Se dovesse presentarsi ai nostri lettori con un dipinto, quale sceglierebbe?
Bella domanda. Non è un dipinto famoso, è una zebra multicolore che comprai a Nairobi due anni fa. Rappresenta una cultura diversa, è fatta in maniera intelligente e soprattutto è colorata. Mi rappresenta molto: i miei figli vengono dall’Etiopia.
Lei ha iniziato nel mondo corale come cantore della Cattedrale di Westminster. Quanto crede sia importante per un direttore saper cantare?
Molto, molto. Questo non significa che tutti i direttori debbano per forza essere degli eccellenti cantori, ma di certo saper cantare aiuta. Allo stesso modo un direttore d’orchestra, a mia vista, dovrebbe suonare giornalmente uno strumento ad arco, un fiato e una percussione. Ovviamente è utopico, ma nella direzione d’orchestra mi ha aiutato moltissimo aver suonato uno strumento ad arco. E con il canto è stata la stessa cosa.
Lei è infatti riconosciuto anche come direttore d’opera. Questa attività influenza il suo dirigere un coro a cappella?
È una buona domanda. Per me perfino un piccolo brano a cappella di tre minuti deve avere una propria drammaturgia, una storia. Ciò che avvantaggia il coro è il fatto che canti sempre delle parole, che abbia sempre qualcosa da dire. E non è solo l’articolazione del testo a costruire il senso ma anche lo sfondo su cui si staglia, il dipinto che vi sta dietro. Nella musica puramente strumentale a volte devo imporre la mia personale visione del dramma. Nell’opera c’è già tutto e si ricava immediatamente in quel gioco di forza tra tensione e risoluzione, nell’azione tra personaggi che ami e quelli che credi di odiare. Nell’opera non si può avere una cosa senza l’altra. E penso che questo sia ciò che poi entra sempre nel mio dirigere opere corali: la drammaturgia.
Quando fu scelto come direttore principale del RIAS Kammerchor quale fu il suo primo pensiero?
Ho pensato: “sono bravo abbastanza”, perché il mio lavoro mi stava dicendo quello in quel momento. E allora mi sono detto: bene, goditelo. Il secondo pensiero però è subito andato alla responsabilità di questo ruolo che non impone solo l’essere direttore nei concerti, ma anche il prendersi cura dei propri cantori, proprio come un’allenatore farebbe con la sua squadra. E poi ancora la responsabilità verso il pubblico nel presentare il coro sempre al meglio delle sue possibilità. Insomma, è come avere un’altra famiglia e adoro questa sensazione. Trovo molto più soddisfacente questo ruolo del direttore ospite: così si conoscono le persone e si impara a guidarle. Quello con il RIAS è un lavoro di lusso ed è a oggi un luogo felice: è infatti molto importante per me mantenere un’atmosfera positiva, che consenta di lavorare ad alto livello.
Quali sono le caratteristiche che un direttore di coro professionista dovrebbe avere?
La professionalità innanzitutto non riguarda mai il coro che si dirige: tra un coro amatoriale e uno professionale cambierà un poco il modo di lavorare ma i principi e le priorità di un direttore saranno gli stessi. Innanzitutto un direttore dovrebbe essere attivo e passivo allo stesso tempo: la tecnica serve a poco se il direttore non ascolta. È un equilibrio delicato: se il direttore è preoccupato solo di imporre al coro la sua idea interpretativa, probabilmente non sarà in grado di ricevere dal coro le informazioni necessarie per un buon risultato. Quello che ricordo dei miei anni di formazione e quello su cui ragiono ancora oggi con i giovani direttori è la difficoltà del paragonare la versione studiata con quella che ascoltiamo. E quindi la difficoltà di non continuare a dirigere ciò che abbiamo studiato e che, per questo, abbiamo in testa. Ci deve essere uno scambio nella direzione: noi mostriamo ciò che riteniamo importante ai cantori e lasciamo che loro, con la loro voce, facciano lo stesso. Quindi per me le caratteristiche essenziali in ordine di importanza sono: saper ascoltare, essere il più preparato all’interno della stanza, costruire collaborazione e rispetto. Perché se il direttore rispetta e si fida dei propri coristi, anche loro si fideranno di lui.
In Italia non abbiamo molti cori professionisti, fatta eccezione per i cori d’opera. Dall’esterno, come interpreterebbe questo nostra lacuna?
Anche in Inghilterra c’è solo un coro professionale in tutta la nazione. La gente parla della tradizione corale inglese come un esempio ma forse non è davvero così. Solo il coro della BBC è impiegato a tempo pieno: il sistema corale inglese si poggia sui liberi professionisti e da tali sono formati cori come il Monteverdi Choir o The Sixteen. I loro cantori vengono da esperienze universitarie o dall’esperienza in cori di chiesa piuttosto che da un percorso accademico. Qui in Italia invece molte più persone studiano canto in conservatorio ma poi trovano difficile passare al canto corale perché non sono stati formati per quello. Poi in Italia cantano tutti per tradizione, come in Finlandia, e quindi è anche più difficile distinguere l’amatore dal professionista. Al governo finlandese non è permesso supportare finanziariamente i cori professionali perché legalmente non esistono: come puoi essere un cantore professionista se tutti sanno cantare?
È il direttore a stare davanti al coro o il coro a stare di fronte al direttore?
Innanzitutto il coro può cantare senza direttore e lo può fare molto bene, spesso meglio. Dall’altra parte non avrebbe senso che il direttore se ne stesse in piedi da solo: potrebbe dirigere solo una corona su una pausa. Sarebbe stupido. Così credo che il direttore sia il bene di lusso e il coro l’essenza, ma credo che non ci sia un davanti o uno stare di fronte: stanno assieme, con differenti responsabilità. Anzi, credo che il considerare il direttore responsabile per qualsiasi cosa sia un po’ eccessivo, anche il coro ha le sue responsabilità, eccome.
Oltre alla musica, sappiamo che una sua grande passione è il cricket. È vero?
Sì, è vero. Da piccolo ci ho giocato molto e trovo che crei un bel mix di abilità nel gioco di squadra. Qui la sfida, lo stimolo personale del singolo è anche della squadra, è un gioco molto civile e molto vario: le partite possono durare da due ore a cinque giorni. Per me è un vero antidoto alla musica corale. Penso che sia importante avere delle passioni accanto a quella per la musica: io ho anche un giardino dove coltivo verdura e adoro la montagna. La montagna è davvero nel mio cuore: adoro correre in montagna e adoro le sue mappe. Poi adoro viaggiare e scoprire nuove culture. Il mio cuore è in Africa perché i miei bambini vengono da lì e sono ormai ventitré anni che faccio avanti e indietro dall’Africa dell’est. Insomma, ho davvero molte passioni e credo che tutte si riempiano di musica.
Lei ha da poco eseguito, in un meraviglioso programma che le accosta alle omonime opere di Byrd, Tallis e Palestrina, Threni: id est lamentationes Jeremiae Prophetae di Igor Stravinskij. Un lavoro interamente costruito su una serie di dodici suoni. Ci racconta della scelta di questo brano?
È nato tutto da una chiacchierata, quattro anni fa, con Winrich Hopp, il direttore artistico della Musikfest Berlin. Un uomo di grandissima ispirazione e con un pizzico di follia che a un certo punto mi dice: «Magari Threni?». È un pezzo brillante e difficilissimo, soprattutto da eseguire nonostante le restrizioni dovute al coronavirus e con il distanziamento tra coristi e tra strumentisti. Sono pagine affascinanti e potenti. Le tenebre e la Settimana Santa sono momenti della cultura cattolica che sento molto vicini nel mio profondo e Stravinskij li rende in modo freddo e al contempo così passionale. Threni è uno di quei brani da studiare per una vita intera. Nella prima parte del programma con Byrd, Tallis, Palestrina, Gesualdo e alcune opere strumentali di Gabrieli ho cercato di mettere in luce le possibili influenze su Stravinskij nella composizione di questa pagina.
Come è solito costruire un programma da concerto?
Attraverso la drammaturgia e una logica che non sempre suona all’intelligenza del pubblico ma crea senso. E così uno dei miei programmi preferiti, presentato alla Elbphilharmonie di Amburgo, aveva al centro Seven last words from the Cross di James MacMillan, uno straordinario capolavoro che adoro eseguire e che ogni volta propongo in maniera diversa dalla precedente. Perché dipende dalla situazione, dal coro. Lì nella parte centrale c’erano cinque dei Tenebrae Responsories di De Victoria accanto a una folle Fantasia per archi di Hans Werner Henze che nel mio programma fungeva quasi da specchio per De Victoria, come se tutto avvenisse in una liturgia. All’inizio del concerto il mottetto Komm, Jesu, komm BWV 299 di Bach, che abbiamo interpretato mescolando i cantori con l’orchestra. Fu davvero speciale, e lo fu per me, il coro, l’orchestra e il pubblico: qualcosa era davvero arrivato. Speciale.
Quanto cambia l’attitudine mentale di un direttore dalla prova alla performance?
Dipende dal progetto, dalla quantità e dalla continuità delle prove. Io solitamente prima dei concerti tendo a essere più passivo. Nella prova generale cerco sempre di essere meno d’aiuto, non cerco di creare e così posso essere davvero in osservazione. Solitamente registro e arrivato a casa confronto ciò che io ho osservato con quanto mi dicono i microfoni. Con tutte queste informazioni poi vado in concerto e, lì senza parlare, posso aiutare e sistemare le cose che non hanno funzionato. Quindi solitamente sono più attivo, anche mentalmente, e cerco di mettere la ciliegina sulla torta.
Perché un giovane direttore dovrebbe iscriversi a una concorso per direttori? I concorsi al giorno d’oggi sono molto strani, sono tanti e sono diversi. E tra tutti non c’è una via giusta: come si giudica un giovane direttore?
È come dover giudicare del cibo e trovarsi di fronte cinque persone con cinque diversi menù. Potrebbero essere tutti sensazionali per cose molto diverse e che senso avrebbe paragonare la frutta con il formaggio? Sono entrambi buonissimi. Ma sfortunatamente i concorsi sono mali necessari, qualcosa che è importante fare. Un po’ perché così si ha l’occasione di farsi conoscere e magari farsi chiamare in qualità di assistente di un direttore. Possono portare a un passo importante nel percorso professionale e fungere da pubblicità per un giovane. Sono anche delle ottime occasioni per lavorare con diversi ensemble, per conoscere altri giovani con la stessa passione e farsi dei colleghi, per vederli lavorare in concertazione, cosa abbastanza rara altrimenti. Il più grande problema circa un concorso è che spesso i direttori sentono il bisogno di dover mostrare ciò che si fa, ma un direttore non ha bisogno di questo se il lavoro è fatto bene, perché sta interagendo con le persone sul palco. Molti giovani direttori provano a mostrare tutto, dimenticando che ciò che noi abbiamo bisogno di vedere è che loro siano in ascolto e sentano. È una cosa che si può vedere. E così il mio consiglio per i giovani direttori è questo: ascoltate, ascoltate, ascoltate e lavorate con il coro che avete di fronte, non con quello che avete in testa. Concertate rispetto a quello che ascoltate e non secondo ciò che a casa avete programmato.
Un sogno nel cassetto?
La pensione! Scherzo, è che non c’è mai abbastanza tempo. Però sogno una migliore educazione musicale, in tutto il mondo, soprattutto in Inghilterra. Sogno che qualcuno abbatta le disparità tra culture e che, anche nella musica, la gente smetta di catalogare, di mettere a ogni cosa un’etichetta. Il mondo ha così tanti confini! Sogno che chiunque possa passare un pomeriggio a cantare canti popolari dell’Etiopia per poi farsi una partita a calcio, o a cricket.