È uno dei compositori più ricercati dei giorni nostri, con un fitto programma di commissioni ed esecuzioni della sua musica ascoltate in ogni continente. Nato a Priekule, in Lettonia, nel 1977, ha studiato presso il Latvian Baptist Theological Seminary (1995-97) prima di conseguire il master in composizione (2004) presso l’Accademia Lettone di Musica sotto la guida di Selga Mence. Dal 2002 al 2011 è stato membro del Coro di Stato Lettone. Nel 2011 è stato insignito della posizione biennale di Fellow Commoner in Creative Arts presso il Trinity College, Università di Cambridge. Insegna composizione musicale presso l’Accademia di Musica Lettone. Ēriks Ešenvalds ha vinto numerosi premi per il suo lavoro, tra cui il Latvian Grand Music Award tre volte (2005, 2007 e 2015). L’International Rostrum of Composers gli ha conferito il primo premio nel 2006 per il suo lavoro The legend of the walled-in woman. È stato The Year’s New-Composer Discovery del Philadelphia Inquirer nel 2010. Nel 2018 è stato insignito di Ufficiale dell’Ordine delle Tre Stelle, la più alta onorificenza statale del suo paese d’origine, la Lettonia, per meriti nel campo della cultura.
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Quando e come è iniziato il suo viaggio come musicista e compositore?
Mia madre era un’insegnante di musica a scuola e la solista nella nostra band pop locale durante il periodo sovietico. Quando sono nato, la Lettonia era infatti ancora sotto l’occupazione. Ogni volta che mia madre faceva le prove con la sua band, mi portava con sé. Ricordo le ore trascorse da bambino nella sala prove del centro culturale locale; mentre passavo il tempo con i miei giocattoli e le macchinine ovviamente li sentivo cantare e ho imparato le canzoni. Quindi una certa musicalità mi è stata familiare fin dagli anni dell’asilo. In Lettonia avevamo una scuola di musica per bambini, parallela alla scuola ordinaria. Mia madre ha deciso di farmi frequentare entrambe. Ci andavo tutti i pomeriggi, dal lunedì al venerdì. Prendevo lezioni di pianoforte, musica d’insieme e cantavo nel coro scolastico. Avevamo poi lezioni di ritmica, solfeggio, storia della musica e così via. Ricordo una lezione di coro, la sera, in terza elementare. Era inverno e fuori era già buio. Noi bambini cantavamo nel coro e di solito la lezione era divisa in due parti. Durante la pausa, in mezzo a bambini che ridevano, correvano, ero d’umore giocoso. Ho preso un foglio e ho scritto alcune note, casuali, sedicesimi, e sotto ho scritto il testo «La la la la la…». Una bambina più grande ha visto che avevo scritto qualcosa, una melodia, e ha detto, «oh, vai a mostrarlo alla direttrice!». Lei era seduta al pianoforte, e le ho mostrato quanto avevo scritto. L’ha suonato al piano. Non era nulla di speciale, ma mi ha detto: «Ēriks, forse dovresti comporre». La sua frase mi è rimasta impressa nella mente. Alla fine della lezione sono ritornato a casa e mi sono seduto al mio pianoforte. Avevo dieci anni. E ho pensato: «Ēriks, dovresti comporre». Suonava interessante… ma cosa significa comporre? Ho iniziato a suonare qualcosa, una sorta di improvvisazione, e ho pensato: «Hmm, esplorerò questo territorio nuovo. Comporre è interessante!». Così ho iniziato a scrivere le mie melodie strumentali: ma come scriverle, che tipo di armonie? La mia prima insegnante è stata Whitney Houston. Ovviamente lei non lo sapeva, ma mi piacevano molto le sue canzoni. A quel tempo era ovunque: alla televisione, alla radio, in audiocassetta, su giornali, riviste. Ma il problema in Unione Sovietica era che non potevamo comperare gli spartiti delle sue bellissime canzoni. Così cercavo di suonare i brani a orecchio. E sono rimasto sorpreso dal fatto che fosse piuttosto semplice. Poi ho scoperto come fossero costruite le melodie e il ritornello. Ho individuato la forma, che di solito era prima strofa / ritornello / seconda strofa / ritornello / bridge con modulazione e doppio ritornello. Le mie prime canzoni furono… strumentali.
Negli anni della formazione ha imparato dai grandi, entrando in contatto con le diverse correnti stilistiche della musica contemporanea, per poi approdare a uno stile estremamente personale. Quali sono i valori chiave che definiscono il suo gusto poetico musicale?
Quando ho iniziato a studiare seriamente composizione all’Accademia musicale di Riga, in Lettonia, sapevo che dovevo studiare nel modo più approfondito possibile. All’epoca avevo già un lavoro a tempo pieno. Ero insegnante di musica al liceo, dirigevo il coro della mia chiesa. Ero anche attivo nella sezione giovanile dell’Unione delle chiese battiste. Ero sposato, avevo una famiglia. La mia agenda era già molto fitta e allo stesso tempo ero solo all’inizio dei miei studi compositivi. Comunque sapevo che dovevo studiare molto duramente, nonostante tutti i miei impegni. Ed è stato molto difficile. Di solito in autunno e in inverno prendevo il raffreddore ogni due mesi perché ero esausto. Ero stanco, ma volevo davvero continuare. Rubavo tempo alle ore di sonno notturno per scrivere i miei esercizi accademici. E poi alle otto del mattino dovevo essere a scuola, tutti i giorni. Sapevo quali materie all’Accademia di musica fossero le più importanti per me e quali solo informative. Quindi, mi concentrai sugli argomenti principali: composizione, strumentazione, forme, nuove tecniche, elettroacustica. Studiai queste cose con grande dedizione: ovviamente su materie come filosofia, psicologia, pedagogia mi bastava ricevere sette o otto all’esame, ma per le materie principali ho fatto del mio meglio per ottenere nove o anche dieci. A ogni lezione sperimentavamo qualcosa di nuovo. Scrissi miniature per pianoforte, pezzi elettroacustici. Altrettanto importante era analizzare le partiture di altri compositori. Ogni volta che potevo, ascoltavo una sinfonia o una registrazione di un’opera strumentale, o da camera, seguendola sulla partitura. Quando sentivo qualcosa di bello o semplicemente molto ben scritto, premevo “stop”, riavvolgevo, ascoltavo di nuovo e prendevo appunti su strumentazione, drammaturgia, dinamiche, armonia, articolazione e così via. Questo è stato molto utile per comprendere il mondo della composizione musicale. All’epoca non esisteva un programma di scambio Erasmus, ma c’erano moltissime masterclass di composizione in Europa, quindi durante i miei sette anni di studi ho viaggiato tutte le estati per frequentare masterclass con Michael Finnissy, Jonathan Harvey, Klaus Huber, Philippe Manoury, Richard Danielpour. Andavo anche al Gaudeamus Muziekweek, un festival musicale che si tiene ogni anno nei Paesi Bassi. In queste masterclass gli insegnanti raramente parlavano di cose pratiche, come indicare gli errori sulle partiture degli studenti. Parlavano principalmente della loro filosofia. E presentavano le proprie opere. Questa era la cosa più affascinante. In ogni masterclass ho ascoltato approcci diversi, poetiche diverse di questi grandi compositori. Questo ha ampliato la mia comprensione e lo consiglio a ogni studente: studiate le tecniche a casa, ma frequentate corsi di perfezionamento per allargare gli orizzonti! Riguardo al mio stile, se guardiamo ai miei lavori di maggiore successo si tratta di musica corale. Cori e direttori sono stati molto attivi nel commissionarmi pezzi nuovi. Ma ho scritto anche opere sinfoniche, lavori elettroacustici, un’opera, lavori multimediali. Al momento sto ultimando il mio primo balletto. Sono un compositore classico su larga scala, non solo autore corale. Ma guardando ai miei lavori per coro di maggiore diffusione, devo ammettere che rispecchiano il mio stile: melodico, riccamente armonico, forme chiare. Ma quando si guarda alla mia produzione in generale, si può scoprire che in realtà sono una specie di camaleonte, come mi ha definito vent’anni fa una musicologa in Lettonia. La definizione mi piace. Penso sia un po’ complicato, quando trovi il tuo stile, rimanere in quella zona.
Qual è il suo processo compositivo, anche rispetto all’idea del suono?
Il processo varia da compositore a compositore. Se devo scrivere un nuovo pezzo con un testo, allora le parole sono al primo posto. Cerco poesie, il testo perfetto, e quando lo trovo inizio a comporre. Tendenzialmente compongo al mio pianoforte perché sono un pianista. Improvviso e cerco armonie. Alla tastiera, con matita e carta da musica. Schizzo linee di battuta approssimative, pentagrammi per poche voci, non più dell’idea di base. Poi definisco meglio alcuni sistemi, li lucido per bene e li trascrivo nel software di videoscrittura musicale. Questa è la mia attrezzatura compositiva. Quello che faccio con la matita, è metterla tra i denti. È molto più veloce che posarla sul pianoforte. Quindi tutte le mie matite hanno l’impronta dei miei denti. E ogni volta che i miei studenti vogliono farmi un regalo, dico loro di darmi una matita, perché le mie si esauriscono molto velocemente. Vorrei che ci fosse un meccanismo con il quale, mettendo dei sensori nel nostro cervello mentre canticchiamo o immaginiamo come suoni la nostra musica e come scorra, i sensori e l’algoritmo calcolassero e scrivessero la musica per noi. Ma non credo accadrà molto presto.
Ho sempre trovato molto affascinante il modo in cui gestisce il tempo nella sua musica. Spesso sembra congelarsi in un istante, pur mantenendo viva la tensione e il senso di continuità. Sembra quasi di osservare l’oggetto musicale da più punti di vista contemporaneamente. Questo di solito viene raggiunto attraverso cluster, note pedale, quiete armonica e un’orchestrazione raffinata. Qual è il suo rapporto con il tempo?
Quando ero studente, mi preoccupavo che la mia musica fosse troppo lenta, che potessi rimanere troppo a lungo in una singola sezione. Così ero costantemente alla guida della mia musica, come con un gregge di pecore: «Vai più veloce! Muoviti, presto!». E poi il direttore del coro della Radio Lettone, Sigvards Kļava, mi ha commissionato una ballata, The legend of the walled-in woman, pezzo lungo nove minuti. Quando ha ricevuto la mia partitura, ha detto: «è un ottimo brano!». Ma ha aggiunto: «Tuttavia in un punto – e mi ha mostrato dove – per favore scrivi da sette a dieci battute in più di quell’atmosfera». All’inizio ho detto: «No, no, la musica scorre, vedi, la senti come va». Ma lui mi ha convinto a non forzare questo meccanismo e quando sono tornato da quell’incontro ho suonato la mia composizione al pianoforte e ho iniziato a pensare, ad ascoltare più a fondo. Aveva ragione. Quella sera scrissi le sette battute aggiuntive. È stato lui l’insegnante che mi ha incoraggiato ad ascoltare la mia musica, a capire davvero come preferisce scorrere. Lascia che il suono fluisca, lascia che fiorisca.
Cosa succede dopo il climax in un brano musicale? Gli esseri umani hanno bisogno di tempo per riflettere, per elaborare ciò che hanno appena sentito, ciò che hanno appena visto. Anche in una rappresentazione teatrale o al cinema c’è un momento drammatico seguito dal necessario momento di riflessione, un minuto di quiete, e poi la storia va avanti. Se non c’è riflessione, è come se tutto diventasse troppo caleidoscopico. In una sequenza continua di informazioni lo spettatore o l’ascoltatore non hanno tempo per mettere insieme i pezzi del puzzle, per seguire il filo della storia. È un fatto della natura umana che è meglio accettare piuttosto che ignorare. Quando leggiamo una poesia, la leggiamo troppo in fretta. Ad esempio, ecco una poesia, di Conrad Potter Aiken:
There are houses hanging above the stars,
And stars hung under a sea:
And a wind from the long blue vault of time
Waves my curtain for me…
(Ci sono case sospese sopra le stelle /
E stelle sospese sotto un mare: /
E un vento dalla lunga volta azzurra del tempo /
Sventola il mio sipario per me…).
Vedi, ho già letto queste quattro righe, in otto secondi, ma quando componi musica su di esse, questi otto secondi si trasformano in trenta secondi. La musica come mezzo di espressione artistica ha una prospettiva temporale diversa, un fuso orario diverso, una velocità temporale diversa. Ascolta la voce naturale della musica.
Nel catalogo delle sue opere sono presenti brani dei più diversi gradi di complessità, da quelli affrontabili da bravi cori amatoriali a opere massicce, impegnative sia tecnicamente che nelle sfumature espressive da raggiungere. Anche con questa varietà di mezzi, la sua musica riesce sempre a mantenere identità e sensibilità musicale. Come riesce a bilanciare le esigenze del gruppo vocale/strumentale e la sua espressione artistica?
Significa essere compositore professionista. Il compositore impara molte tecniche e decide che tipo di pezzo dovrà essere. Sarà molto impegnativo? O sarà democraticamente accessibile per molti cori parrocchiali, per i cori scolastici, per i cori della comunità che vengono alle prove forse una volta alla settimana e cantano principalmente per Natale o per la festa nazionale? Al momento mi è stato commissionato un pezzo per coro, da eseguire in concorso. Quindi occorre valutare come valorizzare le qualità del coro. Ad esempio attraverso precisione ritmica, buona polifonia, o un range vocale più ricco. Questi punti appaiono nell’elenco e indicano la direzione da seguire. Ovviamente la priorità dovrebbe essere sempre la storia che racconti con il tuo pezzo, non il mucchio di tecniche. Un compositore non direbbe mai: «Guarda che bellissime tecniche ho selezionato per te!». Questi sono solo gli strumenti. La cosa principale è la tua storia, che culminerà in un bellissimo climax e poi lascerà tempo per riflettere.
Che consiglio darebbe a un giovane compositore ancora alla ricerca della propria voce?
Questa è la domanda più importante. Le basi di ogni professione sono molto importanti. Devi imparare il mestiere, le tecniche. Ciò che viene dopo dipende da quanto bene hai appreso. In Lettonia a scuola diamo voti da 1 a 10: 10 è eccezionale, 4 è l’ultimo voto positivo; da 3 a 1 non hai superato l’esame. Parliamo dei voti positivi, da 4 a 10. Se uno studente ha studiato per 6, 7, 8, che tipo di voce potrà avere? I nostri grandi colleghi del passato, Bach, Mozart, Palestrina, ci hanno lasciato in eredità il loro sapere, quello che hanno appreso attraverso la composizione. Tutti gli studenti oggi hanno a disposizione questi strumenti. Basta leggere, studiare, provare e riprovare. Allora riceverai 9 e 10, non solo 6, 7, 8.L’autocritica è molto utile in ogni professione. Prendi un dottore per esempio: vogliamo andare dai migliori dottori, quelli che hanno studiato per nove e dieci, menti brillanti. Quindi, quando uno studente di composizione ha studiato molto duramente deve iniziare ad ascoltare se stesso, i propri sentimenti. Ci sono così tanti studenti impazienti di incontrare la propria voce. Occorre aspettare. E ascoltare. Quello che ti piace, come ti piace, eccola, questa è la tua direzione. Ecco come nascerà la tua voce. Perché le persone tra il pubblico, quando vanno ai concerti, cercano una storia soggettiva. Non oggettività. Non cercano tristezza, gioia, lacrime. Stanno cercando le tue lacrime, la tua tristezza, la tua gioia. Quindi esprimi te stesso nella tua musica. Questo è importante. Ma fallirai se non sceglierai le tecniche appropriate per raccontare la tua storia. Prima lo studio, poi la professione, e poi la tua personalità.
L’ultima volta in cui abbiamo parlato mi ha accennato a un suo recente progetto, un balletto avente come soggetto Le Pleiadi. Può dirci qualcosa a riguardo?
C’è una tribù nel Nord America, la tribù dei Nez Perce, che ha una leggenda sulla costellazione delle Pleiadi. L’ho trovata in un libro, pubblicato negli Stati Uniti nel 1956. È la storia di sette sorelle nel cielo, le Pleiadi. Ognuna di loro aveva un segreto e non lo diceva a nessuno, nemmeno alle altre sorelle. Avevano infatti paura di essere scoperte, perché sarebbero morte e sarebbero cadute dal cielo. Il segreto era che ognuna delle sorelle si era innamorata di qualcosa sulla terra. Quindi, ogni volta che avevano del tempo libero, viaggiavano segretamente sulla terra e lì coltivavano la loro passione. Poiché le Pleiadi sono stelle eterne, amano le cose eterne: una sorella aveva una passione per l’acqua, un’altra per il vento, la terza per il fuoco. Ma la protagonista, la seconda sorella più giovane – e ha un bel nome, «gli occhi di colore diverso» – si innamorò di un uomo mortale. Era molto felice e gli anni passarono in un soffio. L’uomo invecchiò e lei no, ma continuarono a ballare. Quando lui morì, lei continuò ad amarlo nei suoi ricordi. E a ballare con lui. In un momento di ingenuità, raccontò alle sue sorelle del suo amore. Le sorelle si arrabbiarono molto con lei e la punirono, la denigrarono, si comportarono male. E di giorno in giorno, la sorella dagli occhi di colore diverso diventò sempre più silenziosa. La leggenda si conclude con l’ultima frase che dice «ed era così triste e addolorata che decise di coprirsi con un velo». È per questo che oggi le persone in cielo vedono, nella costellazione delle Pleiadi, sei stelle luminose e una stella pallida, un po’ distante dalle altre. Vedi, una storia molto triste. Ma la mia non avrà questa tristezza alla fine. Sto mostrando una prospettiva diversa. Questa storia è affascinante, vedo un incoraggiamento a essere se stessi, a fidarsi del proprio istinto, delle proprie scelte, di come ti senti, di ciò che ami. È di questo che parla il mio balletto.