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Seguendo un canto ininterrotto
Sui percorsi della semiologia gregoriana con Johannes Berchmans Göschl

di Rossana Paliaga
Portrait, Choraliter 68, settembre 2022

Nella semiologia gregoriana l’emboitement indica la concatenazione delle parole cantate, il loro fluire ritmico e melodico ben articolato ma ininterrotto, quell’elemento che anche all’orecchio rende riconoscibile un’esecuzione convincente. Lo stesso accade nella ricerca, dove ogni nuovo capitolo deriva e si connette al precedente in una successione infinita. Per Johannes Berchmans Göschl, una delle voci più autorevoli della semiologia gregoriana, la ricerca è un processo inarrestabile che è iniziato sui banchi di scuola e prosegue con sempre nuovi spunti. Apprezzato docente, ha sviluppato e integrato l’insegnamento di Eugène Cardine, firmando testi fondamentali per l’interpretazione del gregoriano e traducendo i suoi studi anche nelle incisioni realizzate con la Schola Gregoriana Monacensis. Insieme a Luigi Agustoni ha scritto i volumi dell’Introduzione all’interpretazione del canto gregoriano, testo capitale nell’ambito degli studi gregoriani. È uno dei curatori del Graduale Novum e recentemente ha pubblicato un nuovo libro sull’anno liturgico in canto gregoriano, la cui edizione tedesca è andata esaurita a pochi mesi dall’uscita. Questo nuovo contributo al canto gregoriano è stato appena pubblicato nella versione italiana.

Biografia 

Ha studiato al Pontificio istituto di musica sacra a Roma e si è laureato con Dom Eugène Cardine in semiologia gregoriana. Dopo alcuni anni di insegnamento in vari istituti musicali, dal 1983 al 2006 è stato professore ordinario di canto gregoriano e liturgia all’Università di musica a Monaco di Baviera. È fondatore e direttore della Schola Gregoriana Monacensis, con cui ha inciso 15 CD. Insieme a Luigi Agustoni è autore dell’opera in tre volumi Introduzione all’interpretazione del canto gregoriano. Dal 1999 al 2015 è stato presidente dell’Associazione internazionale studi di canto gregoriano, della quale dal 2016 è presidente onorario. Dal 1977 è membro del gruppo di lavoro sulla restituzione melodica del repertorio del Proprium missae ed è uno dei curatori di ambedue i volumi del Graduale Novum.

Al canto gregoriano si arriva attraverso due vie, nella maggior parte dei casi convergenti, ovvero la fede e la ricerca musicologica (strettamente connessa alla pratica musicale). Quale delle due è stata per lei la via maestra?

Certamente ambedue, ma prima la fede. Il mio maestro, Dom Cardine, monaco di Solesmes, ha sempre definito il canto gregoriano “parola cantata”. È infatti la parola di Dio, scritta nella Bibbia, a risuonare in musica. Per questo la cosa più importante deve rimanere la parola, che non si adegua alla musica, ma la guida. 

Lei ha mosso i primi passi cantando in coro o studiando uno strumento?

Da bambino ero attivo come chierichetto nella mia parrocchia e lì ho iniziato a cantare qualche brano semplice dell’ordinario, ad esempio il Kyrie che tutti conoscono, dalla messa De Angelis, ancora oggi diffuso in diverse chiese in Germania. Al termine degli studi teologici ho deciso di studiare e approfondire il canto gregoriano e sono andato al Pontificio istituto di musica sacra a Roma, dove insegnava Eugène Cardine. Incontrare il mio maestro è stata una grande fortuna. Ho avuto infatti l’opportunità di studiare con il fondatore stesso della semiologia gregoriana. E avvicinatomi al calore dello studio dei segni presenti nei manoscritti ho preso fuoco.

Come ricorda Dom Cardine?

Il suo non è stato il primo contributo alla semiologia gregoriana, ma è stato il più straordinario, quello che ha fatto storia. Ascoltarlo cantare e spiegare le sue teorie mi ha convinto da subito che così deve essere. Per sua natura era un po’ caotico, ma aveva istinto per le cose importanti. Con lui ho studiato la notazione neumatica e constatato che i segni traducono molto di più di quanto si sapeva precedentemente del gregoriano. I neumi orientano il cantore, la sua lettura cantata, mettendo in rilievo le parole importanti del testo. Del maestro conservo un bel ricordo, abbiamo sempre lavorato molto bene e aveva espresso il desiderio che diventassi il suo successore in quella cattedra, ma i miei percorsi di studio e lavoro mi hanno portato altrove. Cardine aveva una personalità geniale e noi oggi viviamo ancora del suo genio.

Insegna da molti anni; sulla base della sua esperienza, quale aspetto della sua materia risulta più difficile da capire?

Il ritmo libero del canto gregoriano. Qui non esiste infatti una proporzione fissa tra note lunghe e brevi. Come nel parlato. Le sillabe assumono lunghezze diverse a seconda dell’importanza della parola. All’inizio comprendere questo concetto risulta difficoltoso per molti allievi. Un altro problema è che il gregoriano va cantato con legato impeccabile e per ottenerlo occorrono studi e perseveranza.

Il suo è un lavoro paziente, di infinito approfondimento e ricerca. Cosa le piace di questa attività?

Il fatto che riveli quanto il canto gregoriano, fin dai primi manoscritti, sia un’espressione musicale estremamente vivace e varia. L’esatto contrario di quanto ci insegnava l’equalismo, che nel canto gregoriano prescriveva che le note fossero tutte uguali per tempo ed espressione. Lo studio dei neumi ci ha aperto le porte di una realtà totalmente diversa.

Il mondo dei ricercatori ci offre una visione complessa del canto gregoriano che nella pratica diffusa, anche in ambito monastico, viene ampiamente semplificata. Sono tutte versioni accertabili?

Il gregoriano non dovrebbe essere patrimonio di eletti. Il Concilio Vaticano lo ha definito come il canto proprio della chiesa cattolica, incoraggiandone quindi l’utilizzo ovunque vi sia il desiderio di corredare il momento liturgico con questo repertorio. La realtà è effettivamente diversa e non mancano esempi di ecclesiastici che prediligono altri tipi di musica, come anche di laici che praticano il gregoriano da una prospettiva prettamente musicologica. Le conoscenze degli studiosi devono incoraggiare una lettura più efficace, ma il repertorio gregoriano deve essere alla portata delle persone che attraverso questi canti vivono la loro fede cristiana.

Ha partecipato al monumentale lavoro che ha portato al Graduale Novum. Come è stato strutturato e gestito il progetto?

Tutto ebbe inizio nel 1977 quando un gruppo di lavoro internazionale si riunì, constatando che molte volte la semiologia non trovava corrispondenze nelle melodie dell’edizione vaticana. All’interno di questo gruppo, al quale hanno partecipato anche Dom Cardine e il suo primo discepolo Luigi Agustoni, si decise quindi di ripristinare una maggiore corrispondenza tra le forme melodiche e i neumi. Ciascuno lavorò autonomamente, con riunioni collettive di verifica e confronto alcune volte all’anno. L’intero lavoro è durato 34 anni, finché il primo volume del Novum è uscito per una casa editrice di Ratisbona, in collaborazione con la Libreria Editrice Vaticana. Presentammo il nostro lavoro a papa Benedetto XVI in occasione di un’udienza privata. La durata dell’incontro rese possibile anche cantare un brano, l’introito Jubilate Deo della terza domenica di Pasqua. Ricordo il commento del papa: «Non immaginavo che gli studiosi potessero cantare così bene!». Il primo volume si intitola De dominicis et festis e raccoglie tutti i canti della messa di tutte le domeniche dell’anno liturgico e delle più grandi feste. Tutto il resto è stato elaborato in ulteriori sette anni di lavoro per il secondo volume, De feriis et sanctis. Ma le sfide della ricerca non si fermano…I l lavoro non finisce mai. Completata l’opera del Novum, ci siamo immediatamente rivolti a nuovi progetti. Il lavoro che attualmente ci appassiona con molti dubbi è quello sui versetti degli offertori. Questo studio è stato svolto finora da ciascuno in autonomia a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia, ma ora vogliamo organizzare il primo incontro in presenza. 

In altri settori scientifici la teoria non porta necessariamente a una “verifica” pratica da parte dello stesso ricercatore. Nel campo del gregoriano solitamente chi firma le ricerche è anche cantore e direttore di una schola. Potremmo dire che voi stessi siete sempre i primi a mettere in pratica i frutti del vostro lavoro di ricerca?

Tuti i membri del nostro circolo di lavoro dirigono e cantano, hanno una schola. Effettivamente non c’è nessuno che si occupi soltanto della materia soltanto a livello scientifico ovvero teorico. 

La direzione del gregoriano è molto peculiare. Dove si impara?

Non esistono vere e proprie scuole dedicate. Ci sono tante teorie sulla direzione del canto gregoriano quanti sono gli esperti in materia. Ciò che presento rispecchia la mia esperienza personale. Ho imparato a dirigere da Cardine e altri maestri, imitando l’andamento dei neumi di Sangallo, che si prestano meglio a essere tradotti in gesto. Non è difficile rappresentare una clivis, un pes, un torculus, un porrectus. Ovviamente non posso imitare un climacus, perché nella direzione i punti vanno evitati: altrimenti non devo meravigliarmi se il coro non è capace di fare un legato. Per i gruppi strofici utilizzo invece movimenti a pendolo orizzontale, sempre per mantenere il legato.

Qual è il traguardo del quale è più orgoglioso?

Sono tre. In primo luogo la mia Schola Gregoriana Monacensis, fondata nel 1998 e con la quale ho potuto incidere tutte le messe delle domeniche dell’anno liturgico e delle maggiori feste. In seguito abbiamo inciso anche tre nuovi cd con tutti i canti dell’ordinarium. Poi devo citare due pubblicazioni: una realizzata negli anni Ottanta insieme a Luigi Agustoni in relazione all’interpretazione del gregoriano: tre tomi tradotti anche in italiano. Più recente è invece il libro a commento del Graduale Novum. Tratto principalmente dei problemi e risultati della restituzione melodica, ma l’ultimo capitolo, il settimo, è il mio testamento spirituale, esprime quello che il canto gregoriano è per me lungo tutta la mia vita. 

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