Maestro, qual è stato il suo primo incontro con la realtà corale?I
l primo incontro fu nel 1975, quando il direttore del coro parrocchiale di Casazza mi chiese di collaborare in qualità di organista durante le funzioni, accompagnando anche il coro che finii poi a dirigere dal 1983 al 1988.
E poi cosa accadde?
Incontrai Fosco Corti, che mi illuminò dal punto di vista del gesto, insegnandomi a godere del piacere di una determinata tecnica gestuale: ancora oggi capita riconoscano in me la sobrietà gestuale e questo mi fa molto piacere. Ricordo poi la sua portata umana, il suo modo di porgere e il suo garbo nell’evidenziare i concetti e le problematiche corali. In seguito ebbi la fortuna di conoscere Nicola Conci, la cui scuola dei Minipolifonici fu per me di grande esempio quando nel 1986 ebbi l’idea di fondare la mia scuola. Invitai Conci a Casazza a tenere un incontro sulla possibilità di creare una scuola musicale in Val Cavallina, cominciai a frequentare i suoi corsi estivi e poi a frequentarlo settimanalmente quando fu chiamato al Teatro alla Scala. Ecco, posso dire che se Corti mi aprì gli occhi sulla direzione, Conci lo fece sul modo di rapportarsi con i bambini: a loro si può chiedere molto, tutto quello che sono in grado di fare… facendo emergere e coltivando le loro reali possibilità.
La fondazione di una propria scuola è il risultato di un percorso intrapreso e dell’aver chiaro quello da intraprendere. Già allora aveva individuato la sua linea didattica?
Incominciai a lavorare con i bambini dai sei anni in avanti, ma dopo qualche anno cominciai a formare, attraverso il gioco e come tutt’ora faccio, bambini dai quattro anni. La convinzione è quella che l’educazione vocale stia a fondamento di ogni attività musicale e quindi anche della stessa esperienza strumentale. Questa idea inizialmente trovò qualche resistenza: all’epoca i genitori contemplavano solo la possibilità di mettere nelle mani del proprio figlio uno strumento e qui si arriva allo strumento a sette anni. Oggi ho due cori preparatori, quello con bambini di sei anni e quello dai sette ai dieci anni; è da quest’ultimo che attingo i cantori per la formazione da concerto. Chi riesce a passare in quest’ultima formazione viene innanzitutto invitato a una vacanza-studio con il coro: ritengo che il punto di vista dell’inserimento e dell’amicizia sia da non trascurare perché i bambini possano affrontare le stesse esperienze con sacrificio e impegno. Molto del resto dipende poi dalla famiglia.
Come reagiscono i bambini che non riescono a entrare nella formazione da concerto?
Sono tutti bambini che stanno seguendo un percorso musicale e pur continuando a cantare nel coro preparatorio affrontano anche lo studio dello strumento e possono entrare a far parte dell’orchestra. Capiscono che, se quando sono più piccoli il percorso è proposto nel modo più giocoso e divertente possibile, nell’adolescenza diventa più tecnico e impegnativo, sotto i diversi punti di vista. In ogni caso rimane grandissima la responsabilità del maestro poiché dalle sue scelte dipende la durata del loro percorso musicale, l’impronta nella loro formazione umana e culturale.
Dalla fondazione della scuola in pochi anni è poi riuscito ad affermarsi in prestigiosi concorsi e al contempo inserirsi nel circuito sinfonico-teatrale nazionale. Queste due attività sono molto diverse: come è riuscito a coniugarle?
È vero, sono davvero differenti. Sono partito senza sapere cosa avremo fatto e una cosa ha seguito l’altra. Il primo exploit fu nel 1994 a Vittorio Veneto, quando ancora nessuno ci conosceva, e fu seguito l’anno dopo dalla vincita ad Arezzo. In teatro invece arrivammo nel 1999 su invito del Donizetti di Bergamo nel partecipare alla stagione lirica del Circuito Lombardo con l’opera Carmen di Bizet. Mi chiesero un coro di venti bambini, così io ne preparai venticinque sicuro che qualcuno si sarebbe ammalato o non potesse partecipare sempre, ma alla fine non mancò mai nessuno per tutte le quattordici repliche! Tra un atto e l’altro si giocava a Game Boy o si incastrava qualche prova sul repertorio natalizio che stavamo allestendo. Fu un’esperienza bellissima dal punto di vista umano e credo che l’attività artistica debba essere sempre intrisa di questo. Non ha senso vincere un concorso se poi questi ragazzi, tolta la divisa del coro, cercano lo “sballo”. Posso mettere la mano sul fuoco sul fatto che i miei, una volta adulti, saranno persone responsabili nelle diverse attività cui saranno chiamati.
La partecipazione delle voci bianche a concorsi è spesso oggetto di diatriba per quanto riguarda il valore educativo, spesso messo in dubbio a causa del carattere competitivo di un simile appuntamento. Lei cosa pensa a riguardo?
Il concorso si pone come una preziosa occasione formativa in quanto impegna il coro in modo particolare, sia per l’allestimento che per l’interpretazione del repertorio. Per rispondere alla domanda io direi che tutto dipende da come viene presentato ai ragazzi: è importante impegnarsi nella preparazione, ma anche accettare la competizione e il giudizio di una giuria che fornisce un giudizio esterno e competente – io ho sempre ricevuto consigli utili. Infine è occasione di confronto nella misurazione dei propri livelli tecnici e interpretativi.
Ci svelerebbe il ricordo più bello nella sua carriera?
Caspita, ce ne sono tantissimi, ma c’è un episodio di una bambina di prima media che mi torna spesso alla mente. Il 1995 fu per noi un anno molto gratificante: dopo la vittoria all’internazionale di Arezzo, davvero del tutto inaspettata, ci fu il nostro primo concerto di Natale in Vaticano; allora c’era Wojtyla e il 13 dicembre partecipammo a una sua udienza cantando un canto polacco. La cosa bella è che poi il Papa, venendo a salutarci, mi chiese: «ma lo sa di chi è questo canto?». Io non lo sapevo, lo avevo trovato in un libro. «L’ha scritto Chopin», mi disse poi, congratulandosi anche per la pronuncia del polacco. Usciti dall’udienza c’erano le grandi star e le TV. Una troupe di Rai3 inseguì questa bambina di prima media chiedendole se non fosse emozionata nel cantare in Aula Nervi e in mondovisione. La sua risposta fu: «No, abbiamo superato prove ben più compromettenti». Si riferiva ad Arezzo, che per noi è stata una tappa fondamentale.
Se dovesse individuare la qualità più importante per un direttore di coro quale sarebbe?
Oltre alla capacità di trasmettere nel modo più corretto possibile, direi il rapporto umano che io costruisco con regole ben precise e pochi zuccherini. Ex coristi ora diventati insegnanti mi hanno però svelato di mettere in pratica alcune mie regole che allora avevano vissuto come rigide.
Non le mancano mai le frequenze gravi o una maggiore ricchezza di armonici?
Un coro a voci pari può essere più limitato dal punto di vista del repertorio ma lavorando con i ragazzi, con l’espressività, il colore e le inflessioni delle loro voci no, non posso certo dire che mi manchi la completezza del coro misto.
Mario Mora ha studiato pianoforte, organo e musica corale. È fondatore e direttore artistico della Scuola di Musica, del Coro di voci bianche, del Coro giovanile e dell’Ensemble vocale femminile I Piccoli Musici con il quale svolge un’intensa attività artistica con concerti e incisioni. Ha collaborato con teatri, orchestre e direttori di fama mondiale e tiene corsi, convegni e atelier nazionali e internazionali, sulla vocalità infantile in Italia e all’estero. È stato per numerose volte premiato quale miglior direttore per particolari doti tecnico-interpretative in concorsi nazionali e internazionali. Con il coro I Piccoli Musici ha partecipato a concerti trasmessi da RAI, Mediaset, Tv e Radio Svizzera. È inoltre docente in qualità di maestro e direttore del coro di voci bianche della Scuola Diocesana di Musica Santa Cecilia di Brescia. Nell’anno 2001, è stato nominato da Papa Giovanni Paolo II Cavaliere dell’ordine di San Silvestro Papa per l’attività educativa e musicale svolta in favore dei ragazzi.