Lo incontriamo tra le mura dell’abbazia di Rosazzo e all’interno del programma dei Seminari internazionali di canto gregoriano Verbum Resonans (organizzati dall’Usci Fvg con il patrocinio di Feniarco e Aiscgre), dove ha presentato in un corso monografico e una lezione aperta al pubblico esterno le proprie “scorribande cantoriali nelle periferie liturgiche italiche”, metamorfosi di composizioni di area mediterranea attraverso tempo, spazio e tradizioni. Seguire le trasformazioni di un brano nelle sue conversioni semitiche piuttosto che nelle fioriture dei solisti alla corte di Costantinopoli, fino ad arrivare alle semplificazioni dell’uso corrente, è un’avventura di ricerca che parla della curiosità di questo studioso comparatista, ma ancora di più della sua consapevolezza della centralità relativa di ogni argomento in una materia che possiamo conoscere soltanto parzialmente e della quale è facile intuire le possibilità di contaminazione. Studi accademici, esperienza monastica ed erudizione sono inscindibili nel suo approccio sfaccettato al repertorio gregoriano e le domande che affiorano nel colloquio con lo studioso non possono che coinvolgere tutti e tre gli ambiti, a partire dalla professione e dalla missione del docente.
L’insegnamento è per lei una vocazione, una necessità, una missione in rapporto all’importanza di tramandare conoscenze e competenze acquisite nello studio di antichi codici?
Il gregoriano è uno solo, ma presenta mille sfaccettature e sono innumerevoli i cammini da percorrere per avvicinarci al nucleo centrale. Ognuno di essi ha modalità particolari, come ha dimostrato l’esperienza delle tante persone che mi hanno accompagnato in questo percorso, chi in un itinerario di fede, chi in un cammino di ricerca scientifica. Si può insegnare in mille modi. La soluzione migliore sarebbe di integrare un aspetto con gli altri, senza mai dimenticare la direzione principale che non è quella dell’affermazione di un bene culturale, ma la condivisione di un bene spirituale.
Come è iniziato questo suo cammino nel gregoriano?
Ho cominciato a cantare gregoriano a circa cinque anni. A quei tempi in parrocchia si cantava spesso il gregoriano per le messe da morto, ma era pur sempre gregoriano. In seguito sono entrato nella cappella di una basilica (San Gaudenzio a Novara), dove si cantava polifonia ma spesso anche il gregoriano, con approcci diversi. Poi, quando sono andato a studiare in Germania, ho frequentato una grande abbazia, Maria Laach con centocinquanta monaci benedettini, che è stata uno dei centri propulsori della riforma liturgica. Lì si cantava il gregoriano quotidianamente. All’università di Erlangen ho conosciuto il maggior specialista di canto gregoriano a livello storico, il prof. Bruno Stäblein: anche in questo ambito il gregoriano sembrava sempre lo stesso, ma era in realtà diverso, perché affrontato in un’ottica assai differente. Con tutto ciò voglio dire che, nel mio approccio al gregoriano, le persone che hanno fatto da mediatori erano molto diverse: sacerdoti, laici, giovani, anziani. Alcuni di loro miravano alla preghiera, altri erano interessati soltanto a un’esecuzione oppure allo studio. A livello di studio devo ammettere che l’impulso maggiore l’ho avuto da Bruno Stäblein, sia a livello di ricerca che a livello di approccio alla natura vera del gregoriano, che esula dal fatto musicale. Il gregoriano è prima di tutto preghiera. Anche nello studio filologico di testo e musica non si tratta semplicemente di un fatto culturale, ma è un tentativo di avvicinarsi alla radice del canto, che non può essere comunicata se si cammina esclusivamente in un’atmosfera cosiddetta scientifica, tanto meno se si fa del gregoriano soltanto una musica da consumare, per andare incontro alle mode.
Abbiamo toccato l’argomento dei tre approcci: quello storico, quello antropologico e quello spirituale. In quale proporzione convivono nello studio del gregoriano?
Dipende dall’esperienza del singolo. Ho avuto docenti e amici limitati a un ambito perché non avevano mai avuto sollecitazioni a guardare più lontano. Dipende dall’esperienza vissuta da ciascuno e da quello che riteniamo giusto, opportuno o necessario affinché al gregoriano si avvicinino anche altre persone. Secondo me il primo passo nella fondazione di un coro gregoriano non è pensare alla musica, ma trascorrere un periodo a contatto con la lectio divina, meditando sulla Bibbia. Allora si sente il bisogno di entrare in comunione con la parola di Dio nel modo meno inadeguato possibile e si può comprendere il gregoriano anche a quel livello, altrimenti rischia di rimanere solo un fatto culturale o di moda.
In realtà il gregoriano è certamente uno di quei repertori che non sopportano la frequentazione occasionale.
La frequentazione occasionale rimane tale, ovvero non incide nella vita, ma in alcuni casi potrebbe essere la scintilla che provoca un’adesione duratura e approfondita. Sono contrario totalmente ai concerti di canto gregoriano, soprattutto per l’atteggiamento, sia della proposta che dell’accoglienza. Però ritengo sia giusto far conoscere questo repertorio anche in ambienti che non hanno nessuna idea al riguardo. Talora succede che una persona possa ricevere da quell’occasione fortuita un impulso che veramente gli dica quale sia la sua via. Ma questa via certamente non è soltanto nella musica, nell’esperienza estetica che è importante, ma non è la componente principale. Il gregoriano tocca su un’altra lunghezza d’onda. Per questo motivo all’inizio di ogni corso di canto gregoriano – o anche all’inizio di ogni giornata di impegno con il canto gregoriano – sono solito cantare la sequenza Sancti Spriritus di Notker, proprio per ricordare che noi possiamo mettere la nostra voce e il nostro impegno scientifico, ma dobbiamo vivere anche un’esperienza di fede o almeno desiderarla, altrimenti si rischia di falsare le cose. Un ateo può occuparsi di canto gregoriano, ma non lo comprenderà mai fino in fondo. Una mamma conosce suo figlio senza avere forse coscienza di tanti dati antropologici, ma certamente molto di più rispetto a una persona estranea che di questo figlio conosce tuttavia misure, costituzione fisica, modalità psicologiche.
La codicologia è certamente una passione che trova forma nella scienza. Potremmo dire anche una forma mentale, quella che spinge all’infinita ricerca per la risoluzione di infiniti enigmi.
Questa è un’eredità che ho ricevuto da mia mamma, filologa testuale e musicale. La questione dei codici si risolve in un modo semplicissimo: per la maggior parte delle persone si tratta di libri vecchi. Per me, invece, il manoscritto è una persona vivente. Io con il codice dialogo, gli pongo domande e lui a volte scherza nascondendo le risposte. Occorre quindi cercarle girando le pagine oppure associando situazioni e caratteristiche analoghe. Il codice è una realtà viva che, a differenza di molte persone, si lascia interpellare, anche con domande molto difficili, ed è sempre disponibile a risponderci. Il codice è sempre aperto al dialogo e ciò è un conforto per chi passa ore, giornate, mesi e anni su quella che è soltanto all’apparenza un’immobile materia da museo. Il codice liturgico, inoltre, è il rappresentante che parla a nome di una comunità di cui mantiene, e a volte nasconde, per proteggerli, certi contenuti. Quindi è giusto che la scoperta richieda impegno e fatica, perché bisogna guadagnare la fiducia del codice.
Mi sta parlando del contenuto, del messaggio o anche del supporto? Con la digitalizzazione sono stati facilitati nell’approccio ai codici, ma comunque trova qualcosa in più nella carta o alla fine i contenuti sono identici anche sullo schermo?
No, è diverso. Per lo studio è più comodo usare la fotografia digitale che permette di ingrandire l’immagine; ma il codice nella sua integrità permette esami che non si possono compiere nemmeno con la migliore delle foto. Per non parlare della realtà concreta del tatto. Siamo inoltre abituati a leggere guardando lo schermo, ma nei codici spesso si leggono cose apparentemente nascoste inclinandoli a favore della luce, cosa che con la foto non si può fare.
Cos’è l’autenticità di una tradizione quando parliamo di ipotesi? Possiamo risalire all’autenticità?
Dobbiamo dare fiducia al passato e quindi se un’esperienza spirituale e liturgica è stata fissata in un codice, presuppongo che quella sia stata un’esperienza vera, forse faticosa, limitata, ma con un nucleo di verità. L’interpretazione che diamo al canto gregoriano e ai testi liturgici del passato è autentica nella misura in cui diviene o provoca o è assorbita da una nostra esperienza autentica. Altrimenti quello che poteva essere autentico allora, perché esprimeva in modo adeguato la fede delle comunità del passato, oggi potrebbe non essere più in grado di farlo. Non si tratta quindi di adesione: copiare quanto facevano allora non è necessariamente la via giusta.
Lei ama uscire dalla centralità apparente del gregoriano e queste scorribande confermano quanto il tessuto dei vari repertori coevi e successivi fosse permeabile. Ci sono le tradizioni isolate dei centri scrittori, ma in realtà ci sono linee che si intersecano in tutta Europa e nel mediterraneo. Una ricerca infinita…
Bisogna avvicinarsi alla tradizione per quello che realmente è, almeno nella forma e nella realtà a noi accessibile. Non è detto che quello che noi possiamo conoscere dei codici esaurisca tutta la tradizione del passato. Sono forse solo frammenti, schegge. D’altra parte il materiale che proviene dal passato è relativamente poco e noi non sappiamo se quel poco che riusciamo a comprendere fosse in quell’epoca, 1500 anni fa, una realtà centrale o periferica. Ci sono sempre state, inoltre, esperienze solitarie, contrarie o anche integrative. Non possiamo dare un giudizio a priori. Soltanto raccogliendo con pazienza il maggior numero di testimonianze possibili, riusciremo forse a conoscere i connotati e valutarli nel modo più adeguato.
Abbiamo parlato del docente, dello studioso, del ricercatore, ma chi è il cantore Baroffio e come descriverebbe il suo rapporto con il canto?
Cantare è un’esperienza umana fondamentale che si perde nel tempo. Basti pensare alla vocalità di un neonato, la sua forza espressiva e la varietà nel modulare la voce. Mi fa sorridere la domanda che ogni tanto mi pongono: tu di che scuola sei? Io non appartengo a nessuna scuola. Seguo un po’ l’esempio di San Paolo: nella mia vita ho sentito molte cose e sono stato in molti luoghi, ho percepito esperienze diverse e cerco di assimilare quello che ritengo sia il meglio di ognuna di queste esperienze. È come quando si mette il lievito che, fermentando, non si distingue più dalla farina. Non ho tante pretese, nemmeno la necessità di dichiararmi allievo e discepolo dell’uno o dell’altro. Potrei dire, con parole semplici, che canto come mi viene spontaneo. Con questo ribadisco però un altro aspetto, ovvero che per cantare il gregoriano prima di tutto ci vuole un’attenzione alla parola, percepita nel suo valore in quanto Parola di Dio. E poi bisogna studiare, capire il testo (e non è sempre facile), studiare le strutture melodiche, la modalità: ogni aspetto facilita una conoscenza maggiore, ma nel momento in cui si canta tutto questo non deve essere la principale preoccupazione. Sbagliare una nota in questo senso conta poco. Ricordo un’incisione con un ottimo tecnico del suono che alla fine mi aveva proposto di ripetere un melisma milanese particolarmente lungo e difficile dopo una lunga ed estenuante giornata di registrazioni perché avevo sbagliato una nota: mi ha indicato il punto esatto, ma io gli ho fatto notare che un manoscritto ambrosiano in quel punto preciso prevedeva proprio la nota che avevo cantato. Questo bastò a fargli approvare senza difficoltà la versione registrata.
Questa possibilità di errore si lega al fatto che i concerti di gregoriano possano essere vissuti come inadeguati, perché è un canto che ha senso nel suo contesto liturgico, non nel puro godimento estetico. In questo tipo di repertorio, dove risiede la bellezza?
Nell’armonia. Nel fluire armonico del canto che è sostenuto e, a sua volta, sostiene la parola. Non è certamente una questione di timbro. Io per esempio ho cantato per tre anni con padre Cardine che non aveva una voce straordinaria. C’erano cantori che lasciavano stupiti per la bellezza delle loro voci, ma quando cantava lui, il gregoriano assumeva un’aura luminosa, di pura bellezza. Altri cantori potevano avere un timbro magnifico, ma risultavano stucchevoli, oppure cantavano con grande precisione, senza una stonatura, nessuna sbavatura, con un’attenzione ai minimi particolari, ma lasciando l’ascoltatore del tutto impassibile e indifferente perché queste sono condizioni opportune, utili, ma del tutto insufficienti. Il gregoriano è un’altra cosa.
Nasce nel 1940 a Novara da Giovanni ed Emilie Sophie Dahnk. Durante la scuola d’obbligo a Novara studia violino con Giulio Riccardi e armonia con Felice Fasola. Studia discipline medievistiche (musicologia, liturgia, filosofia, storia dell’arte) e teologiche in Germania. È discepolo di Karl Delahaye, Karl Gustav Fellerer, Robert Grosche, Heinrich Hüschen e Marius Schneider a Köln, Bruno Stäblein a Erlangen, Theodor Klauser e Joseph Ratzinger a Bonn. Si laurea nel 1964 a Köln con una tesi sul canto ambrosiano. Approfondisce in seguito gli studi teologici a Roma (S. Anselmo) e l’esperienza spirituale in ambito monastico. Negli anni ‘70 insegna teologia sacramentaria a Genova (Seminario vescovile), storia della liturgia e metodologia a Padova (Istituto di Liturgia Pastorale); successivamente canto gregoriano a Roma (Pontificio Istituto di Musica Sacra: 1982-1986, 1988-1995), Bibliologia liturgica a Cassino (Università: 1992-1998), paleografia musicale medievale a Milano (Università Cattolica del Sacro Cuore: 1996-2008) e storia della musica medioevale a Portogruaro (Università di Trieste: 1999-2001). Dal 1995 al 2011 è docente di storia della musica medievale e di storia delle liturgie a Cremona (Università di Pavia, Facoltà di Musicologia). Sul canto gregoriano, romano antico, ambrosiano e sulle fonti liturgiche medievali conduce ricerche scientifiche, seminari universitari e tiene relazioni in Italia e all’estero. Svolge ricerche su particolari fondi di manoscritti liturgici italiani. Pubblica articoli sulla liturgia, le sue fonti medioevali e la sua musica. Ha diretto cori gregoriani (Kantores, Septenarius e altri); ha cantato e inciso cd anche quale solista. È stato direttore artistico della rassegna Divini incanti (Nonantola). Ha progettato le mostre guidoniane del 2000 (Arezzo e Pomposa) di cui ha redatto il catalogo. Attualmente è direttore della Rivista Internazionale di Musica Sacra (lim - Lucca), consulente di Medioevo Musicale (Firenze), consultore della Commissione del rito ambrosiano (Diocesi di Milano).