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La forza della semplicità
Intervista a Marcos Pavan

di Enrico Correggia
Portrait, Choraliter 69, gennaio 2023

Quando misi piede per la prima volta nella Cappella Musicale Pontificia, nel giugno del 2016, rimasi profondamente colpito dalla qualità dei pueri, dalla loro flessibilità, dalla loro attenzione. E da quella figura, così rispettata e amata, che li guidava stando quasi in disparte e annotando ogni dettaglio da sistemare. Era mons. Marcos Isola Pavan, brasiliano, mente lucida e profonda, colui che, tre anni dopo, di quel coro avrebbe assunto la direzione.

La sua formazione affonda le radici nel mondo della lirica e del teatro. Come è nata la sua passione per la musica? Cantava già da piccolo o è una vocazione tardiva?

Ho avuto la fortuna di studiare in una scuola privata che curava molto la formazione musicale. Già a cinque anni sono stato introdotto a quest’arte e a sette cantavo nel coro della scuola. A nove ho iniziato a dedicarmi al pianoforte continuando a cantare senza soluzione di continuità. Posso veramente dire che la musica sia stata una delle mie due grandi passioni fin da piccolo: l’altra era la religione!

Proprio una via tracciata! Ma è stato il primo in famiglia o già c’era un ambiente musicale tra le mura domestiche?

In qualche modo era una passione di famiglia. Mio nonno materno era un musicista – seppur di livello amatoriale – e mia madre cantava per diletto. Ma, per me, far musica è sempre stato un amore speciale che mai ho abbandonato. Ho sempre continuato a cantare in ogni momento della mia vita. A un certo punto, ho cambiato liceo e sono andato a studiare a San Paolo dai Benedettini. Lì ho conosciuto il canto gregoriano: per uno appassionato di musica e religione era il massimo! Lì mi sono innamorato di questo repertorio. Finito il liceo sono andato all’università – ho fatto giurisprudenza – e ho iniziato a frequentare un coro gregoriano diretto da una discepola di Eugène Cardine.

Una inglese, Eleanor Dewey, giusto?

Esattamente! Era una canonica regolare di Sant’Agostino che aveva studiato con lui a Roma e si era trasferita in Brasile, dove dirigeva questo coro. Studiavo con lei e, col tempo, sono diventato suo assistente. Grazie alla sua presentazione, sono stato quasi un mese a Solesmes per fare lezione con lo stesso dom Cardine che, nel frattempo, era già ritornato in abbazia. Ed è stata veramente una grazia di Dio. Avevo già studiato tutte le sue opere – avevo anche tradotto in portoghese e pubblicato con la mia maestra la semiologia gregoriana – ma cantare con lui, potergli fare domande, essere corretto e sostenuto in ogni mio dubbio è stato un po’ il coronamento dei miei studi, una cartina di tornasole per capire cos’avevo realmente inteso.

E il teatro, in tutto questo, come si colloca?

Finita l’università, parallelamente al gregoriano, ho iniziato a studiare tecnica vocale perché nella vita volevo fare il musicista, non certo l’avvocato. Allora ho fatto il concorso per il teatro dell’Opera a San Paolo e sono entrato, prima come artista del coro, poi come solista. Ho vinto anche qualche competizione, poi sono andato a New York per perfezionarmi con Franco Iglesias, il maestro di Domingo. Diciamo così: il gregoriano era la passione, la lirica la professione. E la polifonia la formazione. Alla fine, questi tre aspetti sono finiti per convergere nel mio lavoro in Cappella Sistina. È proprio vero che Dio traccia delle strade per ognuno di noi: durante il percorso non siamo in grado di comprenderle, ma voltandoci indietro diventa chiaro come tutto abbia un senso!

Lei è arrivato in Italia nel 1991. Dopo sette anni, riceve da mons. Liberto, all’epoca maestro direttore della Cappella Musicale Pontificia, la chiamata a ricoprire l’incarico di maestro dei pueri. Com’è stato approdare in questa realtà plurisecolare arrivando, per usare le parole del Papa Regnante, dalla “fine del mondo”?

È stata veramente una sorpresa. Approdai in Italia per studiare filosofia e teologia: il mio vescovo aveva la possibilità di offrire una borsa di studio e, visto che già ero laureato, pensò fosse cosa buona completare la mia formazione a Roma. Compiuto questo percorso, rimasi – dato il background in giurisprudenza – per conseguire la licenza in diritto canonico. Nel frattempo cantavo, prima in seminario, poi a San Pietro. Cominciai in Cappella Giulia per poi giungere alle messe del Santo Padre, come solista e salmista. Quando arrivò in Sistina il maestro Liberto, iniziò a cercare un direttore per le voci bianche. Qualcuno gli parlò di me, ma io non lo conoscevo. Anzi, non conoscevo proprio nessuno in quell’ambiente, se non mons. Marini, il maestro delle cerimonie papali. Ho conosciuto anche don Renzo Cilia (ndr. il maestro dei pueri uscente, che ricoprì l’incarico dal 1992 al 1998) ma, appunto, nessun altro. La sua chiamata per propormi l’incarico fu più che una sorpresa: uno shock. Nel giro di un mese sarei dovuto ritornare in Brasile. Avevo già spedito tutti i miei libri e metà della mia roba.

Un cambio di vita repentino!

Sì, oltretutto non avevo mai lavorato con cori di voci bianche. Avevo preparato e diretto cori di adulti, con i ragazzi era proprio la prima volta. Ma Liberto credeva nelle mie possibilità. Allora gli chiesi di parlare col mio vescovo, per avere l’autorizzazione. Quest’ultimo non ne fu tanto contento: mi concesse due anni, fino al giubileo, «e dopo vediamo». Poi, come spesso accade con le cose provvisorie, è diventata una cosa definitiva. Ma devo dire, con mia grande sorpresa, di essermi trovato subito bene con i ragazzi. È strano, non pensavo! È stato l’inizio di una grande avventura: sono rimasto a lavorare con i pueri per ventuno anni.

Questo mi porta a chiederle una cosa. Quello di Magister Puerorum è un incarico molto impegnativo e delicato. Ci può raccontare qualcosa della formazione di questi bambini? Come si portano a cantare Palestrina con grazia e cognizione?

Beh, innanzitutto con la formazione. Devono studiare teoria, solfeggio e tecnica vocale. Poi sicuramente con la motivazione, che è fondamentale. Devono capire l’importanza di quello che fanno per il Papa, per la Chiesa, per i fedeli ma anche per loro stessi perché, in fondo, scoprono delle capacità che non avrebbero mai immaginato di avere. Vengono selezionati perché hanno un dono, ma per loro è una meraviglia scoprirlo. E poi l’altra cosa vitale è la dedizione. Con un bambino non ci si può fermare a quelle poche ore di lezione: serve un contatto costante con la famiglia. Da questo punto di vista sono stato molto fortunato perché ho avuto da subito un team di insegnanti e collaboratori straordinario che non ha mai badato agli orari. Per le necessità dei pueri sono sempre stati estremamente disponibili per risolvere ogni tipo di problema. Addirittura, quando si è reso necessario, sono andati a prendere i bambini per portarli a scuola, in caso i genitori si trovassero impossibilitati ad accompagnarli. Ci vuole veramente una dedizione fuori dal comune. In fondo, bisogna voler bene ai ragazzi: questo loro lo capiscono e reagiscono bene. Sono questi tre gli ingredienti fondamentali: formazione, motivazione e dedizione. Poi certo che possono cantare Palestrina, anche se, talvolta, le prime a non crederci sono le famiglie. Purtroppo, qua in Italia manca proprio questa mentalità, questa cultura.

Quali sono le difficoltà maggiori che ha incontrato nel passare a dirigere il coro completo, dopo anni passati con i pueri?

In verità, conoscevo già la realtà degli adulti: come maestro dei pueri ero sempre presente alle prove, quindi osservavo tutto e vedevo come funzionavano le cose. Diciamo che il lavoro più impegnativo è quello di comprendere le individualità. Rispetto ai bambini, gli adulti sono ovviamente meno flessibili e malleabili. Bisogna capire come chiedere le cose, bisogna motivare le proprie scelte. Ma, in fondo, la cosa principale, adulti o bambini che siano, è guadagnare la loro fiducia. Non è immediato né scontato, però, una volta fatto questo passo, devo dire, lavorare con loro è piuttosto semplice. Sono stato fortunato a frequentare il coro per più di vent’anni prima di diventare il loro maestro. Questa cosa ci ha risparmiato tanti problemi di ambientamento e ci ha consentito di poter lavorare da subito in un certo modo.

La Cappella Musicale Pontificia è una realtà molto particolare in cui si avverte fortemente il peso della storia. Il 21 dicembre abbiamo inaugurato l’anno perosiano, per il 150º anniversario della nascita del suo celebre predecessore. Che effetto fa onorare la memoria e restituire voce alle partiture di chi ha vissuto in precedenza la sua stessa posizione?

Onorare la memoria dei musicisti della Sistina è, per me, innanzitutto un dovere. Se non lo facciamo noi, chi lo deve fare? In fondo, ogni nazione ha una particolare attenzione verso i propri artisti. A Roma abbiamo la fortuna di avere quest’immensa tradizione polifonica, noi abbiamo il compito di tenerla viva. Per Perosi ho una grande ammirazione, non solo come musicista ma come persona. Facendo il suo lavoro, capisco le difficoltà che ha trovato. In Sistina ha dovuto fare una riforma, sia dal punto di vista musicale che gestionale: ricordiamoci che ha anche escluso gli evirati. Posso solo immaginare quanto abbia sofferto e faticato. E comprendo meglio anche la sua vicenda umana, il suo crollo psicologico. Il suo lavoro non dev’esser stato facile, per niente. Trovo sia particolarmente bello poterne curare la memoria, onorare il lavoro e mantenerne viva l’identità.

Questo è, per me, un tema molto sensibile. Ho sempre sentito fortemente il desiderio di scoprire le storie delle persone che ci hanno preceduto e poter render loro giustizia. A tal proposito mi sorge una domanda. Il fondo archivistico della Cappella Sistina è immenso e ricco di tesori: che rapporto ha con la ricerca musicologica e con la restituzione in liturgia delle opere ivi contenute da secoli?

Sarebbe meraviglioso se io avessi il tempo di andare alla Biblioteca Apostolica Vaticana, dove si trova il fondo della Cappella Sistina, e immergermi in quel mare sconfinato di opere straordinarie… però è impossibile. Il lavoro del maestro della Cappella Musicale Pontificia non è solo musicale, anzi, ciò che occupa più energie è soprattutto lo sforzo costante per mantenere in piedi l’istituzione. In particolar modo se si vuole conservare in forze la sezione delle voci bianche. Bisogna andare in giro per le scuole e per le parrocchie a convincere dirigenti, parroci e genitori a far fare l’audizione ai loro bambini. È un lavoro immenso e, purtroppo, non ho modo di dedicarmi anche alla ricerca musicologica. Per fortuna c’è chi la fa! E di questo lavoro usufruisco costantemente: sono molto attento alle nuove pubblicazioni. Ne approfitto per dire che il nostro cantore Luciano Luciani, recentemente scomparso, ha fatto un bellissimo lavoro di indicizzazione con ogni incipit musicale di tutto il fondo della Sistina, edito dalla Ibimus. Come Cappella Musicale l’abbiamo sostenuto e finanziato e il prodotto è qualcosa di cui tutti possiamo beneficiare. 

Mi permetta di riagganciarmi, invece, al discorso di prima. Quando si parla di canto gregoriano abbiamo visto che è difficile che, a un certo punto della discussione, non salti fuori il nome di Eugène Cardine. Lei, che ha avuto la fortuna di essere stato uno dei suoi ultimi allievi, ci vuole lasciare un ricordo personale dell’uomo e del professore che fu?

Dom Cardine era la personificazione della gentilezza e della raffinatezza. Aveva quella semplicità propria dei grandi, quelli che non devono dimostrare niente a nessuno. Mi ha accolto a Solesmes con uno spirito di fratellanza e con una bontà indescrivibili. Per quanto riguarda l’aspetto musicale, fu evidentemente una figura chiave: il mondo degli studi gregoriani si divide in prima e dopo Cardine. Purtroppo, da allora, ritengo si siano fatti pochissimi passi avanti. La cosa che colpisce subito è, ancor più del suo lavoro sulla semiologia, il suo equilibrio nel valutare l’importanza della semiologia stessa. Dopo aver pubblicato tutti i suoi studi, lui stesso ha voluto mettere in guardia dal rischio degli eccessi. Nonostante andasse a fondo nella ricerca del dettaglio, ha scritto comunque un lavoro dal titolo Vue d’ensemble sur le chant grégorien, visione d’insieme. Questo è proprio del vero musicista: i particolari servono per arrivare a una sintesi. Cardine ha pubblicato anche Ceci est mon testament, il suo testamento. Io ho avuto la fortuna di averlo in anteprima, dattiloscritto, direttamente dalle sue mani. Devo dire che il testo pubblicato non era lo stesso, è stato un po’ “normalizzato” in alcuni punti. Nell’originale – che ho ancora, firmato da lui – parla proprio del rischio dell’esagerazione, di soffermarsi così tanto sui dettagli da perdere l’immagine complessiva. Non basta conoscere perfettamente i segni se poi si perde il senso della frase.

Questo mi fa particolarmente piacere: ho sempre pensato che la figura di Cardine non sia mai stata compresa appieno e che il suo studio servisse a rendere più nitido il quadro generale.

Certo! Nei suoi scritti che ho citato, è evidente la sua preoccupazione per il pericolo di un approccio troppo fondamentalista alla semiografia. E, purtroppo, mi capita di vedere in alcuni cori gregoriani proprio la radicalizzazione della semiologia. Assisto a esecuzioni impeccabili da quel punto di vista in cui, però, manca l’insieme, manca la musica, manca la frase. Essere un perfetto conoscitore del solfeggio non vuol dire essere un buon musicista. Manca l’essenza: il segno è un mezzo, non un fine.

Abbiamo visto che dirigere il coro in attività più antico al mondo è decisamente una vita complicata. Cionostante è evidentemente un sogno per tanti. Il direttore della Cappella Sistina ha un sogno?

Va detto che, in realtà, non è mai stato il mio sogno: è una cosa che mai avrei creduto possibile! Ci sono arrivato per circostanze veramente molto fortuite. Poi, ovviamente, in tutto c’è sempre la mano di Dio: un cristiano deve credere che Dio guidi le nostre vite. Ma non mi sarebbe mai passata per l’anticamera del cervello l’idea che un giorno avrei potuto essere qua! Non posso dire, oggi, di avere dei sogni. Ho, piuttosto, delle speranze legate alle mie preoccupazioni attuali. Una speranza che ho, legata alla Sistina, è che, con l’aiuto di Dio, si riesca a mantenere viva questa realtà – soprattutto conservando la sezione delle voci bianche – in una società che va in tutt’altra direzione. La nostra realtà è l’opposto della mentalità edonista, qualunquista e superficiale che va definendosi nei nostri tempi. La gente teme che i bambini si vedano addossate troppe pressioni e non possano godersi l’infanzia. Ma è tutto il contrario: una volta che sono lì, i bambini sono visibilmente sereni, felici, realizzati. Si sentono parte di una squadra, lavorano insieme, si sentono fieri dei risultati che ottengono, pur mantenendo la loro spontaneità e la loro libertà di bambini. È molto bello: si vede dalle loro facce quanto siano contenti, ma soprattutto diventa evidente quando devono andare via.

Fu addirittura fondato il coro degli ex-ragazzi cantori della Cappella Musicale Pontificia “Sistina”

…Sì! E, purtroppo, non l’ho potuto portare avanti a causa del tempo. La Sistina, da sola, ti assorbe tutte le giornate. Ma comunque i ragazzi continuano a tornare, a farsi visita, tanti vogliono riprendere come cantori adulti… se fosse un’esperienza così traumatica come in molti pensano, scapperebbero tutti. Invece è il contrario! Anzi, quando i ragazzi provano quest’esperienza, sono le famiglie stesse a volerci mandare fratelli e cugini. Poi, però, c’è sempre una selezione da affrontare: non tutti, magari, sono dotati di buona voce o buon orecchio. Tornando al discorso di prima, la mia speranza è che, al termine del mio lavoro, io possa lasciare una Cappella Sistina viva, vitale, nonostante le difficoltà della nostra cultura occidentale odierna.

La crisi della musica sacra ha radici molto antiche. L’unione indissolubile tra canto e liturgia è stata rotta da tempo. Che consigli darebbe ai compositori che oggi si occupano di questo settore?

Questa è la domanda più difficile di tutte! Ma anche perché il termine “musica sacra” è veramente ambiguo, può voler dire diverse cose. In generale si può usare per indicare quella musica erudita che tratta la sfera spirituale: nel caso di quella cristiana, che abbia testi tratti dalle scritture o che, comunque, ti porti ad avere un’esperienza intensa dal punto di vista religioso, di connessione col divino. Deve parlare alla mente e al cuore di chi la pratica e di chi la ascolta. Non può essere unicamente un’esperienza estetica, deve portare oltre. Poi, se per musica sacra intendiamo quella composta per essere eseguita in liturgia, diventa ancora più complicato perché oltre ad avere le caratteristiche che abbiamo elencato e la capacità di essere una via verso una dimensione spirituale e metafisica, deve possedere peculiarità concrete che sono, poi, quelle della liturgia cattolica: deve avere una pertinenza rituale e condividere le finalità della liturgia – la gloria di Dio, la santificazione dei fedeli – secondo le regole della Chiesa. Dunque, che dire a un compositore di musica liturgica? Prima di tutto che la musica non deve essere ingombrante, perché è sempre prima di tutto un mezzo. Un mezzo importante, certo, insostituibile. Ma un mezzo, non un fine. Se vai a una messa in cui la musica monopolizza così tanto l’attenzione da far dimenticare la liturgia, allora la musica è troppo ingombrante. Il che, attenzione, non vuol dire che non debba essere di qualità. Partiamo da un esempio lampante: il canto gregoriano è sublime e ineguagliabile ma non è ingombrante in una celebrazione, così come la polifonia di Palestrina. In questi casi si parte dalla musica per giungere alla preghiera, alla meditazione. Oltre a questa sensibilità, un compositore dovrebbe avere anche l’umiltà di comporre per delle circostanze reali, concrete. Non tutte le assemblee di fedeli hanno lo stesso livello culturale e spirituale. Quelle con meno mezzi andrebbero nutrite con composizioni adeguate che facciano della semplicità una virtù cardinale. Semplicità, non sciattezza, non mediocrità. La semplicità dei mezzi per poi aiutare tutti a salire pian piano. Che poi è la dinamica dell’incarnazione: Dio, facendosi uomo, è sceso al nostro livello per poi riportarci a lui. Questo è un tema molto delicato, ma è l’unica cosa che può mantenere viva la musica sacra in tutti gli ambiti della liturgia perché non diventi un fenomeno di nicchia. 

Va detto che, in italiano, il termine “semplicità” è un po’ ambiguo. O, meglio, viene spesso inteso in maniera errata.

Certo. Ma io non so se esista una cosa più semplice del Pater Noster gregoriano. Non c’è niente di complicato. Però non riesco a immaginare niente di meglio. È perfetto. La semplicità non è mediocrità, non è superficialità. La semplicità è difficilissima, è andare direttamente all’essenza. E questo è proprio dei grandi. Come si fa a scrivere una monodia che non ti stanchi dopo cento volte che l’hai eseguita? È difficilissimo! Poi, anche questo è importante, non si deve escludere la partecipazione dell’assemblea. Se la musica sacra vuole avere un futuro dev’essere legata alla vita della Chiesa. Non a ideologie. Il posto c’è, è previsto anche dal Concilio Vaticano II e chi dice di no non conosce il concilio. Ma deve seguire le indicazioni della liturgia attuale per avere un posto in tutte le liturgie, in tutti i paesi, in tutte le circostanze.

Dirige la Cappella Musicale Pontificia dal 2019, prima ad interim, poi con nomina effettiva, ma è in questa realtà da tre pontificati. Viene da pensare che uno si abitui a essere sempre addentro a eventi storici e che tutto perda un po’ di valore ma c’è qualcosa che ancora la emoziona fortemente? Riesce a rinnovare lo stupore e la meraviglia dei primi tempi?

Più che con la solennità delle celebrazioni, rinnovo lo stupore quando vedo il susseguirsi delle generazioni di ragazzi. Vederli crescere, sbocciare. Vedere quanta ricchezza riescano a esprimere. E parlo di quella ricchezza interiore che era dentro di loro e che non sapevano di avere. La loro maturazione umana e artistica mi stupisce ogni volta. Vedere un ragazzo timido acquisire fiducia nei propri mezzi e fare cose bellissime, questo mi meraviglia e mi motiva ad andare avanti.

In chiusura, il 5 gennaio ha preso parte alle esequie del papa emerito Benedetto XVI, un pontefice che tanto ha amato la musica e la liturgia. Per quanto suoni apparentemente strano chiederlo a dieci anni dalla rinuncia, quale sarà l’eredità di questo pontificato?

L’eredità generale è sotto gli occhi di tutti: c’è perfino chi vuole proclamarlo dottore della Chiesa. Dal punto di vista teologico, il suo lascito è enorme, così come lo è quello umano. È evidente, poi, la sua attenzione nel sottolineare sempre l’importanza delle arti e in particolare della musica (non solo quella sacra), nell’evidenziare il potere che quest’ultima ha di elevare lo spirito umano, di creare una società più armonica, una vita migliore, una visione quasi ottimistica per cui l’arte è in grado di trasformare il mondo. E io sono d’accordo con lui. C’è gente che ha difficoltà ad aderire a una confessione, ma attraverso la bellezza può fare comunque esperienza dello spirito e del divino. Ecco, per me, quest’attenzione di papa Benedetto, questa cura, questa continua gratitudine, lascerà qualcosa. Non posso dire che sia una preoccupazione estranea agli altri pontefici. Basta pensare alle cose che dice papa Francesco quando riceve i ragazzi. Anche Giovanni Paolo II ha scritto documenti bellissimi a riguardo, tra cui un chirografo sulla musica sacra. Ma nel caso di Benedetto è diverso. Forse perché anche lui era un musicista, fratello di un direttore di un coro come il nostro. Lui questa cosa non solo la sapeva e la capiva, ma la evidenziava. E questo si percepiva. Questa sua sicurezza, questa sua convinzione sul valore intrinseco dell’arte, questa idea del potere di miglioramento attraverso la bellezza… ecco, forse è questo che rimarrà leggendo i suoi scritti.

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