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Schegge di eternità:
intervista a Giuseppe Di Bianco

di Ciro Visco
Dossier compositori, Choraliter 59, settembre 2019

Caro Giuseppe, vorrei iniziare questa conversazione con una curiosità biografica. Sei nato a Napoli e risiedi stabilmente in Costiera amalfitana, uno dei luoghi più belli d’Italia. Che rapporto hai con la tua terra, le tue origini?

Un legame di forte appartenenza. Di questa terra amo l’incredibile melting pot di culture, energie, influenze eterogenee: araba, greco-latina, bizantina, spagnola, francese… Nella pluralità di queste voci ho sempre percepito il segreto di una ricchezza enorme. Mi piace pensare che anche la musica sia figlia di questa energia creatrice, così ricca di influssi e contaminazioni. E tu, da napoletano, puoi comprendere il sentimento di intima appartenenza che ci lega a queste comuni radici.

Lo comprendo assolutamente. Vorrei che mi raccontassi qualcosa della tua formazione musicale, con particolare riferimento al tuo amore per la composizione corale, visto che la tua scrittura mi sembra nettamente orientata su questo fronte. Cosa ci puoi dire?

In famiglia ho respirato musica sin da piccolo. Mio nonno paterno era un pianista, attivo a Buenos Aires agli inizi del secolo scorso. Aveva lasciato l’Italia per Argentina nel 1902, studiando con Luigi Romaniello, allievo di Beniamino Cesi. Conservo ancora un’infinità di suoi spartiti. Da piccolo ritrovavo fughe di Bach fra tanghi e milonghe argentine, opere di Verdi e Puccini tra ragtime degli anni Venti. Sono cresciuto leggendo e curiosando tra queste sollecitazioni, così eterogenee. In particolare l’approccio con le opere del belcanto fu una vera folgorazione nella mia sensibilità di ragazzo. Forse a questo riconduco l’amore ancestrale per il canto e la vocalità. Mi chiedevi della composizione. In realtà ho iniziato a comporre successivamente, come arricchimento del mio iter accademico. La mia educazione musicale, tuttavia, era già immersa nel canto corale: negli anni dell’adolescenza curavo l’animazione della liturgia e ho diretto un ensemble vocale che mi consentiva di sperimentare pagine di Palestrina o Gesualdo, piuttosto che le chanson più impegnative di Janequin. I risultati erano spesso acerbi; ma, a posteriori, credo sia stata una formidabile palestra di apprendimento.

Sicuramente, come tutti, avrai avuto delle figure di riferimento, nel tuo percorso di studi musicali. Quali?

Potrei citarne tante, ma la gratitudine più profonda va a Enrico Buondonno, mio primo maestro di armonia e contrappunto: allievo di Refice, Casimiri e Achille Longo, illustri personalità musicali del suo tempo. Il suo rigore didattico, la stima e il profondo rapporto umano, con il passare degli anni, si sono fusi nella mia coscienza in un’unica immagine che continua a esercitare in me un benefico influsso. Un vero padre spirituale, prodigo di consigli e di premure, soprattutto negli anni della mia piena maturità. La sua scomparsa, nel 2001, ha lasciato un vuoto profondo. Ha scritto moltissima musica sacra e liturgica e sarebbe bello contribuire a un’analisi e maggiore divulgazione della sua opera.

È bello il ricordo che tratteggi di Buondonno, figura significativa per la composizione sacra e liturgica. Nelle note biografiche, leggo anche di tuoi percorsi di studio con compositori (Manzoni, De Pablo, Sciarrino) che per estetiche e scelte musicali viaggiano in direzioni diametralmente opposte. Come hai contemperato queste formazioni diverse e, anche, come valuti la scrittura corale alla luce degli stilemi della contemporaneità? 

Buondonno è stato un formidabile didatta, con un atteggiamento di estremo rigore per la composizione sacra. Il suo mondo e la sua estetica erano comprensibilmente conservatori, per la formazione e il contesto culturale di appartenenza. Parlava con una certa insofferenza di serialità e sperimentalismi, e per certi aspetti ricordava lo sgomento di Rossini quando, in Un petit train de plaisir comico-imitatif descrive tra l’ironico e il terrorizzato la realtà “tecnologica” di un treno a vapore. La mia necessità di tipo esplorativo, tuttavia, non poteva precludermi l’approccio alle istanze della musica contemporanea, pur rifuggendo l’idea di sperimentalismi fini a se stessi, spesso trappola di inconcludenti autoreferenzialità. Oggi si parla tanto di “eseguibilità” dei brani corali quale conditio sine qua non per la spendibilità e l’inserimento in programmi da concerto. Molti direttori appaiono spesso disorientati dalla sfida con partiture più audaci. In realtà ci sono brani di musica corale contemporanea che, concepiti bene, sono assolutamente avvincenti. La tecnica è solo questo, un mezzo. Senza contenuti la composizione resta un contenitore vuoto, insulso. A volte capita di leggere o ascoltare partiture sperimentali che lasciano totalmente indifferenti. Il che è piuttosto triste. Eppure è difficile trovare qualcuno che lo dica a chiare lettere. Persino tra i critici vige la legge di Giulio Carlo Argan: «Non dire “non mi piace”. Di’ piuttosto: “Non lo capisco”».

Hai parlato di scrittura. Qual è il tuo approccio compositivo?

Non ho un rapporto di pura immediatezza nella scrittura. Vivo l’atto creativo come una gestazione, una parto mentale, fatto di continui ripensamenti e rimaneggiamenti. La pagina prende forma come un puzzle, di cui all’inizio intravedo una velata coerenza generale, ma ogni tassello deve trovare una logica collocazione spazio-temporale, prima di un assetto definitivo. I lavori su commissione e l’angoscia di consegna in tempi rigidissimi possono trasformarsi in assillo frenetico, una vera e propria sciagura. Non mi considero un compositore prolifico, ma non lo ritengo un limite, né mi pongo il problema della quantità numerica di lavori portati a termine in un anno. Vedi, una pagina bianca è una sorta di muro immacolato, che cela però un senso di sgomento. Un regno del futuribile, un compendio di possibilità in fieri: qualcosa di estremamente affascinante, ma nel contempo anche vago e oscuro.

Le tue composizioni corali conoscono sempre maggiore diffusione e apprezzamento e sono eseguite da molti gruppi italiani, ma anche all’estero. Ci sono tuoi brani a cui ti senti maggiormente legato? E, da compositore, quale rapporto instauri con gli interpreti della tua musica? 

Sì, alcune composizioni – tra tutte, Angele Dei, In pace, In Laude – hanno ricevuto ottime esecuzioni in Italia e all’estero, tra Francia, Slovenia, Polonia, Russia, Stati Uniti. In realtà per me non fa molta differenza dove questo avvenga. Il miglior complimento resta il sentirsi dire: «amiamo eseguire ciò che scrivi». Molte collaborazioni sono nate del tutto inaspettate, ma quando ciò accade è sempre una felice “epifania”, in senso joyceano. Di recente ho conosciuto un gruppo russo, l’Academic Mixed Choir Vasiliev di Velikj Novgorod e il loro direttore Yury Nikivorov, al Cracovia Cantans Festival, dove hanno vinto il Grand Prix cantando due mie composizioni. Ho scoperto, con grande sorpresa, che avevano quei due brani in repertorio già da tre anni. Questo è l’aspetto più bello: creare interazioni osmotiche, confronti dialettici che giovano a entrambi. Il compositore può offrire la sua visione del brano, ma spesso gli interpreti possono sorprenderti con chiavi di lettura diverse, talvolta persino più funzionali. Del resto una partitura musicale non è una serigrafia; è un organismo vivo, suscettibile di una pluralità di letture. “Carta da suono”, per riprendere una felice immagine di Sciarrino. Con alcuni gruppi, certo, si costruiscono rapporti artistici che si consolidano nel tempo in belle amicizie. Mi è capitato con gli UPSA (University of the Philippines Singing Ambassadors), che conosco da oltre quindici anni. In Italia, a Dario Tabbia e il suo Coro da Camera di Torino devo la fortuna di In pace, brano commissionato e opening track di un loro pregevole progetto discografico, Made in Italy, con composizioni di autori italiani contemporanei.

Pensi che il nostro Paese dia adeguato spazio alla creatività di compositori italiani di musica corale?

In Italia si sono fatti passi da gigante. Nei principali concorsi corali, da Arezzo a Vittorio Veneto, si nota una crescente attenzione al repertorio di autori italiani contemporanei. Le piattaforme e i canali online, in tal senso, hanno favorito lo scambio e la circolazione dei materiali, agevolando richieste e commissioni grazie a visualizzazioni sul web. Di certo non è facile trovare una propria collocazione in questo ambito. Un paio di anni fa il progetto Feniarco Officina Corale del Futuro ha dato la possibilità a molti compositori italiani (io stesso sono stato coinvolto) di cimentarsi nella creazione di un nuovo lavoro, in collaborazione con i cori giovani regionali. Un’idea illuminata, direi. 

La scelta di un testo da musicare per un compositore costituisce un elemento fondamentale. In linea generale, con che criterio scegli un testo?

La scelta di un testo è fondamentale perché la parola, intrinsecamente, è già suono. Solitamente ho un rapporto istintivo, quasi epidermico: se qualcosa mi provoca una sollecitazione emotiva forte, sono già certo che potrò lavorarci musicalmente, in maniera creativa. A volte mi capita anche di ritornare su cose lette in precedenza e di scoprirne valenze nuove. Di recente, ad esempio, sono tornato a testi di mistici e alla poesia del periodo modernista, con occhi nuovi. Pensa a The Waste Land di Eliot. Scritto quasi cento anni fa, è un testo sorprendentemente attuale: una fotografia lacerante dei malesseri e dell’aridità spirituale del nostro mondo contemporaneo. 

Trovo la tua musica fortemente connotata da una matrice spirituale. Perché la musica corale contemporanea, anche la tua, mantiene una forte ispirazione sacra? 

Mi fa piacere che tu lo dica, perché la musica che scriviamo parla inevitabilmente di noi. Probabilmente la ricerca di spiritualità riflette la mia esigenza di percorsi di esplorazione e riflessione interiore. Il linguaggio musicale è un mezzo per esprimere quel che siamo. E l’atto della scrittura è un processo di conoscenza perenne, alla scoperta di te stesso, dei tuoi bisogni, dei tuoi mondi interiori. L’orientamento di molti compositori di musica corale contemporanea (penso a Pärt, Tavener, Gorecki e molti altri) è intriso di profondo misticismo e testimonia un legame profondo tra musica e spiritualità. Le loro esperienze sono la misura di una musica capace di parlare delle nostre affezioni e passioni, della nostra ansia d’infinito, in modo non anacronistico rispetto all’esperienza contemporanea. Mi piace pensare che tutto ciò risponda a una necessità di confrontarsi con l’atto della scrittura interiorizzandola, alla ricerca dell’irrisolto enigma dell’origine e la domanda della destinazione. Vivendola con la percezione di noi stessi quali schegge di eternità, Esseri di Luce che travalicano la soglia del materico.

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