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Il canto corale come educazione alla bellezza e il ruolo del direttore in tutto ciò

di David Bandelj
Laboratorio del Canto, Choraliter 63, gennaio 2021

Ai miei coristi,
il “libro” dal quale ho potuto imparare di più.

Apologia

«La bellezza salverà il mondo», scrisse Fjodor Mihajlovič Dostojevski. Questo suo vecchio adagio (lo possiamo leggere nel romanzo L’idiota) ha ormai fatto il giro del mondo e viene spesso usato come simbolo per ogni tipo di arte e la sua valenza estetica interiore. Ma il famoso scrittore russo aveva in mente ben altro: ogni attività artistica è legata alla forza dell’uomo a consacrarsi totalmente a essa. Questo tipo di concetto di bellezza è dunque molto ampio e detiene anche una buona dose di idealismo che non è lontano dalla forma mentis di tutti coloro che animano il panorama corale mondiale; è altresì complementare al concetto di bellezza dell’antica Grecia, la cosiddetta kalokagathia (καλοκαγαθία), espressione che unisce gli aggettivi bello (καλὸς - kalòs) e buono (ἀγαθός - agathòs) per mostrare come ciò che ha un valore estetico è anche moralmente integro: la bellezza è connessa al comportamento morale dell’uomo.
In un ideale che abbraccia entrambi i concetti espressi è costruita anche la mia visione di canto corale, vissuto in una scala di valori nella quale, come direttore, cerco di valorizzare le scelte (di squadra e di repertorio) mostrando ai coristi come la coralità sia una competenza di vitale importanza, una life skill dove si forgiano caratteri, espressività, respiro e pulsare comune, oltre alla connessione interiore, sia essa individuale oppure di gruppo.

Occorre dunque valorizzare soprattutto la parte e il ruolo che in tutto questo sistema compete al direttore di coro: se è possibile e auspicabile che ogni buon direttore che abbia le giuste competenze tecniche possa portare il proprio coro a traguardi misurabili riguardo intonazione, esecuzione, articolazione ecc., è allo stesso tempo, molto probabilmente, più difficile trovare musicisti/direttori capaci di ottenere risultati in campi che non sono misurabili e che, in un gruppo così eterogeneo come lo è una compagine corale, possono dimostrarsi di vitale importanza per la sua sopravvivenza e crescita, in particolar modo se si parla di giovani e giovanissimi.
Proviamo a illustrare fotograficamente la riflessione che vorrei proporre in questo articolo. L’educazione alla musica corale è fondamentalmente il metodo per elevare un gruppo come viene mostrato nella foto a sinistra a un gruppo raffigurato nella foto a destra. Nella prima foto è visibile un gruppo di coristi: nella seconda, una comunità che non nasconde l’amore per ciò che fa e all’interno della quale i componenti si sentono a proprio agio nei rapporti e negli scambi energetici che intercorrono tra di loro.

Percorsi e possibilità

Nel chiedermi quali siano le motivazioni che possono spingere bambini e ragazzi a entrare a far parte di un coro, ho pensato di realizzare un piccolo esperimento. Ho posto due semplici ma significative domande ai componenti dei due cori che ho diretto nella scorsa stagione, il coro di voci bianche Emil Komel e il coro giovanile misto omonimo, sapendo a priori quanto ogni bambino e ragazzo viva il canto corale diversamente a seconda delle fasi della vita. Alla domanda «Perché ti piace cantare in coro?» le risposte sono state le seguenti:

  • Perché in coro si canta a più voci e ciò che ne esce fuori è super bello!
    (Mara, 10 anni)
  • Perché un giorno vorrei cantare in un coro di adulti…
    (Lucija, 8 anni)
  • Perché ho sentito il coro in cui canta mia sorella e me ne sono innamorata
    (Petra, 6 anni)
  • Perché mi piace cantare e vorrei imparare a farlo ancora meglio
    (Lucia, 10 anni)
  • Perché negli ultimi anni il coro ha acquisito sempre più importanza nella mia vita
    (Samuel, 20 anni)
  • Perché amo cantare insieme ai miei meravigliosi compagni, con i quali condividiamo la stessa forte passione
    (Zala, 18 anni)
  • Perché vivo sensazioni che non provo da nessun altra parte
    (Jakob, 20 anni)
  • Perché amo condividere la musica e la sua magia con gli altri
    (Katarina, 18 anni)
  • Perché il cantare in coro mi definisce
    (Alessandro, 20 anni) 
A una prima analisi, risulta evidente quanto le consapevolezze dei ragazzi, derivanti da una profonda connessione con la propria personalità, siano unite da un comune denominatore: lo star bene. Questa tipologia di star bene non è superficiale: va, piuttosto, dalle sensazioni estetiche («mi piace cantare») alla proiezione di sé nel futuro («vorrei cantare in un coro di adulti»), attraverso la consapevolezza delle proprie possibilità di crescita («vorrei cantare meglio»), fino ad arrivare a sensazioni estatiche («amo condividere la magia della musica»), all’identificazione sociale («il coro fa parte della mia vita», «siamo uniti dalla stessa passione») e alla definizione della propria identità («il cantare in coro mi definisce»).
All’interno di una tavolozza così variegata di sensazioni e pensieri, diventa chiave il ruolo del direttore come catalizzatore e trait d’union di tutti questi elementi. Mi piace pensare al direttore come a una sorta di faro per ogni corista. A ciel sereno, la sua presenza è garante di stabilità: so dove devo andare. Nei momenti di tempesta, è la sua luce che (mi) indica il porto sicuro dove approdare. Ancor prima della funzione musicale, è proprio l’essere come un faro a poter delineare la funzione umana e pedagogica del direttore. Le competenze musicali si possono apprendere mentre, per poter essere punto di riferimento a livello pedagogico, è necessario un buon grado di sensibilità, profonda consapevolezza e delicatezza nell’accostarsi all’altro.

Potremmo chiederci, a questo punto, cosa ne pensino i nostri coristi della funzione del direttore e quale immagine egli abbia ai loro occhi. Ed ecco la seconda domanda posta ai miei bambini e ragazzi, ovviamente formulata in modo diverso a seconda dell’età dei coristi. Alla domanda «Qual è secondo te la funzione del direttore di coro?», i bambini hanno risposto così:

  • Deve conoscere bene il brano, preferibilmente a memoria; deve sapere bene quando dobbiamo cantare forte o piano e deve saper dirigere
    (Petra, 6 anni)
  • Deve conoscere bene la teoria musicale e saper cantare per poterci insegnare
    (Mara, 10 anni)
  • Dovrebbe tener conto dei nostri desideri e alle prove ci dovrebbe essere la giusta dose di divertimento e serietà
    (Emi, 8 anni)
  • Deve saper unire le voci diverse e farne una più bella
    (Sara, 7 anni)

(Devo ammettere che queste risposte mi hanno lasciato non poco sorpreso e che i bimbi dai sei ai dieci anni di età possono essere ottimi specchi per ogni maestro di coro)

Ai miei giovani dai 16 ai 20 anni ho chiesto: «Quali sono le caratteristiche di un buon direttore di coro?»

  • Energico, preparato, rispettoso, ambizioso, deve saper creare un buon clima di lavoro e prendersi cura della comunità di coristi
    (Mira, 18 anni)
  • Dovrebbe avere con i propri coristi un rapporto di autorità e amicizia allo stesso tempo
    (Pietro, 19 anni)
  • L’umanità
    (Urška, 17 anni)
  • Deve saper trasmette amore per la musica, rispettare ogni corista e farlo sentire parte importante del gruppo; deve essere consapevole delle potenzialità del coro e promuoverne lo sviluppo per migliorarne il livello
    (Sara, 19 anni)
  • Non dovrebbe rompere troppo e dovrebbe prendersi cura di tutti i coristi
    (Marta, 20 anni)
  • La perseveranza del direttore è ciò che mi motiva di più
    (Nejka, 19 anni)
  • È un amico che dà vita all’arte insieme a te
    (Eva, 19 anni)
  • È come un padre per i suoi figli
    (Lucija, 17 anni)

Le immagini usate sono molto evocative: mostrano una dicotomia molto interessante che spazia dal serio al leggero, dall’ambizione al desiderio, in un continuo oscillare tra l’umanità e il sublime nell’arte. Per i coristi, quindi, noi direttori possiamo e dobbiamo impersonificare diversi ruoli, che possono essere interconnessi così come molto distanti tra loro.
Sui vari ruoli del direttore sono nate credenze e leggende metropolitane che a volte, però, non si discostano troppo dalla realtà; la loro iconografia, a volte ironica, è ben rappresentata nella figura riportata nella colonna a fianco.
Siamo consapevoli di essere una categoria di musicisti particolarmente atipica in quanto, tra le nostre competenze, si annoverano una grande cultura e sensibilità musicale (che spazia dalla vocalità al fraseggio, dall’armonia all’analisi, dalla composizione alla storia della musica ecc.), un notevole spirito di squadra, forti capacità empatiche, un fine gusto letterario (operiamo per la maggior parte con testi, anche se musicati…) e spesso anche la conoscenza di elementi di retorica, metrica, danza, anatomia, fisica, gestione delle risorse umane, direzione spirituale, psicologia e quant’altro. Volendo ironizzare, ogni direttore di coro dovrebbe portare una maglietta con la scritta: I am a choir conductor, what is your superpower?
Anche se in realtà nessuno di noi può concorrere con Superman (a meno che non vesta le mutande sopra i pantaloni!), possiamo riconoscere che nella maggior parte dei direttori di coro ci sia una forza di volontà ferrea a migliorare il microcosmo corale, avendo sempre davanti agli occhi la consapevolezza di non poterlo fare da soli. Non c’è infatti direttore di coro senza coro, quantunque questa affermazione risulti banale: la musica corale è un lavoro di gruppo e presuppone il saper fare squadra.

Partendo dal presupposto di Erasmo da Rotterdam, il quale afferma che «il primo passo verso il sapere è il reciproco amore tra l’alunno e il proprio maestro», ci è chiaro da quali idee possa scaturire la metamorfosi da gruppo a comunità. Il concetto di amore di Erasmo si può comprendere ancor più nel profondo attraverso il pensiero di un altro gigante della psicologia moderna, Erich Fromm. Questi afferma che l’amore sia «la matura soluzione del problema dell’esistenza» e lo differenzia dalle altre unioni simbiotiche dove una delle due parti ha una funzione di dipendenza attiva o passiva. Fromm intende l’amore come un dono, un’attività volta al dare/darsi, dove entrambe le parti coinvolte nel dare/darsi, se opportunamente mature, non vengono private di nulla. Citando Fromm: «amore è soprattutto dare e non ricevere». A questo elemento l’autore dà un’importanza fondamentale. «Dare», dice Fromm, «è la più alta espressione di potenza. Nello stesso atto di dare, io provo la mia forza, la mia ricchezza, il mio potere. Questa sensazione di vitalità e potenza mi riempie di gioia. […] Dare dà più gioia che ricevere, non perché è privazione, ma perché in quell’atto mi sento vivo». Secondo Fromm, oltre al dare vi sono quattro elementi di carattere attivo nell’amore che sono, a mio parere, elementi chiave anche nel rapporto tra individuo e gruppo/comunità: la premura, la responsabilità, il rispetto e la conoscenza. Tutti codipendono uno dall’altro.

Se spostiamo le nostra attenzione sull’elemento del dare, possiamo provare a riflettere su quale sia il ruolo e la specificità del direttore. In un periodo storico-sociale contemporaneo votato all’informazione istantanea, e il più delle volte superficiale, il direttore di coro può guidare il corista verso le profondità che lo distinguono (musicale, psicologica, emotiva ecc.), insegnargli ad andare controcorrente, aiutarlo a mettersi in ascolto degli altri e di se stesso, un ascolto completo che non sia solo musicale quanto piuttosto anche psicofisico: in un coro, ciascun individuo lavora per fondere la propria voce con quella dei compagni fino a creare un’unità spirituale di voci, una terza voce che – come la piccola Sara insegna (vedi sopra) – dovrebbe essere più bella di tutte le voci che la compongono.

Per quanto riguarda invece il corista, viene da domandarsi come anche il suo dare possa essere utile al gruppo/comunità. Nei nostri cori cantano persone di estrazioni molto diverse e con motivazioni e conoscenze altrettanto varie. Questa poliedricità dà vita a un ambiente sonoro ed emotivo molto ricco, che deriva quindi sia dall’individualità specifica di ogni corista, alla quale il direttore può dare l’attenzione che merita e la giusta libertà, sia dalla somma di tali unicità che vanno a costituire il gruppo o la comunità. Qui si rende necessario che ogni corista (sotto l’attenta supervisione del proprio direttore) metta al servizio della comunità la propria individualità. Quest’ultima non verrà annullata bensì valorizzata come una tessera in un grande mosaico. In una relazione che pone l’accento sull’identità del singolo (sia questa vocale o caratteriale) il coro può divenire comunità, fondata sul rapportarsi sinceramente. La sincerità come tale, però, implica una buona dose di rischio, come sempre accade quando si investe nel meritare la fiducia di qualcuno. Questo tipo di rapporto potrà ricamare ogni esecuzione musicale con la magia di cui i ragazzi hanno parlato nelle loro risposte ai miei quesiti. La fiducia reciproca all’interno di una comunità è garante anche di coraggio e audacia ed entrambe queste caratteristiche si possono palesare nelle esecuzioni corali: più alto è il grado di connessione tra i coristi, maggiori saranno l’audacia e il coinvolgimento emotivo, che si estenderà facilmente dai coristi agli ascoltatori. Anche l’impegno al perseguimento degli obiettivi comuni, da parte del coro, sarà più motivato e consapevole. L’identità che viene a crearsi nei cori, soprattutto in quelli giovanili in cui cantano persone in crescita e in continua formazione, è importante sia dal punto di vista umano che da quello simbolico. Qui si rende necessaria anche una riflessione sull’organico del coro, poiché sarebbe auspicabile avere un buon equilibrio tra la presenza di voci maschili e femminili anche e soprattutto nei cori di voci bianche. Come ben sappiamo però, molto spesso la componente maschile è inferiore a quella femminile.
Nell’immaginario collettivo, cantare in coro è un’attività più per ragazze che per ragazzi, ma questa è ovviamente una credenza basata su stereotipi. Vero è, invece, che ragazzi e ragazze vivono in modo differente sulla propria pelle il fare coro. Se tra le ragazze il senso estetico è generalmente più diffuso già in tenera età, tra i ragazzi è ancora latente e si palesano di più la voglia di mettersi alla prova e la competitività, che può divenire poi occasione di crescita per tutto il coro. Per quella che è la mia esperienza, noto che i ragazzi sentono maggiormente la necessità di affrontare delle sfide e il loro apporto in questo senso può aiutare l’intero coro a migliorare in breve tempo: le ragazze a loro volta, con il loro senso estetico e la loro attenzione al dettaglio, influiscono su una più profonda evoluzione delle consapevolezze emotive della componente maschile. Osservo di frequente che le sezioni maschili hanno bisogno prima di tutto di esperienze adrenaliniche per poi trovare la strada verso l’interiorità, mentre per le sezioni femminili il processo è proporzionalmente inverso: da profonde sensazioni emotive, alla strada per arrivare in superficie ed esprimere se stesse.

Foto © Ožbej Černe

Ogni categoria può dunque far evolvere il proprio senso estetico attraverso le competenze innate e allo stesso tempo influire positivamente sull’altra, il che aiuta il gruppo/comunità a fare ulteriori passi avanti. La domanda che sorge spontanea è: come contribuire a rendere più frequente l’inserimento di voci maschili in una realtà corale e come, allo stesso tempo, motivare i ragazzi affinché tra i loro impegni figuri più frequentemente l’attività canora di gruppo?
Sono fermamente convinto che ai ragazzi occorra porre nuove sfide: difficilmente infatti un adolescente maschio rimarrà fermo sulla propria sedia, o al proprio posto, per un’ora e mezzo o più di prove. Nel momento in cui ho ereditato dai miei predecessori un coro giovanile con una equilibrata ripartizione tra voci femminili e maschili, ma in cui i ragazzi erano appena all’inizio del loro periodo di muta vocale, ho dovuto ricorrere a molta creatività. Ho iniziato con il chiedere il parere a esperti del settore, che però mi hanno subissato di consigli molto contrastanti, se non addirittura discordanti: da chi sosteneva che andassero lasciati in totale riposo vocale e ripresi a muta conclusa, a chi invece suggeriva di farli cantare secondo le proprie possibilità senza farli sforzare in alcun modo ecc.
La cosa più naturale mi è sembrata quest’ultima e in effetti, a conti fatti, ha permesso loro di passare senza grossi traumi attraverso una fase molto delicata della loro crescita vocale e personale. In quel periodo, ho cercato di ampliare il repertorio scegliendo brani di una certa difficoltà e a più voci in cui la linea del contralto potesse essere cantata anche dai ragazzi: il loro apporto ha donato un colore particolare al suono d’insieme e loro stessi hanno compreso l’importanza della loro linea armonica. Ero certo che avrebbero accettato la sfida, cosa che si è dimostrata strategica, in quanto sono stati infettati dalla musica corale a tal modo da aver (ri)conosciuto a fondo il proprio gusto estetico, che continuano a curare tutt’oggi nel loro ruolo di tenori, baritoni e bassi di vent’anni e più. Da alcuni anni, ho sperimentato anche la creazione a progetto di un coro composto da sole voci maschili, mettendo assieme tutti i ragazzi dei tre cori che compongono la piramide corale del Centro sloveno di educazione musicale Emil Komel di Gorizia in cui lavoro (il coro di voci bianche, il coro giovanile dai 12 ai 16 anni e il giovanile misto dai 16 anni in poi). Ho dato ai ragazzi dagli 8 ai 14 anni le parti dei soprani e dei contralti, mentre ai giovani dai 15 ai 22 quelle dei tenori e dei bassi. Abbiamo affrontato un repertorio per cori misti, che è risultato interessante sia dal punto di vista dell’ascolto (per quanto riguarda il suono e il carattere), sia da quello dell’esecuzione (i bimbi di 8 e 10 anni hanno potuto sentire dietro di sé le voci maschili mature dei più grandi e hanno capito ancor meglio quale sarà la strada che potranno percorrere). A volte credo sia giusto dare la possibilità ai nostri bimbi in fase di crescita di dare una sbirciatina da vicino a quello che li aspetta: una visione reale dei sogni futuri, sia in ambito professionale che sportivo e culturale, quindi anche corale. Se vuoi che un giovane corista si voti alla musica corale per tutta la vita, offrigli la possibilità di vedere le sue infinite capacità di evoluzione! Sono certo che troverà quella che più gli aggrada, e sarà allora anche compito del direttore infondergli una buona dose di coraggio per aiutarlo a mantenersi saldo in questa sua passione.

Come direttori di coro siamo talvolta costretti a soluzioni creative e non convenzionali, frutto di scelte ed esperienza, e a volte anche di sana incoscienza! In questo è utile sapere che un direttore di coro fresco di studi di conservatorio avrà molte più probabilità di arrivare davanti a un coro di bambini che dovrà ancora costruire vocalmente, che non davanti a un gruppo di coristi efficienti, provetti o magari addirittura professionisti. In breve: un direttore dovrà, nella maggior parte dei casi, educare e costruire da solo i coristi del proprio futuro. Queste sfide potrebbero essere utili anche per riflettere più in generale sui curricula di conservatori e accademie, che potrebbero abbracciare la musica corale in un senso più funzionale, ampio e completo. 

Per concludere…

Sul fatto che la bellezza possa salvare il mondo, noi direttori di coro non abbiamo alcun dubbio, altrimenti non faremmo ciò che ci definisce in maniera così profonda. Ma in questo nostro fare, non siamo mai soli: abbiamo bisogno di un gruppo di persone con il quale crescere mano nella mano, voce accanto a voce, coscienza accanto a coscienza. Una realtà corale assomiglia molto, più di quanto si creda, a una squadra sportiva o a una équipe in sala operatoria: ciascuno svolge il proprio ruolo e il risultato finale non potrebbe essere di successo qualora anche uno solo dei componenti non portasse a termine il proprio compito con impegno. Un mosaico senza un tassello, infatti, risulta sempre incompleto. Allenatore, chirurgo o direttore, però, potranno creare il clima adatto solo attraverso un incoraggiamento positivo, che deriva dall’amore di cui sopra.
Di questo mi sono convinto alcuni anni fa ascoltando la rassegna corale Zlata grla (Ugole d’oro), che si tiene ormai da vent’anni a Gorizia e il cui livello qualitativo cresce di anno in anno. Uno dei cori di voci bianche partecipanti era in procinto di salire sul palco e i piccoli coristi sorridevano emozionati. Una di loro faticava a deambulare a causa di un grosso gesso alla gamba, così la direttrice l’ha presa in braccio e le ha permesso di entrare e uscire insieme ai compagni, tra gli applausi fragorosi e calorosi del pubblico. In momenti come questo, tutto appare chiaro ed evidente: quando inizi a cantare in un coro, capisci che non è solo questione di voce. E quando lo capisci, smetti. Oppure non smetti mai più.

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