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Alessandro Ruo Rui
Riscontri interiori

di Pietro Mussino
Dossier compositori, Choraliter 70, maggio 2023

Biografia 

Ha studiato composizione con Ruggero Maghini e Gilberto Bosco al Conservatorio di Torino ottenendo tre borse di studio. Parallelamente ha svolto studi di organo e strumenti a percussione. Tra i suoi maestri anche A. Sacchetti, G. Vinay, E. Restagno. Ha poi seguito corsi sul repertorio vocale, sulla direzione e sulla musica elettronica con P. Erdei, G. Acciai, B. Kuijken, A. Despres.Dal 1982 al 1986 ha partecipato a concorsi di composizione ottenendo sette premi nazionali e internazionali tra cui alcuni specifici per la composizione e l’elaborazione corale. L’opera prima Metamorfosi ha esordito al festival Settembre Musica ed è stata teletrasmessa in una trasmissione di A. Baricco. La composizione Bicinium, vincitrice del premio Bucchi, è stata citata da J. Villa-Rojo tra i più significativi pezzi per clarinetto del XX secolo. L’opera Suoni di Storie…, realizzata al Piccolo Regio di Torino, ha avuto decine di rappresentazioni in varie città. Suoi lavori sono stati eseguiti e radiotrasmessi in diversi paesi europei. Nell’ultimo decennio alcuni gruppi corali hanno inciso numerosi suoi lavori editi da Suvini Zerboni, Rugginenti, Elledici, EEM, Berben, Caecilia, Feniarco.Dagli anni Novanta ha intensificato l’attività di direttore, organista e maestro al cembalo in vari complessi vocali e strumentali (La Camerata, Secolo Decimosesto, Clerici vagantes, Nuova Armonia, Ottetto Carissimi). In questa veste ha ottenuto vari premi, ha inciso dischi e tenuto centinaia di concerti in Italia e all’estero, con la prima esecuzione moderna di inediti dei secoli XVI, XVII e XVIII e numerose prime esecuzioni e prime incisioni di lavori contemporanei.Con il Coro Eufoné, che dirige dalla fondazione (1994), è stato invitato alla Nunziatura Apostolica di Madrid e al festival di Bialistok-Hajnowka (Polonia) dove ha ricevuto un personale riconoscimento per l’interpretazione della musica ortodossa.È direttore del Coro della Cattedrale di Torino, collabora con gli uffici liturgici di diverse diocesi, con riviste specializzate, con l’Associazione Cori Piemontesi.È frequentemente chiamato come membro di giuria in concorsi di esecuzione e composizione e impegnato in un’intensa attività divulgativa e di ricerca, invitato a convegni e seminari specialmente sull’analisi musicale e sulla musica sacra. Insegna Composizione presso il Conservatorio G. Verdi di Torino. Qui per dieci anni è stato vicedirettore ed ora è coordinatore del Dipartimento di Composizione.

È un grande piacere per me scambiare alcune idee musicali con il mio maestro di un tempo. Eri un insegnante ancora giovanissimo quando ci siamo incontrati, ma mi ha sempre colpito la tua calma pacata e il tuo sguardo profondo sulla musica, che dava a intendere come ci fossero molti modi di guardare le cose e molte soluzioni da ricercare. Ti riconosci in questa mia impressione? 

Parlando del mio itinerario formativo ricordo di non aver cominciato troppo presto. Nella mia fanciullezza la nostra famiglia elaborava il lutto per il mio fratello maggiore prematuramente scomparso, dunque nella mia formazione era esclusa l’idea che ci si occupasse di musica. Fu la limitatissima ma positiva esperienza di ascolti che avvenivano nell’ora di educazione musicale alla scuola media che mi accese il desiderio di studiare e cominciai dall’organo, strumento che ancora oggi amo moltissimo e che fu il mio primo approccio alla musica. Cominciai a suonare in chiesa ed entrai in conservatorio. In quegli anni però la mia passione erano gli studi scientifici e la musica era una specie di sogno indefinito. Varie vicende mi fecero provvidenzialmente confluire nello studio della composizione e qui incontrai due maestri straordinari: Arturo Sacchetti, brillante concertista d’organo che fu mio insegnante di Lettura della partitura e, specialmente, Ruggero Maghini che mi trasmise la passione per la costruzione del pensiero musicale, dandomi anche importanti spunti per conoscere e amare ogni genere di repertorio. Questi stimoli mi portarono ad amare innanzitutto il sinfonismo tedesco. Proprio attraverso l’esplorazione di questo mondo arrivai alla conoscenza delle opere sinfonico-corali di Beethoven, Mozart, Bruckner, Händel, Bach. Il coro a cappella si rivelò con l’ascolto dei mottetti di Bruckner. Le opere del Novecento mi affascinarono con la penetrante timbrica di Stravinskij, Ravel, Bartók. Mi riconobbi da subito onnivoro e inclusivo: non c’era fenomeno musicale che non volessi esplorare.

Quali incontri o eventi indicheresti come le tappe formative per te fondamentali e che hanno segnato il tuo atteggiamento verso la musica e la composizione?

Il percorso in conservatorio fu fondamentale per la ricchezza degli stimoli ricevuti: le lezioni di Enzo Restagno e poi di Gianfranco Vinay, i confronti con i compagni (penso specialmente a Giulio Castagnoli e Andrea Basevi) e la didattica aperta e stimolante di Gilberto Bosco trovarono riscontro in nuove esperienze: curiosità per la direzione, studio delle percussioni. Gli anni che segnarono il culmine degli studi sono illuminati dal fascino dei nostri contemporanei: Petrassi, Dallapiccola, Berio, Corghi.I  primi lavori da camera giocavano su strutture seriali (molto personalizzate), ricerca di tecniche estese e impegno a non accontentarsi. In pratica: lunghe elaborazioni, lentezza nello scrivere ma infine alcune grosse soddisfazioni in qualche competizione. Mentre si stavano aprendo varie commissioni e possibilità di lavoro musicale, la malattia di un figlio (ero un giovane papà) mi impedì di lavorare fruttuosamente e di evadere le opportunità che si presentarono. Il lavoro fatto mi bastò però per passare dall’insegnamento nella scuola media (fatto con grande passione: molto canto, analisi formale, musica contemporanea…) al conservatorio. Prima nomina a Piacenza: l’allievo più grande aveva dieci anni più di me! Mancando la tranquillità necessaria alla composizione, risposi all’invito a occuparmi di un gruppo vocale. Ne derivò una storia ormai quarantennale di concerti, proposte, ricerca. In seguito la composizione pian piano riprese e si indirizzò a precisi obiettivi: l’opera per ragazzi, la commissione corale, il lavoro nella liturgia, i lavori strumentali per determinati gruppi di musicisti amici. Le esperienze come esecutore allargarono la visione creativa e ne semplificarono vari aspetti. Solidità di struttura, sì, ma anche concretezza e praticità per coinvolgere gli esecutori nella propria avventura.

Da quando ci siamo conosciuti a oggi non hai mai smesso di insegnare. Come sono cambiati il tuo insegnamento e la tua didattica?

Sono partito dai preziosi materiali che avevo ricevuto da Maghini che, pur essendo un musicista di prim’ordine che dialogava alla pari con Bernstein e Karajan e che aveva già stampato due manuali, continuava a rielaborare e produrre per noi allievi dell’ultima generazione nuove dispense e nuove esercitazioni. Mi sono inserito su quel filone per creare anch’io dei materiali validi. Ma ho continuamente aggiornato la mia didattica grazie alla pratica esecutiva e alla comparsa di nuove pubblicazioni che hanno molto innovato l’approccio all’armonia e al contrappunto. Tutto quello che ho letto è stato interiorizzato e sintetizzato per un uso mirato. Posso anche dire di non aver mai riproposto schematicamente lo stesso programma di lavoro: ogni allievo deve essere destinatario di un progetto personalizzato, in base alle sue caratteristiche. Agli estremi il motto diventa: strutturare i supercreativi e accendere i meticolosi!

Come è cambiata la figura dell’allievo di composizione in conservatorio in questi ultimi decenni?

Negli ultimi decenni il livello degli allievi è ancora assai alto. Lo dico pensando all’esperienza del conservatorio di Torino, dove d’altra parte abbiamo un gruppo di docenti coeso ed efficace. Le ultime generazioni, però, hanno molto più bisogno di essere orientate a conoscere i grandi nodi della musica occidentale, operando scelte tra lo sterminato materiale che oggi i media mettono a disposizione. Il rischio è quello di non conoscere alcuni tasselli che invece sono fondamentali per crescere.

Se dovessi scegliere due o tre tuoi lavori che hanno segnato degli snodi, dei progressi o delle ramificazioni nel tuo modo di comporre, quali sceglieresti? Ci commenti brevemente le loro caratteristiche e in che modo hanno aperto il tuo sguardo di compositore?

Nei miei primi lavori c’è una forte componente seriale e deterministica, anche se declinata in approcci quasi teatrali dell’esecuzione. Il fascino dei reticoli alla Berio o delle linee divaricate alla Dallapiccola si notano assai. E poi: concisione estrema. Se oggi dovessi riscrivere gli stessi pezzi degli anni Ottanta questi sicuramente finirebbero per durare il doppio! Un pezzo che amo assai è il trittico AD! per tre strumenti, ma ho in mente anche Preludio, scherzo e notturno, un grande lavoro per clarinetto e orchestra che venne assai lodato da Riccardo Chailly. In una fase successiva (ancor oggi viva) si accende l’interesse per le fasi ritmiche (effetto percepibile in una distesa di campane, che suonano con tempi diversi, avvicendandosi in modo sempre variabile), prima utilizzate in autonomia per poi scoprire che Ligeti ne fa un suo riferimento. A questa fase appartengono alcuni lavori da camera ispirati al Cantico dei cantici, come Jam hiems transit. Un’altra fase ancora è quella in cui la destinazione del brano detta almeno alcune condizioni: il pezzo è per quel coro, per quel flautista. In questo caso i materiali si ricompongono ad hoc. Ho appena finito Faber un brano per ensemble di dodici sax, chiestomi dal formidabile collega Pietro Marchetti in vista di una masterclass e che sarà eseguito a giugno.

So che è una domanda impegnativa, ma mi piacerebbe davvero avere la tua visione. Dove sta andando la musica oggi? Che ne è dell’avanguardia, della sperimentazione linguistica, della provocazione estetica, della ricerca di territori vergini, della musica speculativa, dello strutturalismo, del minimalismo? Insomma, che cosa rimane, oggi, della grande ventata del Novecento e, se c’è, che cosa c’è di nuovo?

Di molto fervore innovativo oggi sembra essere rimasto davvero poco, purtroppo. Abbiamo assistito a una stagione creativa eccezionale che ha aperto numerose vie e mostrato molte possibilità di impegnarsi a fondo nella scrittura musicale. Il tutto, ahimè, all’ombra di una spessa cortina ideologica che però, in compenso, accendeva gli animi, faceva discutere e volutamente rifuggiva dalla tentazione di cercare di accontentare tutti. Oggi il panorama è molto più scarno. Ci sono ancora, è vero, campi di esplorazione praticati da esecutori eccezionali che ancora stimolano i compositori a non accontentarsi e osare – penso ad esempio al Quartetto Maurice che da alcuni anni collabora con le classi di Composizione ed Elettronica del conservatorio di Torino. Tuttavia si coglie più spesso un po’ di rilassatezza e la tendenza ad abbracciare trovate semplicistiche (non intendo la musica autenticamente semplice e quindi impegnativa per chi la scrive, piuttosto il contrario). Domina soprattutto una rinuncia a richiedere impegno nell’ascolto e la ricerca di materiale accattivante confermato attraverso (spesso numerose) ripetizioni. Proprio nella produzione corale, però, vediamo che abbonda il repertorio contemporaneo e in tal modo ci si apre a sonorità che a loro volta possono propiziare, per i coraggiosi, sperimentazioni più ardite.

Hai dedicato molte energie sia compositive che umane alla musica per la liturgia. Quali sono i bisogni, oggi, della musica liturgica?

Ho cominciato traducendo, adattando ed elaborando. Credo che i brani che ho orchestrato, armonizzato o reso polifonici, dotato di preludi e interludi ecc. siano nell’ordine delle centinaia. Poi ho avuto la necessità di comporre per precise commissioni per le quali ho collaborato con eccellenti scrittori di testi. Ma ancora oggi se trovo un brano, scritto da un altro musicista, che funziona per un dato rito, non sento la necessità di produrre a tutti i costi qualcosa di mio. Sfatando un mito un po’ troppo diffuso, mi sento di dire che per la liturgia, anche e specialmente in Italia, è stata prodotta molta musica eccellente da autori preparati e consapevoli delle necessità cultuali. Il problema è la pigrizia degli esecutori, che copiano e imitano programmi banali, senza formarsi e senza cercare quel che vale. Comunque la condizione ideale per creare un brano è lasciarsi fecondare da un’esperienza comunitaria di fede, raccogliere e offrire spunti, curare anche le realizzazioni più semplici.

Ci indichi e ci commenti qualche tua composizione liturgica che ti sta particolarmente a cuore?

Mi viene in mente il canto Cercami, bellezza nuova, ispirato al Cantico dei cantici in una lettura della sponsalità come incontro definitivo con il Redentore, ossia nel passaggio della morte. Un brano un poco diverso dai soliti, sia nella formula di accompagnamento che nei colori che possono venire dall’alternanza con gli stacchi strumentali. Ma anche la versione italiana del Veni creator, composta su testo di Enzo Bianchi e che eseguiamo spesso in cattedrale in alternanza con l’inno latino. Nulla di complicato: due formule polifoniche con armonie luminose, tutto sommato un lavoro breve ma che viene cantato e accolto con buoni frutti spirituali.

Accanto alla tua carriera di compositore c’è una fitta attività di direttore. Qual è la tua esperienza in proposito, in particolare con lo strumento-coro? Che cosa ti ha insegnato l’esperienza di direttore?

La coralità è un meraviglioso laboratorio di fraternità e mutualità, lo sappiamo. Credo moltissimo nell’importanza di un tale terreno di semina culturale che, proprio perché costruito sulle relazioni dirette, ha una fecondità enormemente maggiore rispetto a certe blasonate sedi elitarie. Ma proprio per questo non può vivere solo di consuetudini e rassicuranti adagiamenti su pochi brani molto amati e ben cantati. Il direttore di un coro è sfidato a studiare, leggere, ascoltare, formarsi. Ho sempre accolto e proposto nuove produzioni, anche correndo qualche rischio, ma la soddisfazione di eseguire una prima assoluta rimane una tappa indimenticabile nel percorso di un corista. Per anni ho dedicato un pomeriggio alla settimana alle esplorazioni nelle biblioteche e agli acquisti di materiale. Un maestro deve leggere cento per poi proporre cinque o ancor meno. La formazione è importante e oggi abbiamo una generazione di giovani direttori di grandi qualità che possiedono conoscenze impensabili qualche decennio fa. L’urgenza è non fare programmi fotocopia, immaginare repertori sempre nuovi, ascoltare altri gruppi, lavorare su di sé. Io vivo ancora nel costante desiderio di imparare: dai colleghi di fama come dagli stessi allievi. La perfezione tecnica non deve oscurare la ricerca di espressività e l’audacia dell’interpretazione va costruita su una seria analisi del brano. 

C’è qualche elemento di fondo che riscontri nei tuoi lavori corali? Un’esigenza, un atteggiamento, una via di ricerca? C’è un tuo lavoro che incarna in modo speciale questo elemento?

In ogni mio brano c’è un piccolo codice compositivo, magari semplice, che sento come un dovere di serietà nei confronti degli allievi presenti e passati. Nondimeno licenzio una partitura solo quando il riscontro interiore mi risulta convincente. Sono gratificato quando mi dicono che il tal pezzo è venuto a piacere sempre più man mano che si provava. Uno dei miei lavori più recenti, Addio monti da Manzoni, pensato per un gruppo di voci pari, contiene questi elementi che per me sono prioritari: lavoro sulle cellule tematiche, adesione alla forma e al senso del testo, fraseggio essenziale e impianto armonico tranquillamente libero ed eufonico.

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