Ero incantata. Sognavo, ideavo, inventavo mondi paralleli e, senza saperlo, progettavo. Studiavo l’interazione di sguardi tra lei e ogni singolo bambino: la profondità di quelle relazioni umane, portate avanti attraverso il mezzo musicale e vocale, mi affascinava e dava vita a riflessioni, sogni, idee che mai avrei pensato di poter concretizzare. Non avevo altro per la testa e non avevo nulla in comune con i miei coetanei adolescenti. Piuttosto, ero ferma nelle mie convinzioni: la potenza di quelle relazioni meritava attenzione. Relazioni gioiose, a giudicare dai sorrisi e dall’intesa che si palesava tra Mariele e i bambini, ma, al contempo, rigorose, rispettose e fondate su un costante lavoro musicale. Mi chiedevo come sarebbero diventati da grandi, quei bambini, cosa avrebbero portato nel cuore di quell’esperienza magica, della quale io non distinguevo l’umano e il musicale: per me era un tutt’uno. Ho compreso più avanti quanto, già da piccola, stessi riflettendo sulla possibilità che un percorso corale potesse essere in grado di contribuire in maniera sostanziale alla costruzione dell’identità personale. Non solo grazie alla dimensione gruppale della proposta ma, anche e soprattutto, grazie al modo di porsi di colui che la propone.
L’adolescenza, per definizione, è una fase dello sviluppo caratterizzata da complessità ed evoluzione: la parola deriva dal latino, adolescere, che significa crescere. Modificazioni somatiche, vicende intrapsichiche e dinamiche psicosociali si intrecciano tra loro in maniera interdipendente, creano un groviglio di emozioni e vissuti poggiando i piedi sui quali il soggetto inizia a camminare lentamente e faticosamente sul sentiero che porta alla scoperta e alla definizione della propria identità.
Chi sono, da dove vengo, a cosa servo, cosa sento nell’intimo della mia anima, come posso raccontare ciò che sento, potrò raccontare ciò che sento, chi mi ama avrà voglia di ascoltare ciò che sento, sarò meno amabile se condivido ciò che sento, e mille altri quesiti, inestricabilmente aggrovigliati tra loro come cuffie del cellulare. Lo zaino, che fino a poco prima conteneva quasi solo astuccio e quaderni, inizierà a riempirsi di segreti talvolta ritenuti inconfessabili e a pesare sempre più. Sul corpo e sull’anima, che nel frattempo sarà divenuta più sensibile e suscettibile. Una brutta malattia? A sentir parlare loro, i nostri ragazzi, a volte può sembrare di sì. Ma il punto è un altro: il processo di costruzione della propria identità passa inevitabilmente per tali domande, in un continuo crearsi di nuovi equilibri, attraverso i cambiamenti o i traumi che la persona si trova ad affrontare, in adolescenza come in tutta l’esistenza.
Nel corso degli anni Quaranta, lo psicoanalista Erik Erikson si occupò a lungo dello studio dell’adolescenza in rapporto all’identità, la cui ricerca egli ritiene rappresenti un bisogno umano fondamentale: è proprio la ricerca dell’identità il compito principale e la crisi fondamentale dell’adolescenza, che vede il giovane lottare per riconciliare la ricerca di un senso di unicità individuale con un inconscio desiderio di continuità e una solidarietà con gli ideali di un gruppo. Come possiamo fare capolino tra gli alberi di questo tortuoso sentiero noi, educatori e insegnanti, e fare in modo che le nostre proposte didattiche indichino loro una possibile andatura di camminata sul sentiero, un’andatura che stanchi pure ma non sfianchi, che preveda soste per rinfrescarsi ma non suggerisca scorciatoie, che non incoraggi la corsa sfrenata sulla scia dell’entusiasmo ma piuttosto suggerisca la distribuzione dell’energia lungo tutto il percorso, al fine di non perdere motivazione e coraggio e mantenersi lucidi e aperti agli incontri che il sentiero proporrà? Proviamo a capire.
Coralità, almeno per me, vuol dire percorso corale, ma soprattutto percorso di vita, che si poggi sulla sincerità. L’esperienza corale è un’esperienza di squadra: in sala operatoria abbiamo chirurghi, anestesisti, infermieri. Ruoli del tutto differenti, alcuni apparentemente più importanti di altri, ma tutti fondamentali alla riuscita dell’operazione. Chiediamoci davvero se il chirurgo avrebbe potuto operare al meglio senza la sua équipe attorno. Sarà anche colui che opera il taglio ma, senza le altre figure professionali, il buon esito finale risulterebbe senz’altro compromesso.
In un coro, scolastico o associativo che sia, ritroviamo spesso tante figure: c’è chi è approdato al coro perché non ha il coraggio di cantare da solo e ritiene che mettersi in gioco davvero voglia dire esibirsi da solista, c’è chi ama condividere e stare in gruppo ma non è mica tanto sicuro che gli piaccia cantare, c’è poi chi ha l’orecchio assoluto e soffre per ogni nota calante, chi è più abile a leggere la musica e si annoia quando i tempi si allungano per aspettare chi resta indietro, chi ancora spera di non essere notato perché convinto di non essere sufficientemente bravo, e chi ritiene, per riprendere l’esempio della sala operatoria, che il chirurgo conti più dell’anestesista e sia più degno di stima.
È complesso portare ciascuno di loro a comprendere quanto sia indispensabile, nel coro come nella vita, individuare i propri punti di forza e di debolezza, potenziare i primi e contemporaneamente lavorare per migliorare i secondi, venire a patti con la propria fallibilità e con la consapevolezza che non si potrà eccellere in tutti gli aspetti, mettere i propri punti di forza a servizio del lavoro d’équipe che si sta svolgendo per il raggiungimento di un obiettivo comune e addirittura accettare che una propria debolezza possa rappresentare in realtà una risorsa per l’intero gruppo. Una difficoltà musicale o emotiva di un corista potrà portare i compagni a individuare strategie risolutive, potenziando quindi in quella realtà corale la capacità di problem solving.
Tutto questo processo passa necessariamente attraverso la sincerità: inutile negare le difficoltà del singolo, musicali o personali, quando ci sono. Utile, invece, ideare percorsi didattici per trovare la miglior via d’espressione e individuare quale possa essere il suo ruolo all’interno del coro. Un ruolo fondamentale, non di facciata, ma di sostanza. L’attenzione del corista va spostata dal “sono meglio o peggio di” al “come me non c’è nessuno”, ponendo l’accento sull’unicità di ciascuno. Anche il corista più sofferente a livello emotivo avrà molto da insegnare agli altri, probabilmente in quanto a tenacia nel sopportare, nel proseguire senza vedere una via d’uscita, nel tentare soluzioni più o meno adattive ma che in ogni caso si configureranno come un fare qualcosa. E, sul famoso sentiero, anche lui c’è: magari ruzzolando e con qualche ferita, ma non è fermo. Cosa può fare un direttore di coro, catapultato sul sentiero della crescita dei propri ragazzi? Senz’altro avere il coraggio di non limitarsi a dirigere il traffico o anche solo le dinamiche presenti su uno spartito: abbiamo di fronte anime con cui comunicare e condividere. Anime che saranno rinfrancate dal conoscere le nostre fallibilità personali e, al contempo, le soluzioni creative che abbiamo scovato nel corso degli anni per innaffiare la piantina della nostra identità e resistere a volte alla tentazione di schiacciarla, nell’erronea convinzione che non fosse degna di cure. L’identità si definisce grazie al confronto sincero, all’incoraggiamento concreto, al rinforzo positivo, all’amore.
Chiediamoci in quali aspetti ciascuno dei nostri ragazzi sia importante per noi, chiamiamoli per nome e raccontiamo a ognuno cosa la sua presenza nella nostra vita susciti in noi. E, quando saremo al suo cospetto, che i nostri occhi brillino: è grazie a lui, a loro, che possiamo far danzare nell’aria le note che spesso di notte danzano nei nostri sogni. E dall’incontro di tante identità, emotive e sonore, può nascere, a patto di volersi mettere in ascolto paziente e profondo, un’identità corale. Il famoso suono corale, quello in cui non si distinguono le singole voci e che tanto ci fa venire la pelle d’oca quando arriva alle nostre orecchie. Non è annullamento dell’individualità: è aver trovato una risposta alle famose mille domande aggrovigliate tra loro. Una risposta non definitiva, soprattutto in adolescenza, che può e deve permettersi modifiche di giorno in giorno, ma che di certo deriva dall’essersi trovati in un terreno fertile all’accoglienza di tali domande interiori. Anzi: il suono corale, risultato di tante identità in crescita che si incontrano, brilla in concerto ancor di più quando è proprio in quel momento che si stanno cercando le risposte, direttore e coristi insieme.
Anche per questo è difficile prevedere come andrà a concludersi un brano: tutto dipende dalle domande che il coro si sta facendo, dalle soluzioni creative che vengono messe in atto, da quanto coraggio hanno tutti di cercare risposte e realizzare un’esecuzione senza garanzie, dove l’unica certezza è che il coro in quel momento pulsa e combatte, cerca e si emoziona, cade e si rialza, e di conseguenza respira e trasmette vita. Che il direttore possa essere il più sincero e nudo possibile in quei momenti: le garanzie di riuscita, apparentemente, diminuiranno, ma il suo pulsare senza difese sarà luce sul sentiero, nonché esempio concreto per i ragazzi di quanto non sempre sia sufficiente essersi ben preparati per affrontare al meglio il concerto, il concorso, gli eventi di vita. Ciò che fa paura è il non poter controllare: l’intonazione, così come gli eventi di vita. Si può solo vivere. Pulsare. Relazionarsi. Aver imparato a cercare soluzioni creative, nel qui e ora. Nudo e senza difese non sai cosa accadrà, ma se puoi fidarti del tuo coro di appartenenza, ciò che ne verrà fuori sarà un altro pezzetto di strada illuminata. Corale e personale. Per proseguire nel cammino, magari con le cuffie non più aggrovigliate e la musica nelle orecchie.