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Parlare di musica, cantare le parole
Intervista a Pavle Merkù

di Rossana Paliaga
Dossier compositori, Choraliter 46, aprile 2015

«Sono felice di tutto quello che ho fatto, anche degli errori». Invitato a fare un bilancio, Pavle Merkù ha risposto come di consueto con serena concretezza e la piena consapevolezza che il fare avrebbe continuato a dare senso alla sua vita, attraverso un’inestinguibile curiosità, alla quale l’avanzare degli anni e lo stato di salute non favorevole alla lettura e alla composizione hanno posto ostacoli sempre più limitanti. Per Merkù la vita era e doveva essere una scoperta continua, ad ampio raggio. Per questo anche i suoi studi, gli interessi, l’attività, si sono svolti sempre su più binari: la composizione, la linguistica, l’etnografia. Amava la poesia slovena e russa, la letteratura siciliana, il dialetto sardo, le proprie radici mitteleuropee, l’identità di confine, alla quale ha dedicato studi fondamentali in campo etnomusicologico e linguistico. Anche per questo motivo la musica vocale ha trovato un posto speciale nella sua attività di compositore, proprio perché veicolata a un testo, a esperienze vissute in prima persona e derivate dai molteplici interessi. La musica corale è stata per lui il prodotto di un’affinità elettiva, di scelte accurate di testi, melodie senza tempo, incontri di musicalità diverse e complementari, dove la razionalità va di pari passo con l’emozione, anche perché, come diceva con la sua caratteristica ironia: «ogni creazione artistica si basa su un solido lavoro: l’inspiratio è semplicemente il contrario dell’espirazione».

L’inclinazione musicale e linguistica la accompagnano fin dalla più tenera età.

Ho conosciuto e parlato fin da piccolo l’italiano, lo sloveno e il tedesco, le lingue parlate in una famiglia dalle origini etniche piuttosto varie. Il primo linguaggio in vita mia è stata però la musica. Tutta l’educazione familiare è stata un’educazione musicale. Mi addormentavo ascoltando la mamma suonare. A casa ho ascoltato moltissima musica per trio con pianoforte, da Haydn agli albori della musica del ’900. Probabilmente questa abitudine mi ha legato fin dall’inizio alla musica da camera più che agli altri ambiti musicali. Quando ho iniziato a suonare, Arcangelo Corelli è diventato il mio primo grande amore e ricordo di aver detto una volta a mio padre: «Quando sarò grande scriverò musica bella come quella di Corelli!». Ovviamente non ci sono mai riuscito.

Come si sono svolti i suoi studi musicali?

Ho iniziato studiando il violino. Era il periodo della Seconda guerra mondiale, quando a causa dei bombardamenti dovevamo trascorrere molto tempo nei rifugi antiaerei. Non vivevo più nella casa paterna, ma dalla nonna e dalla zia pianista che mi suonava tutti i brani possibili per pianoforte, da Scarlatti a Kogoj. Ho dovuto abbandonare presto il violino quando un medico, a seguito di una brutta pleurite, mi ha sconsigliato di continuare a suonare. Non mi è rimasto che dedicarmi alla composizione! Questo studio mi attirava molto, ma ho dovuto attendere la fine della guerra per prendere lezioni da un amico di famiglia, il compositore Ivan Grbec. Era un insegnante molto serio, severo e preparato ed era felice che fossi interessato alla composizione. Ci capivamo bene, ma avevo bisogno di ritmi più veloci, così ho proseguito gli studi con Vito Levi, una persona di grande cultura. Rispetto a Grbec, Levi non usava il pianoforte per analizzare le partiture. Ho fatto lo stesso con i miei allievi. Mi mostravano le proprie composizioni, leggevamo sulla carta e ascoltavamo soltanto quello che risuonava nelle orecchie. Se non conosci la musica in questo modo, non la conoscerai mai. Ho conosciuto troppi compositori per pensarla diversamente. Ho parlato molto anche con Luigi Dallapiccola e Goffredo Petrassi.Petrassi si era accorto che conoscevo moltissime delle sue composizioni. Per questo non abbiamo mai parlato di musica. Era troppo intelligente per non sapere che non era il caso di parlare di musica con un amico di Dallapiccola. Parlavamo a lungo di altre cose e ascoltavamo la sua musica. 

Lei è stato sempre un giudice molto severo nei confronti delle proprie composizioni. Ha infatti cestinato molti brani prima di salvarne il primo, alla fine della Seconda guerra mondiale.  

Nel primo decennio del dopoguerra ho assistito alle prime esecuzioni di miei brani a Trieste e in Slovenia: fondamentalemente si trattava di brani ancora poco maturi, ma il mio nome ha iniziato a comparire sui giornali. Leggevo volentieri le critiche, dalle quali ho imparato molto. Poi mi sono occupato di critica musicale, anche perché ha un ruolo molto importante nello sviluppo di un pensiero critico, anche nei confronti di se stessi. 

Come potremmo definire i diversi periodi della sua attività artistica?

Ho iniziato a scrivere durante la guerra, imbevuto di estetica tardoromantica. Conoscevo Kogoj, ma sono entrato in contatto con le tendenze contemporanee soltanto più tardi. Sono approdato a un linguaggio che definirei neoespressionista, tentando di unire l’insegnamento della seconda scuola di Vienna, ovvero di Berg e Webern, con il mio lessico personale. Dopo il 1965 la conoscenza della musica popolare slovena mi ha portato a nuove scoperte. Ho capito ad esempio di avere avuto fino a quel momento una scarsa considerazione di questo immenso patrimonio, dal quale ho potuto attingere a livello formale e contenutistico. I miei arrangiamenti non sono popolari nel termine proprio della parola, ma sono divenuti molto popolari. La mia Rapsodia per orchestra d’archi sul tema Ali sijaj, sijaj sonce è stata portata dall’orchestra della Filarmonica slovena fino alla Carnegie Hall di New York. Penso di aver trovato, in questa come anche in altre composizioni, il necessario equilibrio tra anima e ratio.

Quale dei suoi brani ascolta più volentieri?

Ascoltare musica è impegnativo quanto comporla, quindi ascolto più volentieri composizioni che non ho scritto. Quando riesco ad ascoltare qualcosa, cerco di scoprire brani nuovi, meno noti. Tuttavia ho due grandi passioni: Šostakóvič e Monteverdi.

Effettivamente non è stato sempre presente ai concerti che prevedevano l’esecuzione di suoi brani, nemmeno in occasione di un concerto dedicato interamente alle sue composizioni da un noto festival internazionale di musica contemporanea.

In realtà non si tratta di questo: non sopporto che le persone che mi incontrano insistano a farmi domande sulla mia salute e in queste occasioni accade sempre… La direttrice del coro è venuta a farmi visita, abbiamo risolto i suoi dubbi su alcuni accenti del brano in dialetto sardo. Le ho permesso di fare come preferiva. «Io inizierei così», mi ha detto. «Io invece no, ma non le vieterò nulla», ho risposto. Che ognuno interpreti i brani come gli piace, del resto le composizioni sono state pubblicate per questo. 

Esiste una composizione che indicherebbe come particolarmente significativa a chi si avvicina per la prima volta alla sua musica? 

Ho scritto musica di vario tipo e genere e mi è difficile dare un suggerimento. Dipende molto dalle esigenze degli ascoltatori. Ho distrutto molti manoscritti che non ritenevo all’altezza. Negli ultimi anni di lavoro ho trascritto e arrangiato molti canti popolari, che possono essere forse maggiormente apprezzati, per rispondere alla domanda, e ancor di più se l’ascoltatore è sloveno e conosce personalmente quei canti. 

Le sue ricerche in campo etnomusicologico sono confluite tra il 1965 e il 1974 in una serie di trasmissioni radiofoniche e nell’antologia Le tradizioni popolari degli sloveni in Italia (1976), che conserva tra le sue pagine il suono di un altro tempo.

Esatto. In Resia ho incontrato diversi ricercatori sloveni: registravano tutto tranne i canti devozionali. Io mi sono interessato invece anche ai canti popolari legati alla fede. Ho fatto quello che ho potuto, trascrivendo canzoni sacre e profane, racconti, leggende. Sono entrato in contatto con informazioni tramandate oralmente per diciassette generazioni. Sono felice anche di aver documentato e arrangiato la musica popolare della Valle del Torre e della Resia. Scrivere arrangiamenti di questi brani era allora una novità e nel corso delle mie ricerche ed elaborazioni non pensavo di aver preso letteralmente l’ultimo treno.

Qual è il suo approccio al materiale popolare dal punto di vista scientifico e artistico?

Non sono né musicologo, né etnomusicologo, soltanto compositore e linguista. Tutto il resto ruota attorno a queste due scelte. Le ricerche etnomusicologiche sono nate da una concreta necessità della radio. Ho dovuto imparare, cercare l’aiuto di esperti. Di questioni musicologiche mi sono occupato invece sporadicamente, dedicandomi ad argomenti anche rari come ad esempio l’infanzia di Marij Kogoj a Trieste. Ho conosciuto la musica popolare da ricercatore, prima che come compositore, e questo mi ha aiutato a trovare un rapporto molto preciso con la materia trascritta, con il luogo e la persona che me l’ha affidata, portandomi a essere grato per quello che ho ricevuto. L’aspetto scientifico mi interessa molto meno. Ho messo in musica sette lingue e diversi dialetti e ognuno si esprime con una musicalità specifica. Mi sono innamorato della Sardegna e ho imparato a capire e parlare tre dei suoi dialetti. Questa è la mia musica del cuore. Vorrei inoltre sottolineare che elaborare musica popolare significa trapiantarla dal suo ambito naturale a un ambito che non è più naturale, ma colto, lontano dai luoghi e dagli obiettivi originari. La musica popolare è iterativa, ma non è possibile riprodurre questa caratteristica in una sala da concerto, perché occorre adattare il materiale musicale a diverse abitudini e mentalità. Il compositore in questo caso è completamente libero e decide da sé la direzione e la forma del suo arrangiamento, inventando una nuova forma e un nuovo ruolo per musica preesistente. Questo lo rende molto simile al compositore che crea brani totalmente originali. 

Cosa la attira di più nello scrivere per le voci?

Da piccolo ho ascoltato molta musica. Mio padre mi portava ad ascoltare molti concerti e non dimenticherò mai di avere assistito ai concerti di due grandi violinisti, Bronislaw Huberman e Nathan Milstein. Già a otto anni ho iniziato a frequentare il teatro e l’opera. Tuttavia la musica strumentale era prevalente. Cantate e oratori erano a quei tempi in Italia di piuttosto rara esecuzione e lo stesso vale per i concerti corali. Non so quindi cosa mi abbia attirato verso la voce come mezzo espressivo. Forse si è trattato dei Lieder che cantava la zia a casa, sebbene non fosse una buona cantante. La voce umana è diventata una fonte di ispirazione in tutte le forme: ho scritto liederistica, cantate, arrangiamenti e composizioni corali. Scrivere per coro mi faceva particolarmente piacere, perché il coro è uno strumento completo, che non ha bisogno di mezzi esterni, perché è il corpo stesso a diventare strumento. Un uomo senza strumenti è capace di produrre musica con il proprio corpo e di dare alla propria espressione un’anima senza bisogno di mediazioni. Questo mi affascina. Per questo mi sono innamorato dei cori. Ho una brutta voce e non ho mai imparato a cantare, così ho fatto cantare gli altri, chi sa cantare, solisti o coro. La musica vocale si lega quasi sempre a un testo e a un senso preciso; da ciò deriva la mia collaborazione con molti poeti, come anche l’utilizzo di lingue e dialetti diversi. Un compositore-linguista non può che sfruttare innanzitutto la lingua. 

Infatti ha sempre dato particolare rilievo alla scelta dei testi da musicare.

La musica vocale ha un legame molto forte con il testo e i compositori possono scegliere di affrontare in questo campo strade diverse. Un compositore con la necessaria sensibilità artistica non può accontentarsi di un testo debole, ma deve cercare e scegliere testi che si adattino alle sue intenzioni espressive. Sono stato sempre molto selettivo e ho cercato poeti che significavano molto per me, a iniziare da Srečko Kosovel. Il mio rapporto con il testo è condizionato anche dalla scelta di lingue e dialetti. Del resto sono un linguista e dialettologo, quindi non posso essere indifferente a queste scelte. Avendo la fortuna di avere padronanza di diverse lingue e dialetti, posso scegliere a seconda dell’atmosfera ricercata. Ogni lingua, ogni dialetto ha una propria espressività, una melodia, un ritmo interno. Nella maggior parte delle mie opere ho scelto testi sloveni oppure italiani. La prosodia di queste due lingue influisce in maniera totalmente diversa sul compositore: per ottenere effetti polifonici devo ricorrere necessariamente all’italiano, perché lo sloveno sarebbe troppo aspro, duro per questo, mentre è più adatto per espressioni corali di carattere solenne. Lo stesso vale per i dialetti; scrivere brani in diversi dialetti è per me un piacere speciale. Attraverso quelle parole rivedo i luoghi, mi ricordo delle persone che in quel dialetto mi parlavano oppure cantavano e rivivo tante realtà locali e umane con elaborazioni artistiche che mi permettono di trasmettere anche agli altri la ricchezza acquisita. 

E la parentesi operistica?

Oltre alla frequentazione del teatro d’opera, ho conosciuto l’ambiente del teatro anche in qualità di autore di musiche di scena. La dimestichezza acquisita con la funzione e il potenziale del linguaggio teatrale mi ha incoraggiato ad accettare l’invito del teatro triestino a scrivere una nuova opera. Sono stati due anni di lavoro che mi hanno dato grande soddisfazione, anche grazie a una proficua collaborazione con la librettista. 

Con l’opera Kačji pastir - La libellula su testo di Svetlana Makarovič ha debuttato nel 1976 al teatro lirico Giuseppe Verdi di Trieste.

Mi aveva invitato il sovrintendente Giampaolo de Ferra, che ha insistito per alcuni anni, finché non gli ho detto: «Perché vuoi rovinarti la carriera invitando uno sloveno a scrivere per il Verdi?». Mi ha risposto: «Ho scritto più volte che sei il miglior compositore triestino, ora voglio dimostrare che lo penso veramente». 

Quali sono i lati positivi e quelli negativi dei suoi interessi enciclopedici?

Alla base di tutto c’è la curiosità, quella qualità che permette all’anziano di conservare qualcosa di giovanile. Finché siamo curiosi, possiamo crescere e svilupparci. In tutti i campi ho vissuto successi e insuccessi, ma questa è la vita. Sono una persona che ha cercato di crescere a piccoli passi e a volte sono stati necessari anni per capire le cose più semplici. 

A quale delle numerose competenze e attività darebbe la precedenza?

È molto più difficile scrivere una valida composizione che un libro di spessore. L’attività artistica è impegnativa. Sono sempre stato un sostenitore del principio che è meglio cessare di scrivere che ostinarsi a scrivere mediocremente. Se non hai più la forza di crescere, inizi a ripeterti e quindi è meglio tu smetta. 

Ha annunciato che il suo ventesimo libro verrà pubblicato postumo.

È una mia precisa volontà, trattandosi di un’autobiografia nella quale esprimo considerazioni piuttosto critiche. L’ho scritta in italiano. Roma è sempre stata più sensibile alla mia attività rispetto a Ljubljana, anche a livello editoriale. Anche la mia ultima composizione è stata scritta su proposta di un amico italiano. Si tratta del brano per coro di voci bianche e flauto dal titolo Il silenzio. Un titolo profetico. 

Cosa ha rappresentato la musica nella sua vita?

Direi, senza tanta retorica, che la musica è essenzialmente un linguaggio e come ogni altro linguaggio serve per dire qualcosa. L’ampiezza e la qualità dell’espressione dipende da chi la usa, da quello che deve dire.

Quando un compositore raggiunge l’apice della propria carriera? 

È un fatto molto personale che dipende da vari fattori. Alcuni danno il meglio di sé all’inizio per poi diventare noiosi e ripetitivi in seguito, altri durante la maturità o addirittura la vecchiaia, rarissimi durante l’intero percorso artistico. Ho sempre avuto timore dell’invecchiamento perché speravo di poter scrivere fino a quando avessi avuto la sensazione di crescere. Per questo negli ultimi decenni sono diventato particolarmente autocritico: la malattia mi ha colpito fisicamente e psicologicamente fino a tal punto, da dover accettare la fine della mia crescita artistica. Ho preferito smettere piuttosto che eliminare tutti i brani, come facevo da giovane. Ripensando alla mia attività, posso dire che la necessità di accettare e superare la morte di mia moglie mi ha indotto a cercare nuovi contenuti: piuttosto che la morte, la mia musica ha iniziato a riflettere il sole, la luce, la pace interiore e penso di essere riuscito a scrivere qualcosa di buono.

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Conversazione tratta da interviste realizzate tra il 2007 e il 2014 da: Luisa Antoni, Roberto Dedenaro, Poljanka Dolhar, Katja Kralj, Breda Pahor, Rossana Paliaga, Jernej Šček e pubblicate sui quotidiani, periodici e siti: Novi Glas, Primorski dnevnik, Il Piccolo, MMC RTVSlo
(si ringrazia autori e redazioni per la collaborazione)

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