Lei stessa definisce la sua attività in più modi, classificando le sue collaborazioni con i cori come motoric coaching and conducting (allenamento motorio e direzione). La sua missione non è soltanto stimolare i coristi e i loro maestri a una presa di coscienza esperienziale delle connessioni tra canto e movimento, ma anche riflettere sull’azione performativa del coro durante un concerto, sapendo bene che un concerto corale presuppone una fruizione uditiva ma anche visiva. Da qui il concetto di “mettere in scena la musica corale” (staging the songs), attività che Panda realizza dopo una propedeutica estremamente dettagliata e coinvolgente, che è stata l’oggetto del seminario in questione.
Attraverso anni di esperienza, di incontri e collaborazioni con numerose realtà corali in tutto il mondo, il lavoro di Panda è diventato poco per volta un metodo, organizzato in step successivi, ciascuno con un’ampia gamma di esercizi ed esperienze. Questo materiale è stato da lei raccolto in due saggi (di cui il secondo di recente pubblicazione) sulla cosiddetta choireography. Panda spiega che si tratta di adattare il significato di coreografia alla musica corale, alle reali necessità dei cantori e alle possibilità espressivo-motorie che un coro può mettere in gioco per rinforzare e ampliare i contenuti musicali, oltre che per migliorare l’emissione vocale. La choireography è a tutti gli effetti non solo una strategia per “mettere in movimento un brano corale” ma anche una tecnica basata su precisi esercizi che Panda ha potuto sperimentare durante il nostro stage, per poi applicarlo al coro laboratorio con cui ha lavorato per due sere consecutive, i SingersOnStage di Torino.
La nostra performance artistica (ma a ben pensarci anche la nostra motricità nella vita quotidiana) dovrebbe basarsi sulla predominanza di quello che Panda chiama the motor, cioè la parte del nostro corpo che contiene gli organi vitali: il busto e la testa (intesa come cervello, che deve sempre essere in connessione col corpo). Spesso chi si muove sul palco lo fa facendosi guidare da gambe e braccia, invece che interiorizzare il movimento per farlo sempre partire dal centro del proprio corpo. Le estremità non possono guidare, così come non vorremmo che un gregge si muovesse comandato dalle pecore. Se il corista impara a gestire il proprio movimento sul palco facendolo scaturire dal centro (quello che Panda definisce the core of the body) anziché affidarlo ai movimenti un po’ esteriori e spesso solo artificiosi delle estremità, ne trarrà beneficio la performance coreografica, ma anche la resa vocale. Il modello visivo a cui fare riferimento è senz’altro quello dell’uomo vitruviano leonardesco, nel quale le braccia e le gambe sembrano quasi convergere verso il centro vitale dell’essere umano, il motore di cui abbiamo parlato.
Tutta la proposta didattica e artistica di Panda procede con esercizi di gruppo nei quali il contatto fisico e la conseguente relazione emotiva tra i coristi sono aspetti sempre presenti; l’intento è allenare il corpo, la mente e la voce a collaborare, in base all’assioma per cui «un corista sarà ancora più espressivo se avrà praticato la musica anche a livello fisico e motorio, sia che in seguito realizzi un brano in forma coreografica, sia che non lo faccia».
Per raggiungere tale obiettivo una gran parte del lavoro di Panda si sofferma su esercizi ed esperienze che stimolino i tre parametri fondamentali del suo metodo: energia, concentrazione e focus. In particolare Panda definisce quest’ultimo come il saper utilizzare i propri occhi per guardare davvero, con un’attenzione sempre vivace e puntuale su ciò che si sta facendo. Nella pratica corale sappiamo quanto sia importante tener conto dello sguardo mentre si canta; «la voce va dove va lo sguardo», sostengono molti docenti di canto e in questo la pratica teatrale (cui il lavoro di Panda si accosta in moltissime fasi del suo lavoro) viene senz’altro in aiuto.
Lavorare con Panda al raggiungimento di questi parametri significa trovarsi immersi in una sessione di attività fisica-musicale di alcune ore, con costanti cambiamenti di ritmo, con stimoli sempre nuovi, con giochi che attingono alla dimensione della danza, a quella del teatro, dell’improvvisazione, persino al sumo, al pilates o allo shiatsu, con continue alternanze tra esercizi al massimo della velocità e momenti di stasi e interiorizzazione, tali per cui il corpo diventa uno strumento di espressione musicale anche per i meno abituati al lavoro fisico tipico di un ballerino o di un attore teatrale.
Nel praticare le numerose proposte di attività di Panda, che ci hanno visti alternare continuamente il lavoro in gruppo, a coppie o individuale, non abbiamo potuto non constare la similitudine con due approcci metodologici storici: uno è la biomeccanica di Mejerchol’d, cioè quel tipo di propedeutica fisica ed emotiva svolta in numerose accademie teatrali, in cui il corpo è iper-stimolato per poter essere consapevolmente controllato dal performer e di conseguenza creativamente liberato; la seconda è il metodo Jaques-Dalcroze, nato a fine Ottocento come solfeggio per strumentisti da praticarsi attraverso la danza, che condivide con la pratica di Panda soprattutto i cosiddetti esercizi in follow, cioè quei giochi in cui l’effetto sorpresa è costante e nei quali l’allievo (nel nostro caso, il corista-performer) deve interpretare col corpo indicazioni che variano di continuo, talvolta con effetti anche esilaranti, ma estremamente liberatori dal punto di vista energetico e creativo.
Il lavoro di Panda non è soltanto un allenamento attraverso esercizi; uno dei momenti più preziosi è stato vederla applicare il suo metodo con un coro laboratorio per mettere in scena il proprio repertorio. Abbiamo potuto osservare la choireography passare da metodo a espressione artistica, ammirando la capacità creativa di Panda. Per un corista abituato a cantare da fermo potrà essere senz’altro un gran cambiamento e, come dice anche la direttrice dell’Aarhus Pigekor Helle Høyer Vedel, con cui Panda collabora da alcuni anni, «all’inizio la parte musicale può senz’altro patirne. Tuttavia con la pratica e la giusta coordinazione il coro raggiungerà risultati evidenti e un notevole incremento delle potenzialità espressive».
«Ah, un coro che fa musical? Che bello! E cosa cantate, Grease? Notre-Dâme de Paris? Io adoro Il Re Leone: Aaaaa-singognaaaa!!!…».
Queste sono le prime cose che mi sentii dire quando raccontai, a musicisti e non, della mia volontà di far incontrare la pratica del canto corale con il genere del musical, che in Italia non ha ancora la diffusione che meriterebbe. In effetti quando si pensa al musical viene in mente uno show di puro intrattenimento, spesso di ispirazione disneyana. E il musical, o come dovremmo più correttamente definirlo musical-theatre, è in effetti anche quello. Ma non solo. Per lo meno, non nei Paesi anglosassoni, dove il genere ha da sempre un pubblico fedele e molto numeroso che va a teatro (dalla più piccola stagione teatrale di provincia al più rinomato cartellone del West End o di Broadway) a vedere indifferentemente musical e prosa, secondo un’abitudine che permea anche molta della didattica scolastica: cantare, ballare e recitare sono attività abituali nelle scuole di ogni ordine e grado.
In questa pratica culturale il peso maggiore, nel binomio musical-theatre, l’ha senz’altro il secondo termine, teatro, in Italia spesso trascurato anche da chi i musical li insegna o li produce. A ben vedere è proprio questo termine che ha stimolato la mia curiosità nel cercare di formare un ensemble corale che si dedicasse al musical: i SingersOnStage. Con questo gruppo proviamo, da qualche anno, a sviscerare la dimensione del musical-theatre secondo tre direzioni.
Chiunque canti, a mio parere, che si tratti di un solista o del più numeroso degli ensemble corali, è attore in scena. Che lo voglia o no. Un coro che pratica il musical-theatre non si esibisce semplicemente in estratti da musical famosi, ma approfondisce aspetti come la presenza sul palco, la posizione e i movimenti degli interpreti, le narrazioni che possono creare collegamenti tra i brani, così da ampliare il rapporto tra musica e parole. I SingersOnStage, che riuniscono oggi circa venticinque cantori (di cui solo pochissimi con reali competenze teatrali o coreografiche), hanno iniziato lo scorso giugno una collaborazione con Panda van Proosdij, nel cui metodo abbiamo riscontrato molta affinità con i nostri intenti: non tanto riproporre i musical così come sono, bensì elaborare azioni sceniche ispirate al rapporto tra testi e musiche, potendo così sia aggiungere un significato più profondo al brano eseguito, sia rendere i coristi più a proprio agio nel rapporto con il pubblico e con il palcoscenico. Nella mia personale pratica didattica con i gruppi corali con i quali mi è capitato di fare seminari di approfondimento sul musical-theatre, ho cercato di fare tesoro di questo approccio: staging of the songs, come lo definisce Panda (in italiano, letteralmente, “la messa in scena dei canti”), che a ben vedere può diventare strumento utile come approfondimento di tutto il repertorio corale, antico e contemporaneo.