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Il suono del tempo
La cappella musicale

di Cesare Marinacci
dossier "Le cappelle musicali", Choraliter 54, gennaio 2018

Alle origini della ritualità cristiana è il suono a essere protagonista, non un suono ancora organizzato e scolpito in forme, ma giovane suono innocente e genuino che riecheggia le normali inflessioni del parlato, o meglio, che si incarna in un idioma e ne rafforza alcune tonalità, la cui funzionalità era la sua ragion d’essere intrinseca e nativa. Le testimonianze, pur carenti ed esclusivamente letterarie, sulla musica nelle prime comunità cristiane, come la celebre descrizione di Plinio il Giovane nella Epistula ad Traianum X del II secolo, riconoscono una grande funzione edificante e sociale al canto ed evidenziano l’invito a praticarlo collettivamente, con buona disposizione d’animo e interiorità.

Dopo il riconoscimento della religione cristiana da parte di Costantino il Grande e la fine delle persecuzioni, il passaggio del rito dalle case a luoghi di culto pubblici influisce radicalmente sull’aspetto sonoro: con lo sviluppo crescente della ritualità, alla semplicità originaria vengono sovrapponendosi diversi elementi, in quanto una liturgia specifica richiede ambiti più definiti per le manifestazioni espressive che a questi devono uniformarsi. In epoca patristica il culto si identifica indissolubilmente con il canto che par sbocciare come amplificazione fonica del messaggio spirituale e dunque istintivamente a quello si conforma negli accenti e nella forma mentre vi è diffidenza verso il suono strumentale visto come un richiamo pagano; d’altra parte solo il canto permetteva di esaltare la parola di un rito che doveva comunque essere dominato da una partecipazione intelligente e non obnubilata nei sensi, una visione anche agostiniana. Il semplice connubio canto-parola trovava, in principio, un suo naturale equilibrio, mentre in epoca medievale la liturgia si fa più complessa e così la sua sonorizzazione che spesso non coinvolge più direttamente l’assemblea diventando appannaggio di specialisti. 

La fioritura più ricca in questo periodo si diffonde dal mondo greco-orientale: nella chiesa bizantina all’epoca dell’imperatore Giustiniano (482-565 d.C.) il santuario di Santa Sofia aveva venticinque cantori e oltre cento lettori. Il coro era guidato dal protopsaltes, il primo cantore, che utilizzava una tecnica chironomica per l’esecuzione dei canti. Se in occidente non appaiono testimonianze certe dell’esistenza di gruppi corali istituzionalizzati nei primi tre secoli dell’era cristiana, verso la fine del IV secondo l’opinione del musicologo Joseph Gelineau, in centri di particolare importanza si affianca all’assemblea come sua espressione elitaria, il gruppo guida dei cosiddetti “monaci residenziali”. 

Il canto dunque raggiungeva una tale importanza rituale nell’intero calendario liturgico da far supporre la nascita di gruppi corali organizzati e specializzati fin dal IV-V secolo; in particolare il Liber Pontificalis attribuisce a Papa Silvestro I l’istituzione di una prima Schola Lectorum specializzata nella cantillazione delle letture, inoltre cita come particolarmente sensibili all’argomento i papi Damaso (366-383) e Gelasio (492-496) prima di arrivare ovviamente alla celebrata figura di Papa Gregorio Magno: egli fa propria la citata visione etica della musica e appare non casuale che, come tramandato dalla tradizione, egli abbia inviato per l’evangelizzazione dell’Inghilterra nel 597 oltre ai monaci alcuni cantori. Se poi accettiamo la consuetudine che la teoria è una sistematizzazione della prassi dobbiamo lecitamente immaginare che Gregorio Magno, influenzato anche dal citato modello bizantino, abbia gradualmente sistematizzato una pratica che si confermerebbe avviata da almeno due secoli istituzionalizzando un gruppo stabile di cantori specializzati per le solenni liturgie pontificie: la Schola Cantorum. Fanciulli dotati di qualità musicali venivano tempestivamente reclutati e istruiti nelle arti liberali e nella musica secondo un curriculum studiorum di ben nove anni durante i quali potevano anche accedere agli ordini sacri. Erano ammessi in un numero oscillante tra quaranta e ottanta vivevano in due sedi: una presso l’antica Basilica di san Pietro, l’altra presso la Basilica di San Giovanni in Laterano, ed erano affidati per essere istruiti a sette cantori ecclesiastici adulti. 

In ordine di funzioni e importanza stavano il Primicerius o Magister, dignitario papale di alto grado cui spettava l’istruzione e la conduzione del coro, gli altri, suddiaconi e canonici, erano il Secundicerius, il Tertius Scholae e l’Archiparaphonista, preposto ai fanciulli cantori, infine c’erano i tre Paraphonisti che si occupavano come specialisti dell’esecuzione in particolari occasioni delle parafonie, ossia raddoppi alla quarta o quinta delle melodie principali al fine di arricchire fonicamente la celebrazione, una prassi passata alla storia col nome di Organum. Dunque la Schola Cantorum risponde a quella necessità, conseguente allo sviluppo della ritualità, di una sempre maggiore interconnessione e specializzazione dell’elemento musicale.
Anche il grande enciclopedista Sant’Isidoro di Siviglia (570-636) ci tramanda significative testimonianze della pratica musico-liturgica, come l’immagine della disposizione dei cantori a forma di corona da cui il nome coro e specificando che benché non ci fosse una regola precisa la compagine era composta in media da una decina di specialisti facendo intendere come questi fossero di guida all’assemblea cantando con essa in alternanza e sostenendo le parti più elaborate del rito cantato

Con tale archetipo e alcune varianti il modello della Schola Cantorum si diffonde ben presto presso cattedrali e monasteri – da citare in particolare l’organismo simile voluto da Carlo Magno ad Aquisgrana e organizzato come Schola Palatina da Alcuino – divenendo l’istituzione musicale più prestigiosa e qualificata del medioevo, presiedendo alla formazione e diffusione di quello straordinario repertorio di canto liturgico conosciuto come “gregoriano”, nonché alla sperimentazione sulla nascente pratica polifonica sviluppatasi intorno all’anno Mille. È infatti sulla citata tecnica della parafonia che si innestano esperienze come quella della scuola di Notre-Dame a cavallo tra il XII e XIII secolo, evoluzione della precedente Schola Cantorum vescovile presente prima della costruzione della cattedrale iniziata nel 1163: basti ascoltare alcune elaborazioni polifoniche del maggior esponente, Magister Perotinus, come il Sederunt Principes per notare l’enorme espansione sonora delle forme liturgiche e una semiotica costantemente in evoluzione. L’esecuzione delle composizioni a più voci pertanto presentava difficoltà progressivamente rilevanti che solo complessi formati da “cantori professionisti” erano in grado di affrontare.

Il declino della Schola Cantorum come originariamente concepita dunque inizia in questo frangente e culmina nel periodo della Cattività avignonese, l’apice dello scontro tra papato e impero culminato con il trasferimento forzoso della sede papale ad Avignone fino al 1377. Proprio ad Avignone, e proprio mentre appare la bolla Docta Sanctorum Patrum Auctoritas, che rivendica l’importanza della tradizione, prende invece corpo un nuovo organismo per le celebrazioni papali che va a sostituire con nuove funzioni rispondenti anche a mutate esigenze storiche e culturali l’antica Schola Cantorum, la Cappella Musicale. 

Il termine “cappella” trae origine dal luogo ove i re merovingi conservavano la cappa di San Martino e indica dunque un piccolo luogo di culto particolare separato o annesso a complessi maggiori come una cattedrale o un palazzo signorile; il fervore religioso dei secoli XIII e XIV, la maggiore devozione per le reliquie di santi importate dai pellegrinaggi d’oriente e il nuovo mecenatismo delle famiglie nobili e delle varie corporazioni, che desideravano avere un loro luogo d’onore all’interno degli edifici religiosi portarono a una novità nella pianta delle chiese gotiche, mai più abbandonata in seguito e cioè alla creazione di cappelle nei fianchi dei templi spesso trasformate col tempo in veri musei d’arte. Dunque il termine specifico “Cappella Musicale” designa una assemblea di musicisti al servizio d’una chiesa, d’un sovrano o di un casato nobiliare e deriva dalla consuetudine degli artisti di ritrovarsi, per l’esercitazione e per l’esecuzione, in una determinata cappella ecclesiale o palatina. Inizialmente e soprattutto in ambito sacro-liturgico è un organismo fondamentalmente vocale – da cui la locuzione “canto a cappella” per indicare un repertorio senza accompagnamento strumentale – in seguito, soprattutto con la diffusione delle cappelle signorili e l’influsso dello stile barocco, della cappella entreranno a far parte anche strumentisti specializzati fino a designare con tale termine nel ’700 anche compagini essenzialmente strumentali.
La contesa per il potere che contrassegna il XV secolo prende la forma dei numerosi concili talvolta alla presenza di più “Papi”: da quello di Cividale del 1409 a quelli di Pisa e di Costanza fino a quello conclusivo di Basilea nel 1445. Ai concili i Cardinali sono accompagnati ciascuno dalla sua piccola corte, un gruppo di sacerdoti, chierici e laici che adempiono a diverse funzioni, rituali, di segreteria, diplomatiche, ed anche musicali. Sono questi personaggi, di diversa provenienza e tradizione – italiana, francese, fiamminga, spagnola… – “cappellani” del Cardinale da cui la sua incipiente “Cappella Musicale”. È questo un momento cruciale, perché è sulla base delle competenze musicali in senso specifico che avviene spesso l’assunzione di un cappellano come cantor o come magister cantus

La vita di alcuni musici del tempo e il loro errare da una sede all’altra sembrano indicare non solo la ricerca di un impiego più o meno prestigioso ma la sistemazione in luoghi che avessero una “cappella musicale” in grado di poter sfruttare le differenti competenze. Una cappella musicale nasce dunque quando si realizzano i presupposti, culturali, storici economici e politici, per la sua costituzione. All’inizio del XV secolo troviamo quelle dei cardinali e una volta che non sia più messa in discussione la sua autorità, quella del Papa stabilmente a Roma. 
La fondazione delle principali cappelle italiane è susseguente alla pace di Lodi del 1454 rivolta alla nascita di un sistema di stati italiani per la conservazione dell’equilibrio territoriale e riverbera quel codice diplomatico che si instaura tra le principali elites italiane il quale si declina attraverso le manifestazioni di potere e prestigio attraverso le arti. Urbano V dopo aver soppresso il 13 giugno 1370 ciò che rimaneva dell’antica Schola Cantorum, al suo definitivo rientro trasferisce la cappella formatasi in Avignone all’inizio del ’300 portando con sé alcuni maestri fiamminghi e francesi esperti nel complesso contrappunto allora in voga che costituirà il repertorio d’elezione, relegando gradualmente l’antica monodia a un ruolo gregario e definendo, già all’inizio del ’400, un modello che sarà ben presto imitato presso le più importanti corti d’Europa.

Centri di formazione famosi per la perizia dei loro cantori e compositori furono, dalla seconda metà del secolo, le cappelle musicali delle Fiandre e in particolare quella di Borgogna che coi suoi ventiquattro cantori fu assegnata al servizio itinerante di Carlo V, trasformandosi nell’influente Capilla flamenca concorrente persino della prestigiosa e antica Cappella Spagnola. Anche l’Italia vede a capo delle sue maggiori cappelle illustri compositori fiamminghi come Guillaume Dufay, prima al servizio della cappella papale nel 1428, poi di Amedeo VIII di Savoia, Jacob Obrecht a Ferrara, Adriano Willaert, prima a Roma e a Ferrara, poi a Venezia sino al 1562. 

Il massimo compositore dell’epoca infine Josquin des Près – prima cantore alla corte degli Sforza a Milano nel 1472, a Modena nel 1499 e a Ferrara nel 1513 – dal 1486 al 1494 dà vita a una feconda tradizione a Roma al servizio di quella cappella papale già riprogettata da Martino V e definitivamente istituita da Sisto IV, con la Bolla del 1 gennaio 1480, come cantoria stabile per le funzioni del Papa, a cui era stata preparata dal 1473 una degna sede nella omonima “Cappella Sistina”. Nel contempo Sisto IV istituì anche il nucleo di una nuova cappella presso San Pietro che prese poi il nome di “Cappella Giulia” quando il papa Giulio II ne sancì la definitiva costituzione nel 1513, con dodici cantori adulti, dodici fanciulli e due magistri. A queste si aggiungano la Cappella di Santa Maria Maggiore nel 1545, costituita dal Cardinale Guido Ascanio Sforza e detta anche “Liberiana” – in onore di Papa Liberio cui si attribuisce nel 366 l’edificazione dell’antica Basilica – e la “Lateranense” sul nucleo di quella Schola Cantorum risalente a Gregorio Magno e si avrà il panorama delle quattro principali cappelle romane giunte fino ai nostri giorni.

In Italia un altro influente e pionieristico esempio di similare istituzione risale alla Padova del XIII, guidata nel tempo da personalità come Johannes Ciconia, Marchetto da Padova e più tardi da Rufino Bartolucci, con il quale videro luce i primordi del futuro stile policorale veneziano. Come l’organico dell’antica Schola Cantorum era maschile, anche quello polifonico vocale, soprattutto in ambito sacro, rispecchia la stessa tradizione: a quattro parti con le più acute affidate a falsettisti o fanciulli secondo il modello fiammingo, una consuetudine che si manterrà fino al Barocco quando entrerà nell’uso anche la voce degli evirati fino al tardo Ottocento. La nascita e la diffusione di quel composito organismo che è la cappella musicale rientra dunque tra le conseguenze di quel fenomeno rifiorito in particolare tra XV e XVI secolo noto come “mecenatismo”. La sovvenzione delle manifestazioni dell’ingegno e dell’arte svolgeva per le casate nobiliari una duplice funzione, una di tipo “istituzionale” e una definita genericamente di tipo “umanistico”. Il mecenatismo istituzionale era volto all’ostentazione di prestigio e potere in situazioni ufficiali, come incoronazioni, nozze e vari eventi diplomatici; quello che definiamo “umanistico” era più orientato al diletto e al gusto per la bellezza in sé quale veicolo di personale crescita etica, come insegnava la Politica di Aristotele e più tardi ribadiva Baldassar Castiglione nel Cortegiano.
Repertorio privilegiato del mecenatismo di tipo istituzionale era quello più strettamente collegato alla solennità simbolica della musica sacra. Si pensi come esempio alla figura proprio di Josquin, al servizio di Ercole I per l’ingente somma di 200 ducati – ancor più sorprendente se si consideri la consueta parsimonia del Duca, lamentata perfino da Ludovico Ariosto – e al quale il compositore dedica la grande ed encomiastica Missa Hercules Dux Ferrarie il cui soggetto principale è derivato, con una tecnica esemplare, dalle vocali componenti il nome del suo mecenate.
Il gusto “umanistico del mecenate” invece si traduceva in un repertorio più “cameristico” – di carattere cortese di ascendenza trobadorica; nella polifonia raffinata del Madrigale e ancor di più nel canto a voce sola accompagnato dagli strumenti che finalmente coinvolgeva sistematicamente come interpreti specializzate anche le donne, vedasi, sempre alla corte estense, il celebre “Concerto delle Dame”. 
Scorrendo le biografie dei grandi musicisti a partire dal XIV secolo, troviamo sempre più spesso, rispetto all’anonimia diffusa dell’Ars Antiqua, il proprio nome legato alla composizione di solenni messe o mottetti in polifonia.
Il musicista “romantico”, pienamente votato alla sua arte, è un concetto ancora lontano; tuttavia l’artista comincia a godere di un prestigio maggiore dovuto anche alle altre funzioni spesso affidategli. Se i cantores – mansione con cui generalmente si iniziava una carriera musicale, che comprendeva anche la formazione dei putti e dei giovani chierici – svolgevano il loro mestiere stipendiato a tempo pieno, figure più complesse di teorici e compositori come Machaut o Dufay fino a Ockeghem e allo stesso Josquin, oltre al ruolo di Magister cantus, svolsero non di rado attività anche politiche e diplomatiche al servizio dei propri mecenati. Benché il repertorio privilegiato derivi dall’arte del “canto a cappella”, proprio nell’ambito delle cappelle di corte si sviluppa enormemente anche l’utilizzo degli strumenti cui affidare compiti specifici prima di simbologia e più tardi di varietà sonora, come suggerisce ad esempio la locuzione “cappella alta” che designava il gruppo di trombettieri e strumentisti a fiato in genere da utilizzare nelle cerimonie solenni. Il maestro di cappella, pur se l’ultima parola spettava sempre al principe, svolgeva una funzione manageriale che comprendeva le principali fasi organizzative, dalla composizione di opere originali alla scelta dei cantori e dei musici aggiunti.
In primo piano dall’ultimo trentennio del secolo XV stanno le cappelle italiane cui conferiscono prestigio sia la massiccia presenza di cantori, soprattutto oltremontani, sia talora l’incidenza politica per cui non a caso le maggiori cappelle furono quelle delle capitali delle grandi potenze d’Italia tra la fine del XV secolo e i primi del XVI: Roma, Venezia, Milano, Firenze e Napoli cui si aggiungono per importanza quelle degli Estensi a Ferrara, dei Gonzaga a Mantova, dei Farnese a Parma e a Piacenza, dei Savoia a Chambéry e a Torino; sintomo generale della progressiva evoluzione è l’espansione degli organici, per la necessità di adeguarsi alle esigenze di forza e qualità sonora che la polifonia di nuovo tipo imponeva, sia per adeguarli al lustro delle cappelle fiamminghe. Fanno testo anzitutto la storia e la fisionomia della cappella papale, modello di ferrea e unitaria tradizione: dai dieci cantori in media del 1394, a crescere nel XV e XVI secolo fino a ventiquattro e poi trentasei nel 1624, cantori sempre lodati da storici e teorici per la loro formazione e la piena osservanza delle opportunità liturgiche – come la preminenza dello stile “a cappella” anche in epoca di stile concertante. La Cappella Sistina fu dunque anche il simbolo musicale della controriforma emersa dal Concilio di Trento che si faceva promotore di una uniformazione liturgica; nella pratica musicale ciò si tradusse nella supposta esigenza di riconsegnare la musica alla sua funzione di amplificazione della parola sacra. In tale contesto emerge definitivamente la figura di Giovanni Pierluigi da Palestrina divenuto fulcro di una comprensibile idealizzazione, poiché ha senz’altro avuto, più di chiunque altro, il talento straordinario di unire in una copiosa produzione le risorse poetiche ed espressive della polifonia alle necessità liturgiche di sobrietà e chiarezza.

L’organico delle cappelle musicali a Roma nel ’600 era di norma composto dal maestro e organista, figure spesso unite, e un numero di cantori variabile da un minimo di tre come si riscontra in Santa Maria in Traspontina a un massimo di 18-20 a San Pietro in Vaticano. Le cappelle maggiori impiegavano i pueri cantori e di norma non si riscontravano strumentisti fissi se non in occasioni particolari. Dunque l’assenza di regolare strumentazione sembra distinguerle nettamente da quelle del Nord Italia come quelle di Sant’Antonio a Padova, San Petronio a Bologna e ovviamente San Marco a Venezia.
Tuttavia la vivacità musicale dello stato pontificio è assicurata non solo dalle istituzioni maggiori ma anche e forse soprattutto da quelle satelliti che spesso sono ricche e screziate nell’organico; basti citare l’esempio lussuoso creato a Tivoli da Ippolito II d’Este, la cui cappella arrivò a circa ottanta elementi, prestava servizi presso altre corti romane fino a quella papale ed ebbe tra i suoi maestri Nicola Vicentino, Giovanni Maria Nanino e lo stesso Palestrina.
Dopo la fioritura rinascimentale l’evoluzione delle cappelle segue quelle della storia e dell’estetica barocca. Uno stile più tradizionale, sobriamente polifonico e più rigorosamente “a cappella” viene perseguito in ossequio allo spirito della controriforma e al magistero di Palestrina in ambiente romano, mentre come anticipato nel Nord Italia e principalmente a Venezia trovano terreno fertile le sperimentazioni sonore e quello stile “concertante” che ricercando in luogo dell’equilibrio il contrasto timbrico e dinamico pone sistematicamente insieme voci e strumenti. Nel medio Barocco la richiesta di musica si va orientando sempre più verso usi profani, segnatamente il teatro e il concerto, inoltre la nascita di istituzioni pedagogiche totalmente svincolate dalle Cappelle, come i Conservatori a Napoli e gli Ospedali a Venezia, segnano un momento di svolta nella evoluzione di questa istituzione che talvolta si chiude su sé stessa, più spesso si contamina nello stile e nelle funzioni di fatto confluendo in altre fisionomie influenzate dai contesti storico-culturali. La cappella musicale è dunque uno degli esempi più concreti di una istituzione profondamente legata al mondo da cui scaturisce.

La cappella Liberiana di Roma se da un lato prosegue l’illustre tradizione di “Scuola Romana” che aveva vissuto sotto la guida nel 1561 di Palestrina nel ’600 accoglie alcune influenze barocche che ammettendo l’utilizzo di grandi masse corali e apporti strumentali confluiscono nello stile, detto “colossale”, di maestri come Orazio Benevoli e più tardi nell’opera di Alessandro Scarlatti che pure seppe trovare un efficace compromesso tra la novità del linguaggio rappresentativo e lo stile osservato di tradizione palestriniana. Un equilibrio che si è mantenuto nel tempo fino ai giorni nostri grazie al magistero di figure come Licinio Refice e Domenico Bartolucci fino all’attuale direzione del maestro Valentino Miserachs Grau, il quale coordina un coro di circa trenta cantori al quale si aggiungono in occasioni di particolare solennità un coro femminile e una formazione stabile di ottoni.

Anche la Cappella Giulia, incaricata delle cerimonie in San Pietro, in origine pur affidata a grandi nomi provenienti dalla scuola fiamminga come Jacobus Arcadelt e Mallapert, fu guidata per un lustro dal Palestrina e sotto il suo magistero ben presto divenne un esempio di professionalità e di autonomia artistica auspicata da Giulio II, dotandosi di interpreti e maestri sempre più spesso direttamente provenienti dalla formazione delle scuole dello Stato Pontificio. Dalla scuola palestriniana giunsero personalità come Ruggero Giovannelli, mentre ancora Benevoli e Mazzocchi nel ’600 vi introdussero lo stile monumentale per arrivare a un maturo barocco con Domenico Scarlatti, a una mediazione tra classico e moderno con Valentino Fioravanti fino a giungere a un cecilianesimo di fine levigatura otto-novecentesca con Ernesto Boezi e poi Armando Renzi; la cappella riorganizzata nel 2008 ha conosciuto la direzione del maestro Pierre Paul, fino alla nomina attuale del maestro Jafet Ramon Ortega.

Per la Cappella Lateranense oltre al nome di Palestrina, che pure la diresse per un lustro, spicca la presenza del maggiore esponente dell’epoca dello stile franco fiammingo, Orlando di Lasso; in epoca barocca troviamo nuovamente Mazzocchi e poi Abbatini mentre nel ’700 affiorano i nomi di Ottavio Pitoni e Pasquale Anfossi; l’Ottocento “ceciliano” è dominato dalle figure di Gaetano e Filippo Capocci seguiti dalla gloriosa direzione di Raffele Casimiri. La cappella musicale, che oggi è composta da 32 cantori e da due organisti, è diretta dal maestro mons. Marco Frisina. 

Naturalmente tra tutte spicca per importanza storica, artistica e istituzionale la Cappella Pontificia Sistina indirizzata fin dalle origini dalle massime personalità: da Dufay a Josquin, e poi Costanzo Festa, Cristobal de Morales e Jacobus Arcadelt, fino al Palestrina, che segna come sempre una pietra miliare, prima della gloriosa direzione di Tomas Luis da Victoria. Insigni, anche nella musica operistica, i nomi di Stefano Landi e Marco Antonio Cesti nel XVII secolo mentre il periodo successivo si caratterizza più per la presenza di eccellenti interpreti che di celebri maestri; tuttavia nel secolo XVIII emerge la figura di Pasquale Pisari definito un nuovo Palestrina da Padre Martini. Anche in conseguenza delle vicende storiche che coinvolgono la Santa Sede e Pio VI alla fine del ’700 la cappella vive un periodo critico pur resistendo alla caduta dell’ancien regime che decreta la fine di molti organismi soprattutto di origine nobiliare; in questo periodo è importante il ruolo di Giuseppe Baini, ultimo esponente di scuola romana e autore di studi su Palestrina che contribuirono nell’Ottocento alla riscoperta del grande polifonista. A lui seguirà Domenico Mustafa, straordinario cantore appartenente all’ultima generazione degli evirati e perito compositore, prima dell’avvento di Lorenzo Perosi col quale si apre una nuova era della Cappella Sistina, con il ripristino del coro di fanciulli in luogo degli evirati e una incessante opera compositiva volta alla ricerca di un linguaggio specifico per la musica sacra del ’900. Con il maestro Domenico Bartolucci, direttore fino al 1997, viene portata a compimento l’opera perosiana e dopo la stagione del maestro Giuseppe Liberto l’attuale direttore della Cappella Sistina è il maestro mons. Massimo Palombella, alla guida di venti cantori adulti stabili e circa trentacinque pueri cantores, il quale ha intrapreso una raffinata ricerca sonora e interpretativa che sta dando rinnovato lustro alla gloriosa istituzione.

L’altro grande polo musicale in Italia pure ha una storia plurisecolare; dalla consacrazione della Basilica di San Marco in Venezia del 1094, la prima documentazione certa relativa alla vita musicale marciana risale al 1316. Tra Quatto e Cinquecento animano la cappella i più rinomati e fantasiosi compositori dell’epoca come il citato Willaert, e poi Gioseffo Zarlino, Cipriano de Rore, Andrea e Giovanni Gabrieli, alfieri dello stile concertato veneziano. All’eccellenza di Claudio Monteverdi, maestro di cappella fino alla scomparsa, si deve lo straordinario primo barocco veneziano e uno stile nel quale trova posto anche una rinnovata polifonia di scuola romana. Con le figure di Francesco Cavalli e Giovanni Legrenzi anche su influenza dello stile francese coevo, l’organico tende a un ulteriore sviluppo, arrivando nel ’700 a oltre sessanta tra cantori e strumentisti nelle celebrazioni di palla, le liturgie solenni della Repubblica. Sotto Antonio Lotti e Baldassarre Galuppi la cappella viene nuovamente rinnovata, stabilizzandosi in una trentina di cantori e altrettanti strumentisti. Anche la Cappella di San Marco risente dell’epoca rivoluzionaria, così in seguito alla caduta della Repubblica nel 1797 iniziò un periodo di decadimento appena arginato da figure come Bonaventura Furlanetto e Antonio Buzzolla e poi da Lorenzo Perosi che nel suo periodo come maestro di cappella diede nuovo impulso con la rifondazione della Schola Cantorum. Nel ’900 sono da citare senz’altro figure come quelle di Delfino Thermignon, Matteo Tosi e Alfredo Bravi che hanno proseguito il recupero perosiano. Attualmente la Cappella Marciana, composta di circa quaranta elementi tra cantori e strumentisti, è attiva nelle cerimonie liturgiche ordinarie e solenni del capitolo in San Marco ed è diretta dal maestro Marco Gemmani.

Al Saggio Carlo V di Francia si deve la nascita delle cappelle francesi. Già nel XIV secolo aveva una souveraine chapelle regolarmente costituita per le consuete celebrazioni domenicali e festive; Carlo VII e Luigi XI la affidarono nella seconda metà del ’400 alla direzione di Ockeghem, massimo esponente della sua generazione, il quale selezionò dodici cantori sceltissimi: analogamente costituite furono quasi tutte le cappelle musicali della Francia del nord e del Belgio. Durante il XVI secolo la Chapelle Royale di Francia fu composta normalmente di almeno venti canonici cantori e numerosi altri ecclesiastici, posti sotto la direzione dei più illustri musicisti del tempo come Claudin de Sermisy. Luigi XIV poi la arricchì di un’orchestra per l’esecuzione di quei “Grandi mottetti” per lui composti da Jean Batiste Lully, così nel 1712 contava ben ottantotto cantori oltre agli orchestrali arrivando con varia fortuna fino all’epoca post-napoleonica. In Inghilterra si ha cenno di una Royal Chapel fin dal 1135 al servizio fisso dei Re d’Inghilterra che nel 1465 arriva a quaranta elementi tra cantori e strumentisti impiegati anche per le rappresentazioni sacre e profane di corte. L’organico fu elevato da Enrico VIII ed Edoardo VI fino a 114 elementi, conoscendo però alterne fortune alla metà del ’600 per rifiorire sotto Carlo II che la dotò anche di un gruppo d’archi specializzato sul modello della cappella reale francese.

A Vienna sul modello delle cappelle borgognone Massimiliano I eresse la Hofkapelle asburgica che risulta esemplare del modello germanico del periodo insieme alla prestigiosa Cappella di Monaco formata da una media di trenta elementi e magnificata sotto la guida di Orlando di Lasso. Mentre in Italia dopo il XVI secolo le cappelle non conoscono sviluppi particolari, in area germanica conoscono una sostanziale trasformazione; dal XVII secolo in poi il significato e la funzione si amplia, anche su impulso della riforma musicale luterana, che aveva trasformato le cappelle in più ampie strutture dette collegia musica, sino a comprendere un complesso di esecutori anche puramente strumentale diretto dal Kapellmeister.
Nel XVIII secolo la Germania non era ancora diventata uno Stato e ogni città sede del potere religioso-amministrativo aveva la sua cappella musicale vocale-strumentale. Johann Sebastian Bach, Georg Friedrich Händel e Joseph Haydn nella prima metà del XVIII secolo vennero ingaggiati come Kapellmeister rispettivamente alle corti del Principe Leopoldo di Anhalt-Köten, del Principe Francesco Maria Rispoli e della famiglia degli Esterházy dell’Impero Austriaco.

Nella Mitteleuropa del XVIII secolo la cappella musicale aveva una funzione culturale primaria di formazione e diffusione. Le figure più importanti erano quelle del primo violino, in Germania Konzertmeister, dell’organista o Hoforganist e del maestro di cappella o Kapellmeister, la massima autorità musicale della Corte gerarchicamente subordinato all’Intendente che però aveva solo competenze amministrative e dunque di fatto solo al principe in persona. Tuttavia con l’evolversi della società, caratterizzata verso la fine del Settecento dal declino della nobiltà e delle istituzioni a essa connesse, la figura del maestro di cappella divenne man mano meno prestigiosa, come la cappella stessa. Grandi compositori come lo stesso Haydn e poi Mozart e Beethoven sono l’esempio di questo passaggio tra Sette e Ottocento alla carriera di libero musicista, che molti iniziarono a intraprendere in quanto, per la propria affermazione professionale, non era più indispensabile ricoprire il ruolo di maestro di cappella anche se tale figura sopravvisse ancora a lungo, come testimonia la nomina alla corte viennese nel 1842 dell’operista Gaetano Donizetti.
Come sottolinea Valentino Donella, nell’Ottocento con la scomparsa e la riconversione di molte Cappelle tramonta un universo glorioso e se ciò che resiste sono gli organismi di più antica tradizione, altrove l’istituzione si trasforma radicalmente passando in particolare da un’alta specializzazione professionistica a un volontarismo, tanto lodevole quanto esposto alle precarietà interpretative e creative del “dilettantismo”. Tuttavia oggi oltre alle già citate cappelle maggiori una memoria onorevole è mantenuta in diverse antiche cappelle ancora attive, come quelle della Cattedrale di Verona, di San Petronio a Bologna, la Cappella del Duomo a Milano, la Cappella di Santa Maria del Fiore in Firenze, la Cappella Lauretana e la Cappella della Basilica di San Francesco in Assisi.

Pur nella necessaria brevità sarà interessante in ultimo sottolineare come nascendo nel periodo umanistico-rinascimentale la cappella musicale sia profondamente legata nella sua evoluzione al mondo da cui scaturisce. Ad esempio è curioso notare la natura che differenzia le istituzioni attive negli stati repubblicani, le cosiddette cappelle civiche, e quelle promosse dagli stati monocratici, che possiamo denominare cappelle di corte. La cappella civica negli stati repubblicani come Firenze, ad esempio, annessa ordinariamente al principale edificio ecclesiastico, si innesta normalmente su preesistenti apparati come organismo promosso dal governo ad augmentum divini cultus, a beneficio della cosa pubblica e soggetto a logiche burocratiche. Negli stati monocratici le cappelle hanno vita ex novo dall’iniziativa del principe e delegate a illustrare la meraviglia della corte. Gli effetti di tale differenza sono presto evidenziabili: le cappelle civiche sono istituzioni durevoli e immutabili in quanto espressione della civitas, come a Venezia. Le cappelle di corte, legate alle vicende personali del principe, riflettono l’eccellenza ricercata ma anche una certa caducità e mutevolezza. Ancora, mentre le cappelle repubblicane remunerano i propri dipendenti con finanze pubbliche, quelle di corte godono della munificenza principesca che si traduce anche in lasciti e onorificenze; inoltre mentre i musici delle cappelle civiche sono solitamente inquadrati come funzionari comunali, in quelle principesche sono inseriti tra gli uomini di corte con una percepibile differenza di rango sociale.
Ne consegue che sebbene le cappelle civiche siano più stabili nel tempo, quelle di corte risultino molto più appetibili nell’ottica di un miglioramento nella scala sociale. Tuttavia nel breve periodo mentre la fortuna delle cappelle civiche è legata alla situazione politica, paradossalmente quella delle cappelle di corte può rifulgere proprio nei momenti di difficoltà, come ultimo baluardo della propria magnifica immagine. Si pensi a come le vicende turbolente della repubblica fiorentina tra XV e XVI secolo abbiano influito sul funzionamento delle principali cappelle civiche, mentre il declino politico della corte di Ercole I a Ferrara negli stessi anni si sia tradotto in un incremento di progetti mecenateschi degni di un “canto del cigno”. Dall’altro lato, alcune cappelle seguono direttamente la sorte dei loro governi, soppresse le signorie degli Sforza a Milano e degli Aragona a Napoli declinano le loro pur magnifiche cappelle di corte come quelle delle cattedrali a esse affiliate.
Dunque le cappelle di corte e quelle civiche presentano differenze costituzionali dipendenti dalla struttura governativa di cui fanno parte, in grado di fornire un quadro esauriente delle rispettive evoluzioni artistiche: si pensi alla produzione polifonica suggestionata dalla figura del princeps – mottetti mariani a Milano, opere celebrative per l’elezione di cardinali e pontefici, messe sul tema L’Homme armè in celebrazione di successi bellici. A Venezia invece, come esempio significativamente dissimile – visto l’enorme sviluppo successivo – prima dell’arrivo rivoluzionario di Willaert nel 1527, non vi era una tradizione polifonica consolidata; è anche da sottolineare che il caso veneziano è singolare per la peculiarità della città la cui consuetudine nel far musica era radicata in tutti gli strati sociali e dunque l’apporto sonoro alle manifestazioni pubbliche non era riservato al Doge ma coinvolgeva la collettività cittadina; da qui l’apparente semplicità della cappella marciana prima di Willaert.

Da questo substrato, la cappella musicale di San Marco a Venezia fornisce gradualmente, insieme a quella pontificia di Roma, le pagine più splendide della storia musicale italiana del XVI secolo, diventando una fucina di sperimentazione emulata in tutta l’Europa. Tuttavia esiste un’essenza ideologica comune a queste istituzioni, poiché in definitiva nell’esibire la propria fede in molteplici forme, il principe legittima la propria condizione di supremo esegeta del buon governo e dunque una cappella di corte è idealmente destinata anche al beneficio della collettività civica; così la fondazione di cappelle musicali può essere annoverata tra le iniziative devozionali e governative sia negli stati repubblicani sia in quelli signorili superando il confine teorico-ideologico tra i due tipi di istituzione. In questa prospettiva si può far rientrare dunque la comune rigogliosa fioritura natia, come la successiva stasi e trasmutazione e anzi ciò che affiora maggiormente da questo breve excursus, è quanto intimamente legata sia l’evoluzione del fenomeno cappella musicale all’ordito storico-sociale ed estetico di epoche e assesti tra loro anche lontani il che conferma una volta di più, come nota acutamente Franco Piperno, che se è inammissibile una storia della musica prescindendo dalla storia, altrettanto impensabile è una storia senza musica o come già accennato che la Musica è vibrazione dell’animo e della materia ma anche silenzio.

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