Devo ringraziare Sarah, la sorella londinese, se questo progetto mi è capitato tra le mani in un giorno di inizio marzo, l’ennesimo passato col telefono all’orecchio a metter croci rosse sull’agenda. Era ancora la fase in cui mi lagnavo delle mie quattro prove a settimana saltate, prima che la Lombardia implodesse e al dispiacere subentrasse la paura.
Non sono una cantante, sono una corista. In quel momento ciò che più mi mancava non era cantare, ma piuttosto sentirmi parte di qualcosa e Stay at Home Choir me l’ha permesso. Non solo sono entrata in contatto con musicisti e appassionati di qualsiasi età, sesso e nazionalità, ma ho avuto immediatamente la sensazione di essere stata accolta in una vera e propria comunità musicale. Nessuna barriera, nessun giudizio, nessuna pretesa.
È parso chiaro fin da subito quanto i fondatori, Tori Longdon e Jamie Wright, tenessero all’inclusività: innanzitutto hanno voluto mantenere il tutto completamente gratuito per i partecipanti, nonostante l’enorme lavoro che un progetto così ambizioso implichi; hanno inoltre fornito qualsiasi tipo di materiale che potesse facilitare lo studio delle parti ai coristi meno autonomi.
Ho apprezzato moltissimo il modo in cui è stato gestito il rapporto con i grandi che hanno collaborato. I membri dei King’s Singers, ad esempio, hanno condiviso con noi le loro nuove routine da quarantena attraverso video che sono stati pubblicati sulle pagine social della community. Per il progetto successivo sono stati persino organizzati dei webinar con The Sixteen e James MacMillan per porre loro domande e provare il brano che sarebbe stato poi registrato. Insomma, è stato fatto di tutto per farci sentire vicini e uniti.
E per quanto la parte più importante di un’esperienza simile sia il making of più che il prodotto finale in sé, è stato difficile rimanere indifferenti di fronte a un video del genere. Il desiderio, inizialmente così forte, di rintracciare a tutti i costi il mio piccolo quadratino tra i più di settecento è finito in secondo piano non appena ho iniziato a riprodurre il video. Non so se sia stato a causa di And So It Goes, del colpo d’occhio suggestivo, o forse di quanto fosse realmente cambiata la mia (nostra) vita rispetto a quando mi ero registrata.
Improvvisamente ciò che davvero desideravo in quel momento era conoscere la storia di ciascuno di quei settecento e passa quadratini che come me avevano sentito un bisogno viscerale di musica, di calore, di coro. A sanctuary safe and strong / to heal the wounds.