Quattro dei suoi lavori, Opus 21 (1996), il Concerto per violino e orchestra (2002), il concerto per flauto Deux (2006) e I said who are You? - He said, You (2010), sono stati selezionati tra i primi dieci all’International Rostrum of Composers che fa capo all’International Music Council di Parigi. Un ulteriore prestigioso riconoscimento internazionale è stato, nel 2019, l’invito a rendere omaggio con un’opera corale, I heard the voices of children, alla Los Angeles Philarmonic Orchestra per i suoi cento anni di attività presso la Walt Disney Concert Hall. Compositore in residenza presso l’Estonian Philarmonic Chamber Choir (2004-2005) e presso l’Ars Nova Copenhagen (2007-2008), è professore di composizione e direttore del dipartimento di composizione presso l’Estonian Academy of Music and Theatre di Tallin. Tra le registrazioni più importanti in cd, le monografie: Be lost in the call, ER 2004; Songs, Harmonia Mundi 2008; Magnificat, Naxos 2019. Pubblica per Theatre of Voice Edition. La sua produzione più recente comprende l’opera Beatrice (2010), Lamentations, per cinque solisti, due cori e orchestra (2011), Magnificat, per tre solisti, coro, due percussionisti e archi (2013), Symphony, per orchestra da camera (2013), Three Symphonies per orchestra sinfonica (2017-18), So Shall He Descend (2018) per soli, coro misto e orchestra sinfonica, I heard the voices of childrens (2017) per coro misto, soli ed ensemble strumentale.
Sei certamente uno dei compositori contemporanei più importanti dell’Estonia, anche se i riconoscimenti europei e mondiali, almeno quelli più importanti e di grande visibilità, sono solo un frutto alquanto recente. Probabilmente questo ritardo è dovuto alla difficoltà di veicolazione mediatica di un personaggio come te, dall’indole alquanto riservata, introspettiva per natura e vocazione, e dal linguaggio complesso, che comporta un notevole coinvolgimento emotivo e di approfondimento. Ascoltare la tua musica è sempre un’esperienza complessa, che riguarda la percezione uditiva, ma al cui interno c’è sempre, in intima relazione, un messaggio spirituale intenso, transreligioso e transculturale che ti porta al cuore del divino. Un’esperienza spirituale molto forte che comincia dai testi messi in musica. Quali scegli e con quali modalità?
Le fonti dei testi sono abbastanza diversificate, provenendo da epoche storiche e luoghi geografici diversi, anche stilisticamente. Ma i testi, o almeno il modo in cui vengono trattati, sembra che vadano tutti più o meno nella stessa direzione.
Insomma, ci proiettano tutti verso un unico mondo spirituale. Il testo necessita della voce. Per una rivista come Choraliter diventa centrale conoscere il tuo rapporto con la voce, e dunque con l’ensemble di voci e con il coro. Come nasce questa tua predilezione?
La spiegazione è abbastanza semplice: mi capita di saperne, sulla voce, più di quanto possa saperne di qualsiasi strumento musicale, escludendo forse il pianoforte. È che ho fatto parte, nel passato, di diversi ensemble vocali, tra i quali posso annoverare anche un coro da camera. Benché non abbia mai avuto una formazione da cantante professionista nel senso stretto del termine, erano tutti ensemble professionali o semi-professionali, tutti con ambizioni piuttosto elevate. E mi hanno permesso di guadagnarmi da vivere. Tornando all’opposizione musica per ensemble / musica per coro, ho avuto sempre una spiccata preferenza per l’ensemble. Le sonorità di un coro più grande, con alcune esclusioni ovviamente, non mi affascinano così tanto. E questa preferenza mi ha portato soventemente a dividere il coro in formazioni più piccole e quindi a una scrittura di tipo policorale. Il modo in cui le persone cantano da soliste è semplicemente molto più attraente: il modo – cioè quell’essere costantemente presenti e vigili da parte dei cantanti – ma anche il suono in quanto tale. Molte persone che cantano insieme non producono mai quel tipico tocco personale del piccolo ensemble e dei solisti.Tutto questo se ci poniamo sull’asse personale vs impersonale. Ma non sono certo gli unici criteri a cui generalmente ci si interessa. E lo stesso vale per la musica strumentale. Propendo in genere per un’espressione più virtuosistica, ma non certo per amore del virtuosismo. Parlo piuttosto della possibilità di rivelare l’essenza.
Il virtuosismo di cui parli, quello che tende alla rivelazione dell’essenza, è forse anche un antidoto rispetto a certe tendenze semplificatrici?
Sì, la semplicità è in voga, lo è sempre stata. Non mi dispiace osservare la bellezza della semplicità di certi fenomeni, che sono semplici per essenza, almeno a un livello di superficie. Ma allo stesso tempo non ho alcuna inclinazione a semplificare situazioni complesse allo scopo di renderle facili e accessibili. Semplificazione, riduzione, senza dubbio hanno ruoli specifici sia in matematica che in musica, ma in entrambi i casi si rendono necessarie solo per una più facile operabilità.
Hai fatto riferimento anche alla musica strumentale. In Magnificat, uno dei tuoi lavori più conosciuti, l’unione tra voci e percussioni risulta abbacinante, ancor più se la poniamo in relazione con la più consueta immagine del Magnificat della tradizione musicale europea. Un rapporto antinomico, complementare, sinergico?
Credo di aver capito il tuo punto di vista. Ma qui non c’è alcuna antinomia. Ho solo cercato di essere fedele alla mia visione dell’evento di Maria che loda l’Onnipotente. A essere onesto, nella mia immaginazione si è verificata una fusione con il precedente importante evento della sua vita: l’Annunciazione. Entrambe queste situazioni sono piene di luce estremamente brillante e abbagliante, sì, un po’ più dolce nel Magnificat, ma comunque una luce molto intensa. Questo spiega la strumentazione, le texture, le tessiture e tutto il resto. Le voci e il testo qui si sviluppano dalla luminescenza delle trame polifoniche accuratamente organizzate di due percussionisti solisti, panoramicamente giustapposti, che suonano su strumenti metallici dalle frequenze acute, e dall’intenso campo sonoro degli archi stratosferici. A prima vista una nuvola leggermente caotica (anzi, è stata proprio definita caos) e indivisibile, che si dissolve passo dopo passo lasciando spazio a enunciati meno estatici e testi più chiaramente pronunciati.
E l’elettronica?
L’elettronica ha avuto finora una funzione piuttosto catalizzatrice. Ho scritto un paio di pezzi che integrano mezzi elettroacustici, e anche elementi visivi, ma finora la cosa è rimasta alquanto periferica. Ci sono ancora pezzi con l’elettronica che aspettano che arrivi il loro turno, uno di loro anche vocale.
Dalla contemporaneità sonora dell’elettronica volgiamoci ora ai tuoi trascorsi da gregorianista, alla tua grande frequentazione della musica antica. Anche non sapendolo, ad ascoltare le tue opere lo si intuirebbe forse con immediatezza. Ad ascoltarle sì, ad analizzarle molto meno. Credi che gregoriano e musica antica siano effettivamente un fiume carsico nella tua produzione musicale?
Il canto gregoriano e altre tradizioni orali hanno avuto un impatto sostanziale, questo è vero. Ed è evidente a molti livelli. Pensare in neumi è il principale collante tra la tradizione e il modo in cui io stesso penso. Tutto questo vasto repertorio, molto del quale ho cantato e che mi porto dentro, continua di certo a influenzarmi.
Se si osservano le tue partiture solo con gli occhi, anche quelle per coro, la scrittura sembra complessa, direi anche difficile: uso esteso del cromatismo e del microtonalismo, dissonanze che sulla carta appaiono aspre, figurazioni ritmiche complesse. Eppure ascoltando si ha la percezione di una grande naturalezza e – sono convinto – anche chi canta finisce per trovarsi in un flusso spontaneo e perfettamente a misura d’uomo. Qual è il rapporto tra scrittura e idea musicale?
Le idee vengono prima. Dato che siamo musicisti, le nostre idee sono destinate a essere musicali, ma non sempre. In quest’ultimo caso necessitano di un’interfaccia traduttiva. Ciò che è complesso sulla carta può suonare naturale, anche semplice durante l’ascolto. Per me è importante zumare durante la composizione. Ciò significa avere una sorta di sguardo microscopico sull’oggetto raffigurato, che si traduce in dettagli musicali, dettagli di ritmo, intonazioni, intervalli, e anche complessità. Dopotutto, si tratta di cosa ascoltiamo e di come l’ascoltiamo. Il mio atteggiamento e le mie procedure sono abbastanza semplici. Scrivo quello che sento. E poi, sì, quello che sento è certamente la predestinata conseguenza di cosa penso e di come penso, del mio attuale focus di interessi.
Prima abbiamo fatto un accenno al tuo legame con il gregoriano, che ci conduce molto vicino alle musiche di tradizione orale. L’oralità – il canto della narrazione popolare, dei riti tradizionali – sembra contemplata nel tuo pensiero creativo. E con l’oralità, la natura. Oralità e natura, un binomio possibile?
C’è un legame. La tradizione orale nella maggior parte dei casi è il risultato di un’evoluzione naturale, analogamente a ciò che osserviamo nel mondo naturale. La nostra interazione con la natura può essere intesa come un rapporto di fiducia. Ci fidiamo della natura. E anche il nostro rapporto con le diverse tradizioni orali, che siano geograficamente lontane o vicine, è caratterizzato dalla fiducia.
Parliamo dell’oralità e della natura a te vicine, quelle della tua terra. Come è rappresentata l’Estonia nei tuoi lavori?
L’Estonia e la sua lingua… L’estone nella mia vita è la rappresentazione stessa del mio modo di amare. La lingua che uso per esprimere i miei sentimenti più intimi, l’amore, è l’estone. Credo che abbia un’influenza sulla mia musica, sia strumentale che vocale, indipendentemente dal linguaggio effettivo dei testi.
La coralità estone, nell’immaginario collettivo europeo, è considerata come un mondo ideale, puro e rigoroso. Com’è la coralità estone nel tuo immaginario e nella realtà della tua esperienza?
Sono d’accordo, lo standard generale dei cori in Estonia è molto buono. C’è un discreto numero di cori da camera semi-professionali misti, ma anche femminili, e di piccoli ensemble, che non solo lavorano con entusiasmo, ma sono anche in grado di offrire performance musicali di alta qualità. E poi l’enorme numero di cori amatoriali (l’etimologia della parola è amator, quelli che amano, quelli che davvero amano, direi, la musica) e festival canori che riuniscono migliaia di cantanti per esibirsi e godersi la musica e per cantare insieme gli uni con gli altri. Questo è davvero unico. E naturalmente i nostri cori di professionisti. Personalmente ho avuto esperienza principalmente con questi ultimi.Quando si pensa al canto corale professionale europeo l’Estonian Philharmonic Chamber Choir è sicuramente uno dei primi cori da menzionare. È il coro che ha realizzato molte delle mie prime esecuzioni. Ma non dimentichiamo il nostro vicino più prossimo, la Lettonia e i suoi cori più favolosi, in particolare il Latvian Radio Chamber Choir (EPCC), diretto da Kaspars Putnin,s˘ e Sigvards Klava. Kaspars, attualmente anche direttore principale dell’EPCC, è un musicista con un interesse speciale per la musica moderna. Molte partiture corali, con le relative registrazioni (il Magnificat, per esempio) sono il risultato di sue commissioni e della nostra stretta e stimolante collaborazione.Grazie alla nostra posizione geografica, conosciamo abbastanza bene anche ciò che accade più a nord, in Scandinavia. La tradizione corale svedese con il suo particolarissimo klang (suono) ci appare come qualcosa di unico al mondo; osservazioni simili si potrebbero fare sul suono dei cori islandesi, finlandesi e norvegesi.
Lasciando il mondo corale baltico-scandinavo, recentemente hai avuto esperienze anche negli Stati Uniti con uno dei cori più interessanti nel panorama della musica contemporanea.
Sì. Per le mie prime hanno collaborato Donald Nally e il Crossing Choir di Philadelphia. Sono semplicemente sbalorditivi, con capacità che vanno ben oltre quel che un compositore possa immaginare.