale, per mettere in rilievo il testo nella sua oggettività. Personalmente, una certa aderenza emotiva al testo è per me ineludibile. La scelta del testo può invece dipendere da vari fattori: nel caso della liturgia, chiaramente, agisci in un contesto che è già in parte pre-tracciato. Quando la scelta è libera, può dipendere molto da quello che in quel momento hai voglia di esprimere – un sentimento o un’atmosfera – oppure da alcune suggestioni musicali che hai ricevuto da un ascolto o da un’esperienza che ti ha particolarmente colpito. Allora cerchi un testo che ti aiuti a dare suono a quel clima, a quel sentimento, a quella atmosfera. A volte parto da specifiche preferenze letterarie; per esempio, amo molto Emily Dickinson e ho scritto più volte brani su suoi testi. Nel caso di commissioni, si tratta spesso di concordare, se non proprio il testo specifico, almeno forma e contenuti. Penso che in realtà si possa trovare qualcosa di interessante in ogni testo. Il maestro Marco Sofianopulo, mio insegnante di composizione corale a Trieste, insisteva molto su questo aspetto: diceva che bisognerebbe allenarsi a mettere in musica anche la lista della spesa, trovando una maniera per sfruttare tutto quello che il testo offre. C’è l’elemento semantico ma c’è anche quello fonetico, ad esempio. Io non sono certo un compositore d’avanguardia, per cui quest’ultimo non diventa mai predominante nei miei lavori, però può ricoprire un ruolo molto importante dal punto di vista timbrico o espressivo.
Nel suo discorso emerge la differenza tra musica profana e musica sacra e liturgica. Sente di avere approcci diversi?
Direi che ci sono due aspetti del mio scrivere comuni a entrambi gli ambiti e che sono alla base della mia sensibilità. Da un lato un aspetto emotivo, cioè un legame con l’idea della musica come linguaggio atto a veicolare emozioni, il che non vuol dire essere sentimentalisti ma avere una certa concezione dell’evento musicale a prescindere dal linguaggio o stile che si adotta. Questa concezione, che potrebbe essere apparentemente più legata all’ambito profano, la sento fortemente anche nell’ambito sacro, al modo dell’approccio bachiano influenzato dalla corrente teologica pietista. D’altro canto, prescindendo da qualsiasi elemento confessionale, anche se io sono cattolico, e da qualsiasi presunzione di profondità spirituale personale, per me l’arte, la musica, la bellezza sono concetti estremamente profondi che chiamano in causa inevitabilmente un elemento spirituale forte, chiamiamolo pure religioso. Insieme all’elemento emotivo, nel linguaggio musicale non riesco a non percepire anche una sorta di religiosa sacralità, ovvia per la musica sacra, meno per quella profana. Dal punto di vista più squisitamente linguistico, il discorso è più variegato. Nel repertorio liturgico inevitabilmente ti collochi all’interno di una serie di linguaggi che si sono succeduti nel corso del tempo e che associamo più di altri al senso del sacro, del religioso e, ancora di più, del liturgico. Nell’ambito profano le influenze possono essere sicuramente più ampie e libere fino a toccare anche linguaggi extra-colti dei nostri tempi. Al di là di questa distinzione, che può portare anche a esiti molto differenti, credo comunque che la natura fondamentale del mio approccio alla musica abbia degli elementi di base comuni, per l’appunto l’aspetto emozionale e quello spirituale, che echeggiano in ambedue gli ambiti. Un esempio è il pezzo che presento su queste pagine (Epitaphium); scritto su un testo di Marziale, un epicedio per una piccola bimba, pur essendo a tutti gli effetti un brano secolare, ha un mood sacro, religioso, quasi fosse una preghiera.
Veniamo al suo essere maestro di cappella. Come vive questa esperienza nel mondo d’oggi?
Mi piace molto la possibilità di riunire il lavoro di concertazione, di direzione artistica e di composizione recuperando una dimensione artigianale del far musica; rispondere alle esigenze del momento, ai tempi sempre cangianti, a situazioni non sempre programmabili toglie un po’ di patina romantica alla figura del compositore “ispirato” e recupera quella del buon artigiano che deve destreggiarsi in ogni situazione. Vivo questo ruolo in una maniera intensa anche per via della mia fede religiosa, come un’esperienza spirituale ulteriore. Ho la fortuna di operare in un ambiente in cui comunque sono lasciato abbastanza libero di gestire il repertorio e le scelte stilistiche ma è chiaro che quello attuale sia un momento difficile in ambito liturgico-musicale. C’è un po’ di confusione: esteticamente si tende al ribasso, si insiste molto, a volte indiscriminatamente, su alcuni aspetti, come quello della partecipazione assembleare, non così semplici da realizzare in un contesto culturale dove non si canta, non c’è preparazione, non c’è abitudine. Anche il rapporto col clero va gestito; non venendo meno a quello che si ritiene giusto e corretto fare, alla ricerca della qualità, bisogna cercare di collaborare tutti, senza irrigidimenti, a una buona liturgia. La musica liturgica è certamente una musica funzionale, ma per un credente è la funzione più nobile e più alta. «Cantate inni con arte», è scritto nei salmi, e l’arte dovrebbe aiutare quel processo di avvicinamento all’Assoluto che nel rito si realizza; non solo incontro di preghiera, qualcosa di ancor più profondo. La sopravvivenza dei cori liturgici è sempre più complessa. La Cappella Civica di Trieste, istituzione cinquecentesca, canta ogni domenica in diretta radio per la Rai Fvg oltre che nelle principali festività dell’anno liturgico; un impegno costante e gravoso per il quale è sempre più difficile trovare collaboratori in grado di dare piena disponibilità. Si canta costantemente, con repertori settimanalmente diversi e con un paio di prove; una grande scuola per il direttore, che deve gestire il poco tempo a disposizione saggiamente per “mettere in piedi” in modo efficace i brani con gli accorgimenti essenziali, ma una situazione che pone sempre più difficoltà in relazione alla reperibilità e all’affidabilità dell’organico. Il cantare in chiesa per la liturgia, rispetto al concerto, sembra aver perso un po’ di fascino, purtroppo.
Dal punto di vista stilistico, le sue scelte quando scrive musica sacra o musica liturgica vanno verso dei riferimenti antichi o più moderni?
Mi sento abbastanza libero, però ho una mia idea interiore di suono da abbinare al sacro. Tendenzialmente nella scrittura tendo ad avere una certa predilezione per la modalità; nel contesto liturgico può assumere più i contorni di una modalità vicina a quella del Novecento francese o, in alternativa, di una modalità più arcaicizzante, con riferimenti al canto gregoriano e alla polifonia antica, meno suadente, più austera. Amo molto anche la musica inglese del Novecento, specialmente alcuni autori (Vaughan Williams, Herbert Howells e altri); anche quella può diventare un riferimento, specialmente quando uso l’organo, e mi consente di creare altri colori e atmosfere. La liturgia è fatta di momenti estatici e mistici, ma anche di momenti solenni e celebrativi e determinati repertori possono essere di particolare ispirazione per gli uni o per gli altri. Nella musica profana ritornano ancora questi modelli ma mi apro di più anche a uno stile vicino a certa musica corale contemporanea caratterizzata da un tonal-modalismo o da una tonalità allargata, prevalentemente diatonica. Ovviamente, cerco in ogni caso di essere personale, di non scivolare nell’imitazione degli autori di maggior successo nella coralità attuale. Ciascun compositore ha sempre sviluppato, attraverso i suoi insegnanti o per una sua necessità interiore, la ricerca di una propria originalità; la vera originalità è per me “essere personali”. Si può cercare anche un proprio “inedito” linguaggio musicale ma, onestamente, viviamo in un’era in cui si ha la sensazione che sia già stato fatto tutto quello che si poteva fare. Allora io credo che non dobbiamo aver paura che nella nostra musica risuoni il passato, perché è quello da cui proveniamo, di cui sentiamo il peso sulle nostre spalle quanto forse mai in nessuna epoca precedente; l’arte non è mai stata così tanto principalmente fruizione dell’arte prodotta nel passato come ai nostri giorni. Quello che secondo me porta a essere originali, anche se può apparire un concetto un po’ semplice, è fare una ricerca sull’autenticità, sulla sincerità di ciò che si scrive; il problema stilistico, allora, diventa secondario. Se c’è sotto la ricerca di una propria identità artistica personale, si è sé stessi indipendentemente dal fatto che si scriva modale o tonale, moderno o tradizionale, perché c’è una personalità più profonda che comunque emerge sempre, attraverso aspetti della scrittura tanto tecnici quanto espressivi. Il complimento più bello che può ricevere una mia composizione è quando mi dicono «si sente che è tua». Non è possibile che tutti trovino sempre bello ciò che scrivo; è normale che a qualcuno piacerà e a qualcuno no. Ma il riconoscimento che in una composizione c’è qualcosa che viene avvertito come tuo significa che c’è una forma di individualità in ciò che scrivi, legata al tuo modo di essere musicista. C’è un esempio che amo fare, chiaramente inarrivabile per grandezza ma che rende bene l’idea: penso sempre a Stravinsky, che ha cambiato diverse volte stile e linguaggi nella sua vita artistica, eppure due note bastano per riconoscerlo subito; mi sembra l’ideale cui tendere.