Nasce a Tricesimo (Udine) nel 1956. Nel 1981 si diploma in trombone presso il Conservatorio J. Tomadini di Udine e successivamente insegna Educazione musicale nella scuola media. L’inizio del suo percorso nell’ambito della musica corale è fortemente ispirato dalla scoperta dell’opera del maestro Bepi De Marzi e dai suoi insegnamenti. Nel 1978 fonda il laboratorio corale Vôs de mont con il quale comincia a proporre canti originali di cui è compositore e autore e facendolo diventare un rarissimo esempio di “coro d’autore”. Sulla sua produzione artistica sono state discusse alcune tesi di laurea riguardanti sia il linguaggio musicale che quello poetico. Nel corso degli anni Marco Maiero è stato insignito di numerosi premi istituiti dal mondo corale e culturale. Dal 2001 fa parte dei Brassevonde, ensemble di ottoni che propone un repertorio che spazia dal 1500 ai giorni nostri.
Il catalogo delle composizioni e ulteriori approfondimenti su: marcomaiero.it
Partiamo dalle origini; come si è avvicinato alla musica?
Presumo di non aver mai percepito durante l’infanzia segnali di determinate predisposizioni e di conseguenza ho ricordi indefiniti sui miei primi passi nel mondo della musica. In casa si conviveva con un parente musicista, trombettista, compositore e direttore di banda e forse fu per questo che quando avevo otto-dieci anni i miei mi fecero frequentare le prime lezioni che, viste le premesse, furono lezioni di tromba. Da lì la storia cominciò. Suonai per anni nella banda e intorno al 1976 ne assunsi la direzione. Frequentai il conservatorio di Udine e parallelamente l’istituto magistrale della città. A metà percorso degli studi musicali mi resi conto che la tromba non era quanto di meglio riuscissi a padroneggiare. Scelsi allora di optare per il trombone e da quel momento al diploma il percorso fu più agevole. Pensandoci, posso affermare con un po’ di ironica supponenza che non fui io a cercare la musica, ma fu quest’ultima a entrare nella mia vita. Io non opposi resistenza.
Come è avvenuto invece l’approdo al mondo corale e quando ha iniziato a comporre?
Come accade in tante storie che sembrano aver un destino segnato, l’autentica rivelazione musicale non coincise propriamente col percorso degli studi. Durante gli anni dell’adolescenza, quasi come naturale conseguenza delle esperienze nei campeggi montani parrocchiali e nei momenti conviviali, maturò in me un vivace interesse per la musica cantata, con o senza chitarra. Erano i tempi dell’affermazione dei cantautori, ma, insieme alle loro canzoni, s’intonavano anche i canti della tradizione corale. Non avvertivo conflittualità nell’avvicinare due espressioni almeno apparentemente distanti e, soprattutto, non avvertivo gerarchie. Ogni cosa aveva una sua ragione di esistere. Probabilmente in un diverso ambiente socio-culturale sarei rimasto legato al mondo della canzone, ma in quel momento il canto corale mi conquistò. Ascoltai mille volte l’intera raccolta degli otto LP del coro della SAT e li imparai a memoria. Contemporaneamente venni a conoscenza di nuovi canti per coro maschile scritti da un tale che di cognome faceva De Marzi. Intorno ai 22-23 anni si consolidò in me l’idea di costituire un coro. Nacque così il Vôs de mont (complice indispensabile della mia esperienza corale). Per il suo battesimo pensammo a un concerto proprio con i Crodaioli di Bepi De Marzi (non poteva andare diversamente). Fu durante quell’incontro che in me maturò l’intenzione, alla stregua del maestro di Arzignano, di propormi come compositore e divulgatore di qualcosa di personale: mi entusiasmava l’idea di un coro “menestrello”.
Quali sono stati i modelli cui si è ispirato?
Da quanto detto prima si possono facilmente individuare i miei modelli ispiratori. In un primo tempo è stato determinante l’evocativo approccio alla coralità del noto coro trentino, al suo riprendere e riflettere gli echi della mia reale frequentazione della montagna. Sappiamo bene, in seguito a tante trattazioni filologiche, che la montagna nei canti della SAT c’entra e non c’entra, ma poco importa: in me, come in molti altri, l’effetto della suggestione del “canto di montagna” è stato evidente. A questo primo approccio si unì ben presto la rivelatrice e rivoluzionaria proposta di Bepi De Marzi che inventò le storie nuove da cantare. Averlo conosciuto e frequentato è stata una felicità e gli sono grato per aver riconosciuto le mie potenzialità anche quando la mia prima produzione lasciava molto a desiderare. Mi ha insegnato molto, ho cercato di imparare sempre da lui. Non da meno, nella mia ispirazione musicale è stato importante l’ascolto dei cantautori italiani di cui, a mio parere, il principe incontrastato è stato Fabrizio De André. Dall’ascolto di quest’ultimo ho capito l’importanza della potenza e della precisione, direi quasi maniacale, del testo. Ricordo, con un tratto che vuole essere intenzionalmente provocatorio e polemico, che si tratta di anni in cui chi non ascoltava la musica rock del mondo anglosassone era considerato musicalmente inferiore. E devo dire che in tal senso, nel panorama culturale e musicale italiano, la situazione purtroppo non è ancora migliorata.
Come si sono completate vicendevolmente le attività di direttore e di compositore?
Non posso negare che l’approccio alla direzione del coro sia stato guidato e sostenuto inizialmente dall’irresponsabile leggerezza che accompagna la gioventù. L’importante era provarci, anche se la mia tecnica era molto carente. A complicare la situazione dopo breve tempo fu il modo un po’ scorretto con cui proponevo i miei canti. Inizialmente non li interpretavo secondo le dinamiche che avevo prestabilito ma, preoccupato di ascoltarli per la prima volta e spinto dall’esigenza di intuire se funzionassero, se avessero una loro autonomia strutturale, se potessero entrare nel cuore dell’ascoltatore, non dedicavo la giusta attenzione ai dettagli esecutivi. Fortunatamente mi sono accorto ben presto che anche la forma è sostanza e quindi ho cercato, anche col rapporto costruttivo dei cantori del Vôs de mont, di migliorarmi. Posso dire che si è via via consolidata in me un’importante connessione tra la direzione e la composizione con un conseguente favorevole condizionamento delle due fasi di lavoro col coro e per il coro. Quando dirigi i tuoi lavori ti accorgi di quanto di buono o di cattivo hai scritto e questo ti spinge a correggere l’approccio ai lavori futuri. Quanto affermo non è una grande novità, ma va sottolineato che sperimentare questa relazione nell’ordinaria attività è estremamente costruttivo e appagante.
Come nasce un nuovo brano musicale, come si accende la scintilla dell’ispirazione e quali sono gli elementi musicali e testuali imprescindibili?
Anche se talvolta certi modernismi mi hanno attratto e affascinato, sono sempre stato fedele all’idea che un canto, o canzone che dir si voglia, debba essere portatore di un messaggio comprensibile che condensi in modo bilanciato testo e musica. Può talvolta esserci quel “di più” che favorisce il primo aspetto o, viceversa, il secondo, ma nell’insieme deve essere premiata a mio avviso un’idea di equità. I miei canti nascono con l’intenzione di privilegiare il racconto, la funzione rivelatrice dei sentimenti, i segni dei nostri giorni; vorrei sempre riuscire a coinvolgere convintamente le molte anime che li intonano e che li ascoltano. Non ha quindi un’importanza decisiva il fatto che nasca prima il testo oppure la musica, l’importanza è non smarrire il motivo per cui si scrive, l’obiettivo che si vuole raggiungere. È chiaro che per me la comunicazione col cantore e col pubblico vuole e deve passare attraverso una rivelazione di sentimenti sinceri e appassionati che lascino dentro, dopo un concerto, qualcosa da portarsi a casa. Gli argomenti non mancano mai, si tratta semplicemente di raccontare la nostra vita. I sentimenti sinceri e appassionati sono complici di ogni nostra attività. Possiamo cantare di ogni cosa e su ogni cosa. Ancora spero, giorno dopo giorno, di avere sempre la fortuna di essere illuminato dal mistero e dalla bellezza. Ovviamente non essendo io il solo a cantare devo cercare di formulare gli argomenti in modo che siano condivisi dai cantori. Posso affermare che operare in questa modalità non mi ha fatto mai sentire prigioniero, ma ha stimolato in me un modo alternativo di raccontare il mio mondo più intimo e quello che mi circonda. Mi piace cantare la montagna (sono e siamo partiti da lì), le stagioni, la natura in genere, ma anche i problemi della nostra difficile convivenza con lei. Mi piace riflettere sui problemi esistenziali scavando nelle contraddizioni e nei dubbi. Mi piace dare spazio a certe idee musicali che sono entusiasmanti di per sé e che, in tal modo, richiedono testi più semplici e funzionali. In questo operare non mi separo mai dal principio che la produzione musicale debba prevedere un giusto equilibrio tra ragione e sentimento, tra ispirazione e funzionalità, tra l’innovazione e un confortante agio esecutivo. Non ho mai desiderato fare musica con l’intento di cercare il pubblico che arriverà tra cent’anni e non mi piace l’arte guidata da una cerebralità fine a se stessa. Non mi piace per niente l’equazione che fa definire una cosa bella in quanto difficile.
Approfondiamo qualche dettaglio tecnico della sua scrittura: l’aspetto armonico e la resa polifonica sono già presenti “in nuce” nella prima fase di creazione o si dedica a essi in una fase successiva, privilegiando il fluire melodico-testuale?
Tutti coloro che si cimentano nell’atto compositivo attraversano varie fasi e si avvalgono dell’esperienza acquisita. Il modo di operare è in costante evoluzione, condizionato da periodi in cui si privilegiano alcune situazioni e sostenuto da alcune urgenze di scrittura. Ecco allora che alcuni canti nascono già ispirati da un’idea armonico-contrappuntistica ben precisa mentre altri mi fanno tentennare già nel momento della scelta del modo. Altri ancora rivelano in corso d’opera percorsi costruttivi inaspettati. La ricerca dell’inciso iniziale occupa e preoccupa la prima fase della composizione anche perché non vorrei essere ripetitivo. In seguito, quasi sempre penso allo svolgersi della melodia, a farla “cantare”. La felicità del lavoro di compositore, nella ricerca continua di soluzioni alternative, è scoprire che il percorso per arrivare all’idea compiuta può essere ogni volta diverso. Comporre per me è come camminare in montagna: in alto il desiderio di respirare il cielo compensa la fatica. Non posso trascurare il fatto che nella fase iniziale del mio lavoro di compositore sono stato condizionato dal suono del coro maschile. Poi, anche in seguito alla diffusione dei miei canti, l’idea compositiva è stata più aperta e ho trasportato per formazioni miste e femminili gran parte della mia produzione. Ci vorrebbero mille anni di vita per poter scoprire e sfruttare tutti i colori delle varie formazioni. Ogni insieme ha il suo suono e alcune sfumature sono inevitabilmente rese in modo migliore da situazioni sonore alternative.
Come definirebbe il suo linguaggio musicale? Ritiene sia cambiato nel tempo o pensa sia sempre fedele alle “intenzioni” iniziali?
Potrei collocare il mio linguaggio musicale nell’ambito di una polifonia attenta a esaltare la forza del testo. In una costante osmosi, testo e musica devono integrarsi a vicenda e non coprire le eventuali debolezze dell’uno o dell’altra. Ho sempre cercato l’innovazione ma non in modo esasperato e tale da compromettere la mia identità musicale e sono stato costantemente fedele alle “intenzioni” iniziali di una musicalità che faccia del coro un menestrello o un trovatore che dir si voglia. Per ottenere un risultato che si avvicini a questi principi la semplicità è d’obbligo. Sono convintissimo che se dovessi dichiarare l’amore a una persona non lo farei con acrobazie armoniche e contrappunti esasperati: tanto meno con frasi (musicali o testuali) che non si possano più ricordare dopo pochi secondi dall’ascolto. Sinceramente mi sono anche reso conto che queste mie convinzioni potrebbero rinchiudere il campo creativo dentro confini troppo rigidi. Ma è anche vero che spesso i confini sono determinati dai propri limiti.
Dalle sue parole si profila in modo sempre più chiaro la concezione del coro come entità narrante.
Anche in campo artistico i profondi cambiamenti del Novecento hanno travolto come un fiume in piena secolari certezze. Un continuo avvicendarsi di nuovi linguaggi sorprendenti, talvolta incomprensibili, a tratti persino provocatori, ha influenzato in modo sostanziale l’atto creativo. Se prima tutto sembrava scorrere in una consequenzialità “naturale” e secondo un’evoluzione scontatamente logica, nel “secolo breve” irrompono energie contrastanti che alterano le prospettive e costringono tutti, anche se non direttamente interessati, a una sorta di combattuta o, paradossalmente, semplicistica scelta tra l’innovazione incondizionata e il mantenimento rassicurante di un linguaggio a lenta evoluzione, sinonimo di qualcosa di indiscutibilmente giusto perché arriva dal passato. I cori, soprattutto nella seconda metà del Novecento hanno significativamente aderito a questa dualità. Molti, eredi dell’identità della tradizione, hanno proseguito sulla strada della testimonianza del passato. Molti altri, dopo un sistematico studio dello storico repertorio polifonico, hanno trovato ispirazione nei linguaggi innovativi e più complessi poco prima accennati. Soprattutto nei decenni a noi più prossimi abbiamo anche assistito a una notevole crescita delle qualità tecniche dei cori che si è agganciata a un’intensa attività compositiva in linea con l’imperativo del rinnovamento. I cori si sono cimentati in lavori via via più arditi dal punto di vista armonico e ciò ha evidenziato la grande possibilità esecutiva di molti complessi che, anche se non formati da professionisti, hanno dato prova di potersi collocare in molte raffinate attività musicali. Tutto questo cammino nell’innovazione ha fatto, però, la proverbiale vittima illustre. Da una parte l’esaurimento della spinta della tradizione dovuto a una sua graduale decontestualizzazione e associato a un evidente immobilismo tecnico, dall’altra l’attrazione indotta dalle novità e forse dall’inevitabile esterofilia che ci contraddistingue, hanno tolto al coro il ruolo di testimone e protagonista della quotidianità. Troppi compositori hanno privilegiato la musica e hanno sistematicamente trascurato il testo. È prevalso il concetto di una coralità molto tecnica che, a mio avviso, l’ha resa un’identità indefinita, a sé stante, produttrice di suggestioni sonore affascinanti ma anonime e impersonali. Continuo a ripetere, come in altre occasioni, che questo è un mio parere e che per fortuna tutti, in campo artistico, possono pensare e fare ciò che più li ispira. Mi prendo tuttavia la libertà di cercare di comprendere il fenomeno perché non ne condivido le conseguenze. Da tempo mi chiedo perché molta parte della coralità abbia imboccato esclusivamente questo sentiero che privilegia il suono a discapito del messaggio. Siamo giustamente indotti a migliorare sempre ogni aspetto della nostra attività ma mi sembra superficiale farlo senza esternare l’essenza autentica delle nostre anime. Sono convinto che la specializzazione accademica dei cori sostenuta da composizioni “povere” di testi (basti pensare all’infinito impiego dei testi liturgici passepartout) porti a una minore attenzione da parte del grande pubblico e alla mancata collocazione nell’ambito di attività musicali e culturali traversali.
Ritiene che questo influisca ad ampio raggio sulla percezione del ruolo e dell’attività dei cori?
Da quanto mi risulta, e nonostante i grandi e lodevoli sforzi della federazione corale nazionale di cui facciamo parte e che ci dà ospitalità in queste pagine, non godiamo di grandi interessi mediatici e c’è una generale indifferenza verso il nostro operato. Qualcuno obietterà che in fin dei conti l’interesse per il nostro modo di proporre la musica non è mai stato evidente. Sarà, ma io non mi rassegno a una visione riduttiva e rinunciataria. Dovremmo cercare di imporci all’attenzione con un prodotto che faccia comprendere le nostre qualità insieme alla poesia, cercare un pubblico più vasto che ci riconosca per la nostra dignità, pretendere spazi giornalistico-televisivo che non ci facciano percepire come dei marziani. Dovremmo convincere il grande pubblico a non classificarci sbrigativamente e superficialmente come cori di chiesa o cori degli alpini e reinventarci soprattutto con un repertorio che può raggiungere il cuore e non solo gli intenditori specializzati. Dovremmo stimolare i compositori a mettersi in gioco con testi scritti appositamente per la musica corale che ci facciano diventare protagonisti attivi della narrazione del presente. Affermo con convinzione che il testo vale il cinquanta per cento di un canto e il coro deve essere anche il menestrello itinerante che racconta la vita alla stregua dei molti cantanti e gruppi che popolano il modo della musica pop e rock. Diamo spazio alla poesia! Diamo voce a una poesia che non debba pagare dazio alla perfezione tecnica e tanto meno che non sia esternazione spudorata di banalità esistenziali.
Oltre ad essere così assorbito dal mondo corale ha avuto o ha anche altre attività musicali?
Sono stato insegnante di Educazione musicale nella scuola media. Da anni partecipo come secondo trombone all’ensemble di ottoni Brassevonde il cui nome gioca con la parola inglese brass, che come sappiamo indica la famiglia degli ottoni, interpretata però come termine friulano, per cui tutta la parola significa “bravi e basta” (per dire: proprio bravi, non c’è altro da aggiungere). Per questo gruppo scrivo sia elaborazioni che pezzi originali. Diversi di questi miei brani sono eseguiti un po’ ovunque da importanti ensemble, per esempio anche in Giappone. L’attività con questo gruppo è un grande divertimento. Ho scritto anche musica per il teatro.