La conosciamo come direttore, tuttavia lei stesso nasce come cantore. Come si sono sviluppate e articolate le sue scelte nella formazione musicale?
Ho cominciato molto giovane, da adolescente, con un gruppo di appassionati di musica antica a Belluno. Alla base di questo interesse collettivo c’era l’insegnamento di un professore scozzese, John Guthrie, che aveva trovato il modo di incuriosire molte persone a repertori che all’epoca, soprattutto in centri di piccole dimensioni come questo, non erano così comuni. Poi è arrivato l’ulteriore incoraggiamento di mio cugino, l’organista e musicologo Luigi Ferdinando Tagliavini, che mi ha suggerito di andare a studiare a Bologna. Qui ho iniziato a cantare con vari gruppi, dalle Istitutioni Harmoniche alla storica Cappella di San Petronio, proseguendo poi a Venezia con approfondimenti sul canto barocco. In Odhecaton sono stato prima cantore, poi sono passato alla direzione. Ho sempre unito le due cose, la musica praticata e la ricerca musicologica, perché alla fine se ne trae un vantaggio doppio: una maggiore consapevolezza per l’interprete, una migliore conoscenza per chi parla di musica.
Tutti noi abbiamo apprezzato le sue tante registrazioni con Odhecaton. Si tratta di un ensemble professionistico con il quale lavora da molto tempo. Per una giusta attinenza filologica, naturalmente, usa soltanto voci maschili. Vorrei chiederle di dirci qualcosa sulla scelta delle voci, in relazione alla particolare sonorità che ha cercato nell’ambito delle varie registrazioni.
Il nostro gruppo si caratterizza in effetti soprattutto per l’organico, un ensemble di voci maschili a cappella, nel nostro Paese sicuramente meno diffuso delle formazioni miste che affrontano repertori analoghi. Questa scelta venne a suo tempo ispirata dall’ascolto di formazioni anglosassoni come Pro Cantione Antiqua e Hilliard Ensemble, che già da ragazzo ebbi modo di conoscere attraverso registrazioni, concerti e contatti personali. Al di là della volontà di comporre un insieme che in qualche modo si ispirasse agli organici delle cappelle rinascimentali, apprezzai con il vivo ascolto il profilo timbrico e sonoro delle voci maschili, le doti di uniformità timbrica che gli armonici delle voci virili realizzano tra loro nei diversi registri di petto e di testa. I repertori che oggi affrontiamo erano un tempo comunemente disimpegnati da insiemi di questo tipo, in ambiti vocali che i compositori concepivano proprio considerando la “comodità delle voci”. Anche le voci puerili, che cantavano assieme ai falsettisti, non erano spinte molto nell’acuto, ma rimanevano in un ambito comodo anche per le voci adulte.
Come si pone nei confronti del suono inglese, per lungo tempo lontano dal cosiddetto “suono mediterraneo”, visto che ha una stretta collaborazione con alcuni membri dei Gesualdo Six nei suoi concerti con Odhecaton? La loro grande sensibilità intonativa si unisce bene con la cantabilità dei cantori italiani?
Confermo la corretta valutazione dei diversi caratteri. Anche in epoca rinascimentale, e non solo nelle più prestigiose cappelle principesche degli stati territoriali italiani, gli insiemi vocali erano spesso internazionali, con apporti che provenivano soprattutto da Francia e Fiandre di cantori ben istruiti presso le scuole di cattedrali e collegiate (maîtrises), ma anche da altri Paesi europei. Abbiamo spesso fatto ricorso al contributo di controtenori inglesi o francesi, grazie alla maggiore tradizione che in quei Paesi tuttora permane, ma nell’ultima registrazione dedicata a Josquin abbiamo in effetti unito due diverse formazioni per raggiungere organici che ritenevo adeguati alle grandi composizioni di questo autore. Trovo che i cantanti inglesi abbiano arricchito la polifonia con il controllo preciso e misurato della loro vocalità e con la loro mirabile tenuta del suono, simile a quella di un organo, che permette alle armonie di essere gustate nella loro pienezza; al tempo stesso, credo che la vocalità piena e accesa delle voci italiane abbia contribuito a una resa espressiva e attenta alla parola, e che il risultato ottenuto si sia rivelato una buona miscela delle diverse qualità. Ricordo come il musicologo inglese David Fallows giudicò, quasi con sorpresa, il nostro approccio “coraggioso” alla polifonia: «they sing robustly and make every effort to keep the music moving».
Ascoltando le sue incisioni mi accorgo che non dà spazio all’aspetto improvvisativo della prassi rinascimentale. È solo una decisione dovuta al fatto contingente di non cantare a parti reali, oppure segue una sua linea particolare, frutto dei suoi studi in materia?
Trovo che sia in generale più opportuno lasciare maggiori spazi improvvisativi al repertorio profano piuttosto che a quello della più severa polifonia sacra, benché sia ovviamente legittimo eseguire anche in quest’ultima quei passaggi fioriti che gli antichi chiamavano diminuzioni o minute. Sempre però considerando che nella polifonia è necessaria molta accortezza per evitare potenziali conflitti con le altre parti dell’ordito contrappuntistico. Vi era un tempo anche un altro ambito di grande libertà improvvisativa, pur regolato dalla profonda conoscenza pratico-teorica dei principi contrappuntistici: quello del contrappunto alla mente, una pratica che sarebbe difficile, ma non utopico o velleitario, cercare di riportare in vita, attraverso le numerose testimonianze musicali e teoriche che la documentano.
Il panorama della musica antica è sconfinato, sia in senso temporale che geografico. C’è una linea conduttrice che indirizza le sue scelte per quanto riguarda i repertori da incidere?
Non ho mai, in generale, cercato di comporre nei programmi discografici (ma anche di concerto) delle semplici antologie di belle composizioni polifoniche. Ho invece cercato di selezionare e riunire le musiche attorno a un evento, a un’idea tematica, al particolare aspetto della produzione di un compositore, o a un’unica opera. Negli anni abbiamo favorito il repertorio di compositori “oltremontani” del Rinascimento quali Gombert, Josquin, Compère, Isaac, ma anche di italiani come Palestrina, Gesualdo, Monteverdi e Alessandro Scarlatti, o spagnoli come Francisco de Peñalosa e alcuni compositori attivi nelle isole Canarie nel Seicento. Ogni disco vuole essere per noi e – ci auguriamo – per chi ascolta un’occasione di conoscenza e di riscoperta, anche quando si affrontano opere capitali come la Missa Papae Marcelli, per eseguire la quale abbiamo in qualche modo dovuto fare tabula rasa della nostra memoria sonora per cercare di fornirne una nuova e originale lettura.
Essere bibliotecario è un ruolo privilegiato per la scoperta e ricerca di repertori da eseguire?
In effetti uno dei motivi con i quali Tagliavini mi aveva spinto ad andare a Bologna era la presenza di una biblioteca molto importante, che valeva la pena frequentare. Era la biblioteca di Padre Martini, oggi realtà autonoma, ma in quegli anni collocata nell’omonimo conservatorio. Proprio in quanto inserita in quella sede, la biblioteca era un punto fisso di incontro tra musicologi e musicisti. Era l’utopia, realizzabile, di una “piazza del sapere”, luogo di incontro e conoscenza. Qui si facevano sempre incontri importanti e interessanti. Personalmente vi ho svolto anche il servizio civile, quindi per me è sempre stato un ambiente familiare. Nella mia attività tutti gli ambiti si integrano. L’importante è assecondare le proprie passioni, poi tutto inizia a girarvi intorno, in diverse forme.
È stato ed è tuttora impegnato anche in progetti editoriali. Come intende lo scrivere di musica?
Oltre all’ambito di ricerca, per un certo periodo ho fatto anche il critico musicale per giornali specializzati e per quotidiani. Questo ti abitua ad ascoltare tutti i generi di musica, perché se fai attività giornalistica devi occuparti di tutto senza preclusioni, e ogni opportunità è un’occasione per studiare e conoscere. Nell’attività editoriale è importante conoscere la musica e fare ricerca musicologica. Nel restituire una partitura è fondamentale, ad esempio, saper collocare il testo sotto la musica, non solo in base a quanto dicono i teorici, ma in base all’istinto tipico del cantante, che trova la modalità migliore per intonare un testo. Quindi devo ripetere che le diverse competenze si integrano utilmente, sempre. Nel periodo in cui mi sono occupato del catalogo di musica dell’editore Forni, ho cercato di introdurre un cambiamento che era legato alle reali esigenze che avevo vissuto da studente. Si trattava di un editore che pubblicava molti facsimili, preziose rarità di difficile reperimento. L’indirizzo editoriale prevedeva in genere di editare opere con carta pregiata e bellissime legature, un gusto antiquario per edizioni che ricordassero i libri antichi, ma con la logica conseguenza di un costo molto alto. Ho cercato di reindirizzare questo orientamento facendo in modo che le pubblicazioni fossero più accessibili per giovani musicisti che volevano avvicinarsi a quelle fonti. Quando ero giovane avevo spesso considerato inavvicinabili molte edizioni alle quali ambivo e avendo la possibilità di cambiare, ero entusiasta di poter promuovere una maggiore accessibilità, anche corredando queste pubblicazioni con prefazioni che dessero indicazioni sulla prassi esecutiva.
Ci congratuliamo per la recente nomina a bibliotecario del conservatorio di Venezia. In questa veste avrà la possibilità di affondare le mani in un tesaurus musicae di inestimabile valore. Ha già qualche idea di come servirsene per le sue prossime registrazioni?
In verità ho sempre disgiunto professionalmente i due ambiti di attività di bibliotecario di conservatorio e quelli, tra loro uniti, della ricerca musicologica e dell’esecuzione, sebbene ciascuna delle attività necessariamente risulti in qualche misura utile e complementare alle altre. Tuttavia mi ritengo fortunato di poter operare in una biblioteca di tale ricchezza e qualità di materiali, oltre che in una sede e in una città che ispirano e incoraggiano la ricerca e le attività musicali. La ricorrenza dei cinquecento anni dalla morte di Josquin Desprez è stata per noi un’occasione per la realizzazione di un cd (per l’etichetta Arcana) che abbiamo voluto intitolare Giosquino, utilizzando il nome col quale nel nostro Paese veniva talora chiamato Josquin, che comprende composizioni scritte soprattutto in relazione con la corte estense di Ferrara, a iniziare dalla Missa Hercules Dux Ferrariae. Si tratta per noi di un ritorno alla polifonia del nostro compositore prediletto, che ci ha dato modo di ripercorrere in concerto alcune delle tappe del suo viaggio in Italia. Ma questo è anche un anno dantesco, e abbiamo perciò ripreso l’esecuzione di un’opera da noi già registrata in disco nel 2019, il Canto XXXIII del Paradiso di Mirco De Stefani, un’opera a dodici voci composta di trentatré brevi parti che il compositore ha dedicato al nostro ensemble. Ciò dimostra che un ensemble che esegue principalmente musica antica ha spesso risorse di duttilità che permettono l’approccio al repertorio contemporaneo. Sia che la scrittura rievochi percorsi a noi più familiari, come nel caso di Arvo Pärt e De Stefani, sia che ponga nuove sfide sul piano dell’emissione vocale o della concezione armonica come nel caso di Salvatore Sciarrino o Wolfgang Rihm, il confronto con un repertorio così diverso rappresenta una sfida e una stimolante esperienza di crescita per la nostra formazione e per me.
Ha compiuto studi musicali al Conservatorio G.B. Martini di Bologna e musicologici all’Università di Venezia, rivolgendo sin da giovanissimo i suoi interessi al repertorio della musica rinascimentale e preclassica e unendo costantemente ricerca ed esecuzione. Ha fatto parte per oltre vent'anni di numerose formazioni vocali italiane, tra le quali la Cappella di S. Petronio di Bologna e l'Ensemble Istitutioni Harmoniche. Dal 1998 dirige l'ensemble vocale maschile Odhecaton con il quale ha realizzato una quindicina di CD di musiche polifoniche dei secoli XV-XVIII che hanno ottenuto vari riconoscimenti, tra i quali due Diapason d'or de l'année, il Grand prix international de l’Académie du disque lyrique e la Editor's Choice di Gramophone. Ha collaborato con L.F. Tagliavini alla redazione della rivista L’organo e in qualità di critico musicale con varie riviste specializzate. Ha diretto il catalogo di musica dell’editore Arnaldo Forni di Bologna, è curatore di edizioni di musica strumentale e vocale e autore di cataloghi di fondi musicali e di saggi sulla storia della vocalità rinascimentale e preclassica. Tiene corsi e masterclass di polifonia vocale. Collabora all'edizione critica delle opere di C. Gesualdo da Venosa, G. Tartini e G. Rossini. Attualmente svolge un lavoro di ricerca sulla vocalità del Rinascimento presso il Centre d'Études Supérieures de la Renaissance di Tours. Nel 2018 ha ottenuto con l'Ensemble Odhecaton il Premio Abbiati della Critica musicale italiana. È docente presso il Conservatorio B. Marcello di Venezia.