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Centenario della Grande Guerra
Un bilancio musicale

di Mauro Zuccante
dossier "Speciale Grande Guerra", Choraliter 57, gennaio 2019

«Deo gratias, è finita!», verrebbe da dire. Già, perché le celebrazioni per il Centenario della Grande Guerra sono state veramente tante, forse troppe. Un’overdose di eventi commemorativi, editoriali, espositivi, cinematografici, musicali, che ci hanno accompagnato per tre anni, o addirittura quattro, se mettiamo nel conto anche quelli che, giocando d’anticipo, sono partiti fino dall’estate 2014, allo scadere dei cento anni dall’attentato di Sarajevo, piuttosto che dalla ricorrenza, tutta italiana, del successivo “maggio radioso”.

In tutto ciò, che ruolo ha avuto la musica? Che ruolo hanno avuto i cori? Beh, centrale, direi. Al di là, ovviamente, degli innumerevoli concerti interamente dedicati ai canti della Grande Guerra, ci sono state altre forme di evento (cerimonie, rievocazioni, conferenze, letture), che si sono avvalse della colonna sonora di gruppi corali, che hanno intonato (in sottofondo, o a latere), le più popolari strofe militari.
Un ritorno alla ribalta soprattutto per i cori alpini, i quali hanno così potuto rispolverare una porzione significativa del loro repertorio primigenio.
Ma alzi la mano chi non ha colto, in tutto ciò, un briciolo di retorica.
Eh sì, perché gli stessi canti della Grande Guerra (nella forma corale-alpina, in cui siamo soliti conoscerli), nascono in un contesto di propaganda nazionalistica postbellica; in un contesto di rigenerazione del patriottismo di regime; in un contesto di mitologie demagogiche, di reduci, martiri ed eroi, che gli storici moderni hanno smascherato, già a partire dagli anni Sessanta-Settanta. Proprio in quegli anni, infatti, Mario Isnenghi, fra i primi, con la pubblicazione de I Vinti di Caporetto (Ed. Marsilio, Padova, 1967), tradiva il reale vissuto di dissenso ed estraneità all’idea di “Guerra e Patria”, da parte della massa dei coscritti.Il seme per l’epica della “gloriosa memoria” del combattente (non solo dell’alpino, s’intende) indomito, paziente, tenace, disciplinato, eroico, era insito già a partire dal primo canzoniere, pubblicato subito dopo il conflitto: Canti di soldati, raccolti da Piero Jahier, musicati da Vittorio Gui (Ed. Sonzogno, Milano, 1919).
Una selezione, meditata e mediata, delle canzoni dei soldati; un’operazione di “ripulitura” linguistica, supportata da una rielaborazione musicale colta, che fungerà da traccia per gli adattamenti corali successivi (quelli realizzati dagli anni Venti e Trenta in poi; quelli realizzati – per capirci – da Pigarelli in avanti, fino ai suoi numerosi epigoni); quegli stessi cliché corali, che hanno contribuito a creare la nostra immagine musicale di quel particolare, e unico nella storia, evento bellico.
Ha detto Vittorio Gui che «la “veste armonica” non pretende esser altro […] che l’atmosfera in cui [i canti] ci furono rivelati dai soldati nostri» (cfr. Paolo Zoboli,
Canti di soldati di Piero Jahier. Un canzoniere alpino tra epos e testamento, in Scrittori in divisa. Memoria epica e valori umani, a cura di Mariacristina Ardizzone, Brescia, Grafo, 2000).

Che cosa? L’atmosfera? Proprio così, l’atmosfera. Fatto sta, quindi, che i rifacimenti musicali di Gui, del tutto svincolati dall’autenticità della tradizione orale, hanno, pur tuttavia, rappresentato il modello al quale si sono ispirati gli arrangiatori musicali venuti dopo. Insomma, il classico caso di “tradizione inventata”.
Oggi, invece, uno storico come Alessandro Barbero ama ripetere che «tutto parte dalle fonti con il passato»; nel senso che il contatto diretto con i documenti dell’epoca costituisce la premessa indispensabile per un’indagine autentica e lo spunto più stimolante per una nuova lettura delle emozioni che hanno accompagnato gli avvenimenti del passato.
Il Centenario, perciò, è stato l’occasione per uno svelamento della “musica autentica” della Grande Guerra? Il Centenario ci ha restituito la “vera voce” dei soldati, al netto della retorica emotiva collettiva, fabbricata nei decenni successivi? Direi di sì. Qualcosa di nuovo, in effetti, è emerso dal mare magnum delle solite litanie alpine; qualcosa di nuovo si è potuto ascoltare.
Lasciatemi partire da un’esperienza diretta. Un paio d’anni fa, nell’intento di documentarmi, sono venuto a conoscenza della interessantissima raccolta di documenti sonori d’epoca, presente nel Phonogrammarchiv di Vienna. Nel 2012, all’antivigilia quindi dello scadere del Centenario, l’Accademia austriaca delle scienze (Österreichische Akademie der Wissenschaften) ha pubblicato un ampio estratto dallo stesso Phonogrammarchiv, concernente le canzoni dei soldati dell’esercito imperiale (Soldatenlieder der k. u. k. Armee, due cd-audio e un booklet, ISBN 978-3-7001-2947-9).A proposito, devo questa informazione a Rossana Paliaga. Sì, proprio a lei, l’attuale direttrice di questa rivista. Grazie, Rossana!

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L’istituto viennese, uno degli archivi sonori più antichi al mondo, conserva, infatti, una collezione unica di canzoni dei soldati, che Leo Hajek (un ingegnere del suono, diremmo oggi), su incarico dell’allora Ministero della Guerra, raccolse nel 1916, utilizzando apparecchiature di registrazione tecnologicamente assai avanzate per quell’epoca. Si possono nitidamente ascoltare le canzoni, intonate dalla viva voce degli uomini dei reggimenti, che costituivano il multietnico esercito imperiale: austriaci, tedeschi, ungheresi, bosniaci, serbo-croati, sloveni, rumeni, ruteni, polacchi e, naturalmente, friulani.
Fra i tanti spunti di rilievo, emerge la considerazione che le canzoni dei soldati esprimessero, in origine (nei contenuti e nelle forme musicali), le peculiarità nazionali e il vissuto esistenziale di provenienza dei soldati stessi. Ma ve ne erano anche di trasversali. Nello scontro con la dura realtà della guerra, nell’impatto con gli eventi sconvolgenti del conflitto, le canzoni furono rimodulate. Alle melodie esistenti vennero adattate nuove parole. Agli argomenti scanzonati, che caratterizzano la vita prebellica, si mischiarono, si sovrapposero, si sostituirono i temi drammatici della guerra. L’humus sottostante, la sostanza musicale, il veicolo sonoro, rimasero, però, gli stessi. Cambiò solo la funzione. Se ne deduce, pertanto, che – tolto il repertorio “preconfezionato” di musiche marziali e canti di caserma – durante gli anni della guerra assai raramente si ebbero nuovi esiti musicali; ci fu, piuttosto, un proliferare di adattamenti di canzoni già note.Un’ulteriore integrazione musicologica, sempre a opera della sezione editoriale dell’Accademia austriaca delle scienze, è uscita proprio quest’anno (Recordings from Prisoner-of-War Camps, World War I, nove cd-audio, cinque cd-rom e booklet, ISBN13 978-3-7001-8227-6, ISBN13 978-3-7001-8226-9, ISBN13 978-3-7001-8229-0, ISBN13 978-3-7001-8230-6, ISBN13 978-3-7001-8228-3). Si tratta di una corposa serie di pubblicazioni, che contiene le registrazioni effettuate nei campi in cui furono internati i prigionieri di guerra russi.
Insomma, un altro archivio ricco di testimonianze sonore multietniche (armene, ebraiche, lettoni, lituane, ugro-finniche, ucraine, turche, georgiane e così via), che conferma quanto testé osservato.
Ma, collegato all’ambito dei prigionieri di guerra, è l’altrettanto recentissimo lavoro compiuto da due studiosi italiani, Ignazio Macchiarella e Emilio Tamburini. I due hanno pubblicato Le voci ritrovate (Ed. Nota, Udine, 2018, ISBN 9788861631830), un volume, integrato da tre cd-audio e un cd-rom, che presenta un corpus inedito di registrazioni sonore, effettuate nel 1918; e che riguardano militari italiani detenuti nei campi di prigionia tedeschi durante la Grande Guerra. Una fonte – a lungo invocata e attesa, diciamo pure – che ci restituisce la voce autentica dei soldati italiani che furono coinvolti nel conflitto: calabresi, campani, emiliani, friulani, laziali, liguri, lombardi, piemontesi, pugliesi, romagnoli, sardi, siciliani, toscani, umbri e veneti.
La pubblicazione, presentata nell’ambito di un interessante convegno, tenutosi il 2 e 3 novembre 2018, presso l’Università degli Studi di Udine, spalanca un nuovo orizzonte di studio. Si consideri soltanto che «si tratta della più antica collezione di registrazioni sonore di dialetti e canti tradizionali italiani di cui si abbia notizia e, con ogni probabilità, anche la prima a essere mai stata realizzata» (E. Tamburini, ibid.).
In definitiva, l’esito di una ricerca che gli appassionati del settore accoglieranno con grande curiosità. Ed è perciò che voglio riportare le emozionate parole con cui lo stesso Tamburini presenta la sua ricerca: «Nell’autunno del 2015 ero da poco approdato alla Humboldt-Universität di Berlino e all’istituto di Kulturwissenschaft quando, grazie a un seminario […] cominciai a interessarmi agli archivi sonori e in particolare al Lautarchiv dell’università. 
Quando appresi che una parte considerevole delle incisioni lì conservate conteneva voci di prigionieri militari, incise e raccolte dalla Regia Commissione Fonografica Prussiana durante la prima guerra mondiale nei Lager tedeschi, domandai se fra loro ci fossero anche degli italiani […]. Ricordo con precisione il momento in cui indossai le cuffie e premetti il tasto che fece scaturire il fruscio di una vecchia registrazione, seguito dalla scandita melodia di un canto nella mia lingua: “Il general Cadorna se l’è sortito pazzo. La meglio gioventù la fa morir sul Carso!…”. A ogni distico cantato dal solista rispondeva l’eco di un piccolo coro. Quelle voci sembravano provenire da una distanza incommensurabile, eppure le sentivo intimamente vicine. Credo che provai meraviglia e gratitudine per il fatto che dopo un secolo di oblio giungevano fino a me, studente italiano a Berlino. Ma soprattutto ebbi la sensazione che quelle voci chiamassero in causa l’ascoltatore, che in esse ci fosse un appello a cui non era possibile sottrarsi.»
(E. Tamburini, ibid.).
Ecco, uno studio che, finalmente, svela le fonti; scavalcando la percezione tradizionale dei canti della Grande Guerra; superando l’idea che, come detto più sopra, ci siamo fatti riferendoci esclusivamente a un repertorio corale di genere, creato a posteriori. Non baldi eroi, ma «naufraghi della guerra, questi uomini avevano portato con sé nella prigionia le melodie e le narrazioni che avevano accompagnato la loro vita in tempo di pace» (E. Tamburini, ibid.). Il contesto della guerra e della prigionia sembra avere velato il tono originario dei canti di una patina malinconica. Forse, è questo il nocciolo espressivo sostanziale che dovrebbe catturare l’orecchio del musicista moderno: il velo di malinconia delle voci; un velo che avvolge gli animi, prostrati sotto il peso di un ineluttabile destino.
Chiudo con un salto in libreria. Giusto in extremis, in coincidenza cioè con la chiusura del Centenario, esce un’altro importante studio. Al rombo del cannon, Grande Guerra e canto popolare, a cura di Franco Castelli, Emilio Jona, Alberto Lovatto (Ed. Neri Pozza, 2018, un volume e due cd-audio, ISBN 978-88-545-1248-1). Un ampio approfondimento dei canti del periodo bellico, inquadrato in un’ottica multidisciplinare; supportato dalle registrazioni della viva voce dei soldati reduci, raccolte intorno agli anni Sessanta-Settanta, prevalentemente in area piemontese. Forse, il lavoro che va meglio a integrare l’antologia finora più nota e documentata, cioè Canti della Grande Guerra di Virgilio Savona e Michele L. Straniero (Ed. Garzanti, Milano, 1981).È importante questa nuova indagine, perché costituisce uno scavo minuzioso, soprattutto intorno agli esiti che, per motivi ideologici, vennero espunti dai canzonieri ufficiali, così preoccupati di trasmettere un’immagine del soldato docile, paziente e disciplinato.

Mi viene in mente che, in un suo intervento, lo studioso Marco Mondini cita le parole di un testimone diretto assai particolare: «Qua e là si levano delle voci che cantano. Ma non sono canzoni del repertorio patriottico. Sono del repertorio soldatesco e popolare. Bisogna distinguere. Salvo una che ha un ritornello che dice – Trento e Trieste / Ti renderò – le altre canzoni sono ben lontane dagli avvenimenti attuali. L’immortale Violetta tiene ancora il primo posto […]. E non manca la canzonetta scollacciata, anzi oscena […]. Amano la guerra questi uomini? No. La detestano? Nemmeno. L’accettano come un dovere che non si discute. Il gruppo degli abruzzesi che ha per capo il mio amico Petrella canta spesso una canzone che dice: – e la guerra s’ha da fa / perché il re accussì vuol […]» (cfr. M. Mondini, Sacrificio, riso ed eroismo: i canti della Grande Guerra come testo mitopoietico, in Versants, n. 63/2, fascicolo italiano, Ginevra, 2016). Parole veritiere, di una modernità ante litteram, di un osservatore acuto e franco. Chi le ha scritte? Non sorprendetevi, è stato lui: Benito Mussolini (cfr. Benito Mussolini, Il mio diario di guerra, a cura di Mario Isnenghi, Bologna, Il Mulino, 2016).
E ancora Marco Mondini dice: «Solo il ritorno in auge della canzone di protesta, il cui debutto ufficiale è il 1964, quando la Canzone di Gorizia fu presentata al “Festival dei due mondi” suscitando disordini e furibonde liti tra il pubblico, avrebbe rappresentato negli anni successivi un (tenue) filone di dibattito» (M. Mondini, ibid.). 
In particolare, fu grazie al gruppo di musicisti e letterati denominato Cantacronache che venne “sdoganata” la canzone sociale e politica. Pertanto, si spiega perché nel volume Al rombo del cannon gran parte del materiale di riferimento sia stato raccolto negli stessi decenni di fecondo fermento culturale; all’epoca del cosiddetto folk revival.
In conclusione, con la celebrazione del Centenario della Grande Guerra, non dico che si sia chiuso definitivamente il cerchio intorno allo studio dei canti dei soldati; ma un notevole passo avanti è stato fatto, grazie all’apporto di studi seri e scientifici, alcuni dei quali ho cercato di menzionare; e che, d’ora in avanti, questi ultimi costituiranno la base per una narrazione musicale (come si usa dire oggi) più aderente al reale vissuto emotivo dei nostri antenati, la cui esistenza è stata così pesantemente segnata dall’uragano della Grande Guerra.

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