James MacMillan è il più importante compositore scozzese della sua generazione. Ha attirato per la prima volta l’attenzione con l’acclamata première ai BBC Proms di The Confession of Isobel Gowdie (1990). Il suo concerto per percussioni Veni, veni Emmanuel (1992) ha ricevuto oltre 500 esecuzioni in tutto il mondo da parte di orchestre come la London Symphony Orchestra, la New York Philharmonic Orchestra, la Los Angeles Philharmonic Orchestra e la Cleveland Orchestra. Tra le altre principali composizioni vanno segnalate la cantata Seven last words from the Cross (1993), Quickening (1998) per solisti, coro di voci bianche, coro misto e orchestra, le opere Inès de Castro (2001) e The Sacrifice (2005-06), la St John Passion (2007), la St Luke Passion (2013) e la Sinfonia n. 5: Le grand Inconnu (2018). È stato compositore ospite in diversi contesti quali Festival di Edimburgo (1993, 2019), Southbank Centre (1997), BBC’s Barbican Composer Weekend (2005) e Grafenegg Festival (2012). Le sue opere sono state eseguite da solisti come Evelyn Glennie, Colin Currie, Jean-Yves Thibaudet e Vadim Repin, dai direttori d’orchestra Leonard Slatkin, sir Andrew Davis, Marin Alsop e Donald Runnicles, dal coreografo Christopher Wheeldon e dalla regista teatrale Katie Mitchell. È possibile trovare la registrazione delle sue composizioni su BMG/RCA Red Seal, BIS, Chandos, Naxos, Hyperion, Coro, Linn e Challenge Classics. Tra i suoi recenti successi: lo Stabat mater per The Sixteen trasmesso in streaming dalla Cappella Sistina, un Concerto per trombone scritto per Jörgen van Rijen, l’oratorio dell’armistizio All the Hills and Vales Along, il mottetto a 40 voci Vidi aquam, e l’Oratorio di Natale trasmesso nel 2021 da NTR Dutch Radio dal Concertgebouw di Amsterdam. Nel 2014 ha fondato il festival Cumnock Tryst che si tiene con cadenza annuale nella città della sua infanzia in Scozia.
Quando ha iniziato ad avvicinarsi alla musica e quando ha capito che la composizione musicale sarebbe stato il mestiere, o meglio, la vocazione della sua vita?
Avevo nove anni quando a scuola mi fu regalato un piccolo flauto dolce di plastica, il primo passo verso lo studio di pianoforte e tromba. Ho capito subito che la musica era quello che volevo fare nella vita e anche il desiderio di creare la mia musica si è manifestato immediatamente. Sentivo l’istinto di scrivere e conservo ancora un piccolo pezzo per pianoforte, in la minore, che ho composto all’età di dieci anni. Mio nonno lavorava in una miniera di carbone, e amava la musica: aveva suonato l’eufonio nella locale banda dei minatori e aveva cantato nel coro parrocchiale. È stato lui a procurarmi la mia prima cornetta e ad accompagnarmi alle prime prove con la banda. È stato il mio primo e più importante motivatore. All’epoca non sapevo cosa significasse esattamente essere un compositore, ma è stato il mio obiettivo principale fin da bambino. Mio nonno e mia madre parlavano spesso di musica e sono stati loro a farmi conoscere i più importanti compositori del passato. In casa avevamo molta musica per pianoforte che mia madre aveva suonato da giovane: ricordo in particolare Beethoven, Chopin, Mendelssohn. Ho cercato di avvicinarmi a tutto questo non appena sono stato in grado di farlo. Mi incuriosiva molto anche la vecchia musica corale che mio nonno conservava – per lo più mottetti pietistici del XIX e dell’inizio del XX secolo, scritti per la liturgia. Il solo fatto di essere stato esposto a tutti questi stimoli ha avuto un grande impatto. Ho sviluppato anche un precoce amore per le opere di Wagner e Strauss: una curiosa attrazione per un ragazzo, suppongo! Ma questo mi ha portato a scoprire che, in quel momento, compositori viventi stavano dando forma alle proprie visioni artistiche all’interno della tradizione classica. Ricordo di essere stato molto colpito dal fatto che esistevano grandi figure in attività non troppo lontano da me, in particolare Benjamin Britten che viveva a poche centinaia di miglia, in Inghilterra. Tutte queste cose hanno influenzato in maniera precoce e vitale il modo in cui immaginavo la musica.
La “popular music” e anche la “folk music” degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, gli anni della sua giovinezza, hanno dominato l’intero mondo musicale di quel periodo. Negli stessi anni anche la cosiddetta “musica colta” era alla ricerca di nuove strade e nuove possibilità. Quali sono stati i suoi rapporti con questo straordinario periodo storico e, nel passato lontano e recente, quali i maestri a cui si è ispirato per creare il suo originale linguaggio musicale?
Da adolescente sembravo immune all’impatto della cultura pop. Le cose sono cambiate quando, intorno ai 14 anni, ho scoperto alcuni gruppi rock che stavano sperimentando generi e suoni, dai Led Zeppelin ai Gentle Giant. Ci ho pensato proprio di recente: all’epoca non facevo quasi caso ai testi della musica pop, erano solo i suoni e le costruzioni strumentali ad attirare la mia ancora limitata attenzione. A posteriori, è come osservare attraverso uno strano prisma la musica leggera degli anni Settanta, che era un fenomeno tanto poetico-letterario quanto sonoro. Solo di recente ho iniziato a prestare attenzione alle parole nelle canzoni pop e ciò significa che solo di recente mi sono finalmente reso conto del significato più completo di questa musica. Ciononostante, per un certo periodo di tempo, ho subito il fascino della musica rock, anche se la mia attenzione più entusiasta era sempre rivolta a quella che definiamo “musica colta”. Durante gli anni dell’università il mio interesse per Britten si è esteso, trasformandosi in un’ossessione per le figure d’avanguardia dell’epoca, al punto che ho cercato di assorbire avidamente quanto più possibile da compositori come Stockhausen, Boulez, Berio. L’influenza di tutto questo si percepisce nella mia musica di quegli anni. Nel 1980 ho frequentato l’Internationale Ferienkurse für Neue Musik a Darmstadt, dove ho assistito a una lezione con Brian Ferneyhough e ho frequentato corsi tenuti da Wolfgang Rihm e Gerard Grisey. Nel lungo termine non credo che questa musica abbia avuto un impatto duraturo su di me. Ero più attratto da compositori come Lutosławski, Berio, Andriessen e altri che dimostravano in qualche modo interesse per la tradizione, la cultura popolare o alcuni aspetti della cultura popular e il jazz, o tendevano a ripensare questioni di armonia, di melodia e di forma. In effetti, diversi compositori britannici poco più anziani di me si erano recati in Polonia negli anni Settanta per studiare, attratti da artisti come Lutosławski, Penderecki e altri. Forse vedevano qualcosa di più umano e comunicativo nelle riconsiderazioni tonali di questi compositori polacchi. Negli anni Settanta studiavano in Polonia compositori come Nigel Osborne e il mio stesso insegnante John Casken.
Potrebbe spiegare il suo approccio alla composizione, cioè come progetta il suo lavoro e quale sia il suo stile compositivo?
Il mio approccio compositivo a ogni opera è diverso a seconda della presenza o meno di un testo. Quando si tratta di utilizzare le parole, queste hanno un’importanza fondamentale nella costruzione della musica, nel suo carattere e nel suo sviluppo. Esamino a fondo ogni testo poetico per trovare indizi musicali che possano essere fondamentali per dare forma attraverso la musica a temi più ampi, oltre che al significato vero e proprio contenuto nelle parole stesse. Quando invece non ci sono parole, come nel recente concerto per violino che ho composto per Nicola Benedetti, o nel quintetto per archi che ho scritto l’anno scorso per i Brentano negli Stati Uniti, allora devo riflettere su considerazioni puramente astratte. Sono ritornato gradualmente a un approccio più istintivo e naturale: considero la linea, il carattere melodico (o monodico), il mood. Nel corso degli anni credo di essere stato influenzato dal mio interesse per la musica e il canto popolare, fattori determinanti per la costruzione della linea o della melodia. Nel mio secondo concerto per violino questo è emerso in modo inconscio: da giovane ho suonato e cantato in un gruppo folk e il carattere celtico/gaelico della musica tradizionale scozzese e irlandese è entrato nelle mie fibre, tanto che non ci penso quasi più, è una presenza subconscia nella mia attività compositiva. Allo stesso modo, il mio coinvolgimento nella liturgia mi ha portato nel corso degli anni a subire l’incantesimo del canto gregoriano e del canto piano, che considero una sorta di fenomeno melodico perfetto, una forma di monodia senza tempo, unica nella sua flessibilità e nel suo fluire irregolare. A volte un’idea extra-musicale può diventare un elemento determinante che dà forma alla musica stessa. Ad esempio, mentre componevo il quintetto per archi di cui sopra, leggevo molti testi di filosofia, in particolare di autori come John Henry Newman e Dietrich von Hildebrand. C’è una profonda dimensione religiosa nei loro scritti, naturalmente, e una persistente priorità delle “ragioni del cuore”, della necessità di attingere a questa misteriosa interiorità nelle nostre interazioni umane, culturali, politiche, spirituali e personali. Perciò il mio quintetto si intitola Heart speaks to heart (Il cuore parla al cuore) e prende forma dalla più personale delle interazioni, quella tra una persona e l’altra. La musica procede come una serie di duetti in diverse combinazioni: questi danno vita a relazioni intime e gli altri tre musicisti forniscono punteggiature e commenti gentili, mai invadenti. Ovviamente esiste una vasta gamma di possibilità nell’abbinare due strumenti, per cui la struttura della musica è in continua evoluzione, come un caleidoscopio. All’interno di questi modelli più ampi e generali sento che le tecniche che ho imparato e sviluppato nel corso degli anni sono ancora presenti, ma in maniera più inconscia. Penso all’intonazione e a come organizzarla, intervengono varie tecniche e approcci basati su un senso naturale della modalità, e a volte sull’organizzazione della serie cromatica, persino dodecafonica. Ma sottolineo che queste considerazioni nascono in modo molto naturale e senza troppa deliberazione cosciente. L’altro parametro principale nella mia mente è la struttura: come modellare al meglio le specifiche idee astratte in una forma coerente che possa resistere alla pienezza e alla molteplicità delle sue componenti. Per questo motivo a volte pianifico in anticipo una probabile impalcatura in modo che tutti i diversi elementi siano sostenuti da una forte spina dorsale. Altre volte, invece, questo è impossibile e devo lasciare che la musica emerga organicamente, nota per nota, battuta per battuta, tema per tema.
Come e dove si collocherebbe dal punto di vista stilistico nel multiforme panorama musicale contemporaneo?
Cerco di non posizionarmi stilisticamente. Troppa autoanalisi può essere dannosa! Tuttavia, sono consapevole di ciò che viene detto e scritto sulla mia musica e dipende da chi parla e scrive. Alcuni ritengono che la mia musica sia impegnativa e modernista, perché potrebbe non rientrare in una visione conservatrice dei contesti musicali. Altri, che provano una certa simpatia per la vecchia avanguardia, riterranno la mia musica antiquata e tradizionalista. Entrambi i punti di vista possono essere validi, ma tendo a non pensarla così: sono un compositore vivente che apprezza le nuove prospettive sonore, pur valorizzando l’importanza delle tradizioni, musicali e non.
Molte delle sue composizioni vedono nella voce, e in particolare nel coro, l’essenza stessa del suo pensiero musicale. Nel suo splendido The birds of Rhiannon, inserisce nella parte finale il coro che canta le commoventi e drammatiche parole di Michael Symmons Roberts. In questa partitura, dal punto di vista tecnico, la scrittura corale richiede un coro di professionisti. In un altro suo pezzo a cappella O radiant dawn, invece, l’esecuzione potrebbe anche essere affidata a un coro di non professionisti perché le difficoltà tecniche sono assai minori. Quando le viene commissionata una composizione “per” o “con” il coro, presta attenzione alle possibilità tecniche degli esecutori, e quindi adatta le difficoltà tecniche alle richieste del committente, oppure ha già nella sua mente degli esecutori ideali?
Ogni commissione è diversa e cerco di adattare ogni pezzo agli interpreti che me lo richiedono. A volte si tratta di professionisti di livello mondiale, altre volte di gruppi amatoriali locali o giovanili. Per me non esiste una taglia unica. Ho avuto la fortuna di scrivere per grandi cori come i BBC Singers, The Sixteen o il coro dell’Abbazia di Westminster. Ma scrivere musica per cori amatoriali è sempre stato importante. I miei Strathclyde motets erano pensati proprio per un buon coro che fosse non professionale, studentesco o liturgico. C’è un mondo corale enorme là fuori e un compositore può rendersi utile creando un corpus di lavori seri per questa parte essenziale della nostra ecologia musicale. Ciò richiede che il compositore sia consapevole dei diversi livelli e della vasta gamma di abilità tecniche.
Cosa significa scrivere per coro oggi?
Una delle grandi sorprese della mia attività creativa è stato il riemergere del coro come componente significativa nelle considerazioni del compositore moderno. Nel Regno Unito ci sono sempre state diverse tradizioni corali forti, sia liturgiche che laiche, ma a partire dagli anni Ottanta si è assistito a un notevole sviluppo di cori professionali di buon livello, nati dal fenomeno del revival della musica antica. Così abbiamo cori brillanti come The Sixteen, Tenebrae, King’s Singers, Polyphony, The Tallis Scholars e gruppi più giovani in cui le capacità tecniche si stanno consolidando. Questi gruppi sono interessati anche alla nuova musica e includono opere di compositori moderni in programmi misti, magari combinati con la musica pre-barocca. Questo ha avuto un enorme effetto benefico sui giovani coristi e sul mondo corale in generale. Tutto ciò riveste un ruolo molto importante nella mia attività di compositore e apprezzo i rapporti che ho costruito con i direttori di coro e con numerosi cori, professionali e amatoriali, sia nel Regno Unito che nel resto del mondo.
Come spesso ha dichiarato in diverse interviste, il suo rapporto con la musica è simile alla vocazione religiosa e spesso consiglia ai giovani compositori di avvicinarsi a quest’arte con lo stesso afflato, indipendentemente se si sia credenti oppure no. Potrebbe parlarci di questo affascinante argomento?
So che probabilmente c’è un divario generazionale tra persone come me e i giovani compositori, ma consiglio di cercare il silenzio. Questo può essere difficile per molti, e può essere raggiunto in modi e luoghi diversi, ma credo porti beneficio ai compositori, indipendentemente dal loro approccio alla religione o alla vita interiore. Il silenzio ci chiama dalla sua profondità e la profondità chiama profondità, come un oceano spaventoso. Obbedire al suo comando è un imperativo. È così semplice, perché quando tutte le lezioni sono finite, quando si è completato l’ultimo esercizio di contrappunto, quando si è imparato tutto il possibile su come orchestrare, quando si è fatto modernismo, postmodernismo, minimalismo, neocomplessità e musica negativa fino a non riuscire più a pensare, c’è solo un altro posto dove andare. È perfettamente comprensibile che, a questo punto, qualcuno scelga di scendere dalla barca: ma per coloro che devono continuare a navigare, com’è possibile viaggiare attraverso questo dominio inesplorato? Mi sono reso conto che questo continuo incontro con il silenzio è la condizione necessaria per un compositore. Sia gli occhi che le orecchie si rivolgono a questo luogo vuoto in un’apparente e paradossale ricerca di suoni. Suoni che germogliano in un luogo vuoto di suoni, che nascono in uno stato di vuoto sonoro, in un’apparente assenza che genera presenza. C’è ovviamente una dimensione religiosa in tutto questo, ma mi preme parlarne in modi che persone e compositori con visioni del mondo e concezioni molto diverse possano adattare alle proprie ricerche creative. Per alcuni, guardare e ascoltare la bellezza è una questione di fede, ma la ricerca del divino per il compositore può assumere molte forme: uno sguardo e un ascolto profondi possono essere integrati nella nostra vita come una pratica spirituale, o forse semplicemente come una disciplina immaginativa e una ricerca dell’immaginazione interiore, della vita interiore. L’analogia con la contemplazione delle icone può essere utile. Il compositore John Tavener mi ha detto che nella tradizione ortodossa le icone sono una forma di preghiera: «Gesù è l’immagine (icona) del Dio invisibile». Quando si guarda un’icona, essa ha lo scopo di renderci consapevoli di essere in presenza del Divino. Le icone, quindi, non sono solo arte a tema religioso: sono arte sacra perché portano lo spettatore alla presenza del divino. Quando si fissa l’attenzione su queste immagini per un periodo prolungato, esse possono prendere vita ed entrare in dialogo animato con il praticante, o almeno così si pensa. I pittori e i creatori di icone affermano che l’immagine osservata sembra guardarvi, avvicinandosi sempre di più, fino a entrare nella vostra anima. Si noti quanto siano evidenti gli occhi nelle icone: l’idea è che il Cielo ci stia guardando. Si dice che le icone siano state concepite come porte tra questo mondo e un altro mondo. Il mio suggerimento è che l’analogia musicale di questa esperienza, che non implica necessariamente né necessita di un’immagine specifica, porta il compositore in un luogo ibrido dove il suo mondo entra in contatto o in comunione con un altro stato, dove il misterioso e silenzioso incontro scatena la vita sonora, le possibilità compositive e la nuova musica che noi compositori cerchiamo sempre, dal profondo della nostra immaginazione creativa e, se volete, dal profondo della nostra anima. È la musica che emerge quando il compositore silenzioso scende in un silenzio più profondo, un luogo o uno stato oggettivo a cui aderisce e di cui è diventato un’estensione.
Mentre parliamo, il mondo intero è spaventato dai rumori della guerra che si odono a Est dell’Europa. Pensa che l’arte in genere e la musica in particolare possano fare qualcosa per condurre l’umanità smarrita fuori da questa follia?
Un tempo pensavo di avere una risposta a domande come questa, ma ora non ce l’ho più.