Cominciamo con uno sguardo al passato, alla formazione, musicale e non. Il curriculum di un musicista contiene quasi sempre informazioni sui “maestri” con cui si è formato. I maestri lasciano sempre un’eredità, che non è fatta solo di contenuti: talvolta possono maggiormente sedimentarsi fattori di tipo metodologico, umano, abitudini di osservazione e analisi della realtà. Cos’è rimasto nel tuo essere artista, compositore, delle figure dei tuoi maestri? E cosa, eventualmente, hai ritenuto di “liquidare”, atto ugualmente lecito e doveroso nell’affrancamento anche dai mentori che riteniamo più saggi e fidati?
Restringendo il focus alla formazione universitaria i più importanti docenti sono stati il latinista Elio Pasoli e il musicologo F. Alberto Gallo, il cui rigore filologico e scientifico molto hanno influito sul metodo e il gusto della ricerca. Giacomo Manzoni, Aldo Clementi, Cesare Augusto Grandi, Cesare Franchini, Gabriele Bellini, Franco Ferrara, Gianluigi Gelmetti, Tito Gotti sono stati in maniera diversa ma tutti fondamentali nella mia formazione musicale, ciascuno per le proprie competenze specifiche. In particolare l’approccio metodologico e umano per la composizione di Grandi e Manzoni e nella direzione d’orchestra di Bellini mi hanno dato la possibilità di maturare il desiderio di ricerca e approfondimento delle diverse estetiche dell’espressione musicale, dell’importanza fenomenologica del suono, della continua evoluzione della tecnica strumentale e vocale. La rigorosa tecnica direttoriale di Bellini mi ha poi suggerito di investire e convogliare l’attività direttoriale in un trattato di propedeutica alla direzione pubblicato da Feniarco nel 2012. Anziché “liquidazione” di contenuti didattici preferirei trovare e definire il mio percorso verso posizioni autonome nella tecnica compositiva e nella direzione “una naturale rielaborazione della loro dottrina” per adattarla alle esigenze ed esperienze, rivelatesi a loro volta fondamentali, del mio insegnamento accademico nei conservatori italiani; questa evoluzione mi ha agevolato soprattutto nel rapporto con le accademie europee attraverso una sintesi che ha comportato qualche volta anche un “divergente indirizzo seppur ponderato” nei contenuti rispetto a quelli ricevuti.
Molto spesso i compositori prevalentemente dediti al repertorio corale – e in Italia questo aspetto si pone con una certa evidenza – appaiono come confinati in un mondo a sé, alquanto distante da quanto accade negli ambienti della cosiddetta “nuova musica”. Tu sei un compositore che ha dato tanto anche alla musica strumentale, al repertorio da camera e sinfonico. Quale rapporto ritieni di aver avuto con le correnti compositive dell’avanguardia storica e con quelle di oggi?
L’avanguardia “storica” ha costituito per me un crogiuolo di sperimentazioni, di allargamento degli spazi sonori, di ricerca timbrica, di ricchezza espressiva e anche di estraneazione rispetto al linguaggio più consueto nel mondo corale che in maniera parallela invece era rimasto ancorata per molto tempo quasi esclusivamente al mondo delle regole armoniche. Ma, al di là dell’estetica avanguardistica, ho cercato di saldare il mio linguaggio alle più moderne espressioni che con disparatissimi processi tecnici ed espressivi si sono succeduti nella letteratura musicale soprattutto del Novecento.In sintesi, l’avanguardia “storica” ha costituito per me un punto di riferimento metodologico e nello stesso tempo un punto di partenza per scoprire quanto poteva essere tradotto di quell’estetica a una coralità amatoriale (non solo italiana) che nell’ultimo quarto del secolo passato difficilmente poteva tenere un rapporto “naturale”, di interesse e soddisfazione anche da parte dei cantori. Ma nella ricerca di un mio linguaggio compositivo ho guardato con molto interesse al periodo immediatamente precedente a queste avanguardie, soprattutto alla rivoluzione timbrica e formale di Debussy, Ravel e Poulenc che sono i volani fra i più importanti nel passaggio a nuove possibilità nella composizione corale, alla ricercatezza espressiva e ricchezza di toni di Petrassi e ancor prima di Pizzetti, all’asciuttezza delle linee polifoniche di Schönberg e Hindemith, alla grande espressività di Penderecki, Messiaen e Ligeti e alla scrittura di origine etnica di Bartók. Infine, nel mio percorso compositivo molta parte ha avuto lo studio delle fonti italiane che riguardano la musica popolare e alcune sue interpretazioni rielaborative (in primis quelle di Giorgio Vacchi), in cui ho trovato un’enorme ricchezza di spunti sul piano formale, nella costruzione della partitura, timbrico e dinamico. L’accresciuta tecnica dei cori italiani, oggi, finalmente consente anche a noi di spingere sempre più in avanti le possibilità espressive con la ricerca e l’uso di materiali nuovi, come per esempio hanno fatto i compositori del nord europeo con i loro cori.
E il tuo rapporto con il passato più remoto, con i grandi classici?
Le fonti antiche e i compositori classici rimangono, con le loro diversità tecniche ed espressive, motivo per me di ammirazione e studio: per questo, rivissuti e reinnestati alle esperienze estetiche più moderne, mi continuano a suggerire idee e obiettivi nuovi.Le suggestive ed essenziali strutture del repertorio medievale hanno fortemente ispirato brani come Proverbi (sequenza di proverbi affrescati nel castello di Fénis, vicino ad Aosta) e la Missa brevis; il Rinascimento col suo senso di equilibrio formale e la levigatezza della polifonia bachiana hanno ispirato Ottava fuga, su testo di Saba; ma soprattutto l’espressività monteverdiana, le strutture dialettiche e timbriche di Mendelssohn hanno costituto per la musica corale riferimenti nello studio e nell’analisi di un rapporto fra testo e musica difficilmente ripetibile.
Al di là delle reti di relazioni, entrando più nell’intimo del tuo essere artista, qual è il significato più profondo, per te, dell’atto di scrittura?
La composizione è per me una forte pulsione che nasce dall’esigenza di comprendere, di analizzare e quindi di comunicare con i suoni alcuni tratti del mondo in cui sono immerso: la natura con i suoi misteri e le sue bellezze, l’universo umano con i propri moti emotivi, il ruolo del destino, lo studio delle astrazioni simboliche prodotte attraverso l’arte. La traduzione in suono di tutto ciò avviene per mezzo di forme ed espressioni musicali alcune volte seriose, altre più leggere, come il gioco, il nonsense, l’improvvisazione e l’alea, in cui si mescolano la ludicità dell’obiettivo, con sintassi e lessico anche tradizionali, a espressioni allusive e più indefinite nel linguaggio.
Quando si compone per voci, si ha quasi sempre di fronte un testo. Anche laddove non ci sia un testo, il compositore deve comunque scegliere e proporre delle realtà fonemiche che finiscono per dare un senso di espressività testuale all’opera. Che tipo di rapporto instauri con il testo, com’è il tuo lavoro sul testo?
Ho sempre visto nel testo, sia che veicoli un contenuto poetico sia che gli si affidi una comunicazione fonemica, non la necessità di una traduzione sonora immediata di tipo “madrigalistico” o di ricerca del puro effetto musicale ma, lasciando da parte il descrittivismo che il mondo dei suoni ti può mettere a disposizione, la mia è una costruzione di immagini poetiche di grande astrazione simbolica. Facendo qualche esempio, in Ulisse mi sono concentrato, grazie al grande spessore della poesia di Saba, sul significato del rapporto conflittuale fra l’Ulisse alla continua scoperta del nuovo e la nostalgia di un amore saldo, familiare e stabile. Un altro esempio di espressività poetica si trova in Pape Satàn, dove il testo si disintegra in unità fonemiche e diventa un “pretesto” per ricostruire un significato attraverso espressioni metalinguistiche, come l’allusione all’approccio amoroso con intonazioni di apprezzamento, di diniego, di scherno, di ironia e di insofferenza, nel dialogo dei due soggetti coinvolti nell’azione. Dunque, in genere la rinuncia alla parafrasi mi guida alla ricerca di una scintilla interna al testo che dia la possibilità di una nuova interpretazione il più possibile coinvolgente anche per l’ascoltatore.
Nel tuo repertorio ci sono testi di autori che vanno da Alceo ai grandi del Novecento e i contemporanei. Tuttavia, per alcune composizioni, hai ritenuto di scrivere tu stesso i testi, per esempio, per limitarci al repertorio a cappella, in …e quando quello sciamano della luna…, in Estasi, in Forse… in Lontananza, in Fruscio di foglie. È un’esigenza ulteriore della tua poetica complessiva?
L’approccio ai testi dei grandi della letteratura costituisce un banco di prova assai complesso, per il rischio evidente che l’apporto musicale risulti di poca efficacia se non addirittura impoverente, o perché l’astrazione simbolica di cui parlavo prima potrebbe risultare una sovrapposizione non compatibile col testo scelto per la composizione. La poesia ha una sua struttura ritmico-metrica e una propria musicalità che trova spazio nell’intonazione della voce recitante, nelle assonanze, nell’onomatopea, ecc. Nella qualità espressiva di alcuni autorevoli poeti perciò ho trovato ancoraggi sicuri per realizzare il mio obiettivo espressivo. Ma quando l’elaborazione di prospettive timbriche, dinamiche, agogiche rischiavano di distorcere un testo poetico d’autore nel tentativo di costringerlo nelle mie intenzioni compositive, ho preferito procedere alla composizione musicale parallelamente alla costruzione di un testo che mi aiutasse a esprimere senza ambiguità la forma musicale che avevo come obiettivo.
C’è una differenza sostanziale tra quando scrivi per coro e/o voci e quando scrivi per strumenti o per orchestra, senza l’uso di voci?
È ovvio che ogni organico orchestrale, cameristico e solistico ha proprie caratteristiche formali, timbriche, ritmiche, di spessore e di densità nelle sovrapposizioni simultanee di suoni e di linee e si realizza in propri spazi espressivi. Detto questo, nello sviluppo compositivo corale ho preferito orientarmi come se procedessi a una “strumentazione” per coro, cioè una scrittura corale impostata sulla ricerca timbrica di nuovi impasti e non solo sull’attribuzione dei ruoli vocali secondo le estensioni dei registri, affinché anche il melos o l’aggregazione di suoni nascessero assieme al colore e ai parametri di cui ho parlato prima. In questo senso sono orientate composizioni come Estasi, per coro a cappella, e Trenodia, in cui si sviluppa un incessante scambio nella ricerca timbrica fra suono vocale e strumentale.
La tua scrittura presenta una varietà di soluzioni che vanno dalla semiografia più tradizionale a sistemi grafici di nuova creazione. Quanto è stato necessario, per te, riorganizzare o reinventare la semiografia corale in relazione alle tue esigenze espressive?
L’allargamento della fenomenologia sonora, si pensi ai rumori, ai fonemi consonantici, allo Sprechgesang e alle espressioni metalinguistiche (riso, pianto, domanda, esclamazione, grido ecc.) ha comportato un processo di adeguamento semiografico durante il ventesimo secolo davvero significativo, qualche volta personalizzato e inventato dallo stesso compositore o elaborato solo per una particolare partitura. Nel mio percorso di evoluzione semiografica ho sempre tenuto conto del fatto che soprattutto la scrittura corale dovesse essere il più possibile di immediata comprensione anche per la platea dei cori amatoriali. Per esempio, uno dei brani corali che più mi ha impegnato in tal senso è stato Per non dimenticare, inserito come quarta sezione di Trenodia. Nella legenda che accompagna la partitura ho analizzato nel modo più esaustivo possibile la simbologia adottata in quei casi che non avessero precedenti noti in letteratura. Mi sono affidato anche a qualche disegno-ideogramma quando l’alea prevale sul rigore intonativo e ritmico.
L’attività didattica da te svolta in materia corale ha certamente un peso notevole nella tua vita di musicista, e vi è un consenso unanime nel riconoscerne il valore in ambito italiano come all’estero: la tua cattedra al Conservatorio di Bologna è stata un punto di riferimento per diverse generazioni di compositori e direttori di coro, per non dire di tutto il resto della tua attività di docente. Le tue opere didattiche sembrano concepite in continuità con il tuo modo di pensare la creazione musicale, probabilmente derivano da una visione olistica a cui partecipa ogni manifestazione del tuo essere musicista, compositore, didatta. Una composizione come Prismi, che ha come sottotitolo 9 segmenti di improvvisazione per tre cori, è allo stesso tempo opera e strumento didattico volto allo studio dell’improvvisazione e dell’alea. Ma anche i tuoi Esercizi di intonazione e lettura, lavoro didattico pubblicato dall’Associazione Emiliano-Romagnoli Cori, ha come obiettivo l’intonazione del coro come prodotto di un preciso modo di fare musica insieme, basato sulla fisiologia dell’orecchio interno, ma anche su un continuo scambio tra regola e letteratura, tra regola e creatività. Confermeresti questa visione?
Certamente. Riconosco che devo moltissimo a tutti i miei studenti che nelle varie situazioni didattiche (fondamentale quella di Bologna) mi hanno consentito di avviare un proficuo rapporto di reciprocità; il loro apporto ha costituito una grande ricchezza per poter crescere continuamente nelle mie conoscenze ed esperienze, e di basare l’insegnamento sul rispetto pedagogico della persona e sulla perseveranza nella ricerca della risoluzione delle singole esigenze e difficoltà. Tutto ciò, assieme all’attività compositiva e direttoriale, si realizza nella fattispecie degli esercizi tecnici come il frutto dell’esperienza diretta e di ricerca applicata alla fenomenologia del suono vista come una possibilità esistente nella letteratura musicale, su cui ho innestato anche un percorso di creatività o di volano creativo per la tecnica dell’alea: i 9 segmenti offrono la possibilità al direttore-compositore di utilizzare in totale libertà i parametri suggeriti e di generare nuove soluzioni alla stessa stesura degli intrecci sonori, non esclusa quella di aggiungere testi fonemici o inventati dal direttore stesso.