Nel merito ben poco rimane alla scienza da “scoprire”, ma sempre ampio e mai definito è il campo di applicazione della “tecnica vocale” nei soggetti-oggetto della didattica “del canto” e “del parlato” poiché ogni soggetto rappresenta un unicum vocale. Molto è stato scritto, e lo sarà ancora, sia dalla letteratura scientifica che attraverso le testimonianze e le convinzioni dettate dalla pratica e dall’esperienza soggettiva e diretta dei cantanti, tanto da diventare un punto di riferimento anche per gran parte dei più quotati foniatri. Quali e quante potranno essere o valere le riflessioni e i contributi di coloro che si dedicano alla formazione ed educazione vocale in ambito corale, campo in cui la voce non “serve” un’unica forma e stile musicale, ma abbraccia espressioni vocali di quasi un millennio (per restrizione)? Oggi, riferendoci al passato, possiamo individuare modalità di canto – sia pur incomplete e suggerite da un ascolto critico attento – contenute in trattati di epoche diverse testimoniate da una ricca iconografia musicale così come dalle arti figurative, che sembrano suggerire col semplice atteggiamento al canto quale fosse l’intenzione e il risultato canoro; i putti cantori nel medioevo venivano rappresentati con una esagerata apertura boccale in senso orizzontale con esposizione delle arcate dentarie, sintomatico di una emissione spontanea sì, ma greve e diretta (un cantar di gorgia), mentre successivamente con l’evolvere delle forme compositive e l’avvento della polifonia i putti cantori erano scolpiti o dipinti con un sembiante boccale rotondo, leggermente verticalizzato, segno di una emissione più ricercata e colta, ormai incorporata in una estetica di più ampio spettro derivante dalle differenti funzioni e collocazioni del canto polifonico.
Oggi per trovare il “nostro” suono e poterlo mettere a servizio di musiche che vanno dalla monodia alle contemporanee espressioni vocali, possiamo senza dubbio far riferimento alla scienza e al detto “cantare per stare bene”, quindi partire dall’antica esortazione “conosci te stesso” iscritta nel tempio di Apollo a Delfi patrimonio della “sapienza oracolare delfica”.
L’emissione vocale è frutto di un “sistema pneumo-fonoarticolatorio”.
Facili da comprendere sono le varie parti, meno lo sono se le si vanno a proporre a cantori di cori “amatoriali” che della voce cantata fanno un uso non costante e continuativo. Credo però che la curiosità di “sentire” quello che avviene “dentro” costituisca un buon punto di partenza sia per iniziare l’arte del canto che in seguito verificare lo stato di salute della voce.
Inoltriamoci nel primo accoppiamento pneumo-fonico. Invitare a riconoscere quel rapporto equilibrato tra la pressione del flusso aereo e la resistenza della glottide (glottide è lo spazio limitato dai bordi delle corde vocali) è compito di un buon direttore di coro che segue anche la formazione vocale, il quale, oltre a esemplificare, è chiamato a stimolare nel corista la volontà di ricerca di equilibrio, utilizzando estratti dalla letteratura vocale monodica e polifonica dove gli ambiti vocali sono compresi nel registro medio (canto gregoriano, bicinia di Orlando di Lasso). Per non incorrere in irrigidimenti e tensioni muscolari, conviene per un tempo adeguato – certamente non riferito all’interno di una sola seduta – muovere la voce nel registro medio privilegiando l’andare per grado e poi gradualmente per salti (nel muovere la voce per salti si consiglia di recuperare gli intervalli per salto con successivi procedendo per grado e per moto contrario, così si “mette già in voce” e si affronta consapevolmente quanto avviene nel canto sia monodico che polifonico anche ben oltre il XVI e XVII secolo). Aggiungo che al training di consapevolezza meccanica va coniugata la variazione del rapporto di equilibrio per ottenere modelli sonori: attacchi, crescendo e diminuendo, accento, legato e articolato, confidenza con moduli ritmici diversi. È indispensabile che il direttore di coro sia in grado di estrarre dal repertorio elementi melodici per le diverse voci destinati a diventare quei famosi “vocalizzi” che siano corrispondenti al percorso formativo vocale programmato, sia individuale che collettivo. Tale ricerca va affrontata da tutte le voci, femminili e maschili, con differente identificazione delle zone vocali di centro.
Queste le basi per un approccio adeguato alla vocalità per un cantore, senza tralasciare di costruire, dove mancasse, un corretto gesto respiratorio completo, al quale si delega un’ampia gamma di risposte nella pedagogia della voce cantata. Risposte che vanno trovate nella sperimentazione pratica guidata e non semplicemente frutto e interpretazione di letture consigliate.
Se l’attività pneumatica risponde alle esigenze pressorie, la resistenza delle corde vocali dipende dalla loro massa ed elasticità attraverso cui il muscolo vocale (tiroaritenoideo) dà la forza di accollamento delle corde vocali e il loro accorciamento per consentire un basso numero di frequenze vibratorie, la produzione dei toni gravi.
Nel mentre un altro muscolo, il cricotiroideo, in attività basculante tra le cartilagini tiroidea e cricoidea, permette l’allungamento delle corde vocali sviluppando la capacità di salita nei toni acuti e il falsetto.
Questa descrizione tecnica non son certo contribuisca a comprendere il meccanismo vocale, ma aiuta senz’altro a capire quanto l’esercizio di discesa e salita dei toni corrisponda a una naturale discesa e risalita dell’apparato laringeo (scivolamento su e giù e mobilità della laringe) cui contribuirà anche – e non solo – l’articolazione delle vocali. La confidenza con tale consapevolezza riduce i tempi e i modi per affrontare la seconda parte del sistema: l’accoppiamento fono-articolatorio più propriamente riferito alle risonanze. È qui che la voce assume quell’insieme di caratteristiche che definiscono il timbro a cui concorrono la laringe, la faringe, la mandibola, la postura labiale, la lingua, il palato duro, il palato molle, i seni nasali. In tale concorso di elementi la colonna sonora uscita dall’accoppiamento pneumo-fonico si arricchisce di altre frequenze, formanti armoniche, che caratterizzano ogni voce. Il percorso della voce verso l’acuto incontra diversi ostacoli che sono il cruccio dei nostri cantori: il passaggio di registro. Il meccanismo è situato in laringe, nei muscoli tiroidei e cricoidei, e pure nel tentativo di mantenere uguale il timbro. Quindi nel salire si dovrà controllare la salita della laringe per non incorrere in schiacciamenti del suono e irrigidimenti muscolari. Una buona palestra vocale è il “glissato” ascendente e discendente anche senza vocalizzazione, a labbra chiuse e velo palatino ora abbassato ora alzato. Per ottenere comunque una omogeneità timbrica nel passaggio dal registro medio a quello acuto, qualora lo richieda il brano musicale, si ricorre alla cosiddetta copertura, ossia «l’adattamento delle cavità di risonanza che si concretizza in un abbassamento della laringe e mandibola, appiattimento della base linguale, allargamento del cavo oro-faringeo ed elevazione del velo palatino». L’apertura mandibolare contribuisce ad aumentare la cavità soprattutto faringea e a produrre la sensazione che la colonna sonora salga quasi a immagine di una canna d’organo. Le sensazioni vibratorie corporee soggettive muscolari e scheletriche ci aiutano a definire e distinguere la “voce piena con consonanza di petto o di testa”.
La letteratura corale nella storia richiede diversi atteggiamenti vocali: in ambito polifonico nel XVI secolo, pensando a un organico oggi consueto SATB che preveda l’impiego di voci femminili invece di voci bianche o falsettisti, la tessitura nelle varie voci rientra in un ambito che difficilmente oltrepassa il registro medio in un ambito di nona-decima: così il registro acuto con il suo passaggio non veniva utilizzato non conoscendone la tecnica per mantenere omogeneo il timbro, anche perché il risultato, sperimentato e documentato da testimonianze scritte, era gridato e teso, e non consono alla destinazione delle musiche.
È il caso di citare la raccomandazione, tra diverse altre, di Konrad von Zabern nel De modo bene cantandi (Mainz 1474): «mediocriter cantare» – non intonare troppo alto, cantare nell’ambito medio; e ancora Blasio Rossetti nel Libellus de rudimentis musicae (1525): «la voce ha sei strumenti, polmone, gola, palato, lingua, denti e labbra, la voce deve essere uguale, chiara, agile e mediana, turba l’armonia se tremula, rauca, e stonata». Solo in alcune corti venivano utilizzate le voci femminili per le musiche di palazzo, ricordiamo per esempio le famose tre dame alla corte Estense di Ferrara, ove operava Luzzasco Luzzaschi, e alla corte dei Gonzaga a Mantova con Monteverdi.
Nel XVII secolo, con l’avvento del teatro e del canto solistico, la vocalità polifonica allarga le proprie dimensioni, si amplia la gamma di estensione della voce umana (cfr. la letteratura madrigalistica a partire dalla fine ’500), proprio perché la scrittura musicale si mette al servizio degli affetti e della loro poetica, le cui dimensioni non hanno confini nelle dinamiche e nella espressività. La voce deve seguire la parola, “suonarla”, poiché già da sé contiene un gesto sonoro che per la voce significa esprimere quella varietà di colori che rappresentano e descrivono i moti dell’animo. Ecco lo stile barocco cavallo di battaglia di molti cori, dove la voce si deve misurare pure con insiemi strumentali, e quindi interagire con questi mostrando di aver sviluppato i vari registri (compreso il falsetto) e la cura dell’amplificazione delle armoniche derivante dai movimenti della lingua e dalla cavità faringea.
Le sensazioni vibratorie delle risonanze nei diversi registri sono paragonabili alla componentistica di un box diffusore di un impianto audio tradizionale (cassa acustica). Aperto il pannello individuiamo tre diffusori: il più grande woofer (per le frequenze gravi), il meno grande midrange (per le frequenze medie) e tweeter (per le frequenze acute) il più piccolo, non a caso disposti in ordine dal basso all’alto; in analogia con la voce cantata nei suoni gravi con il woofer, registro medio, il midrange e tweeter per suoni di testa nel registro acuto, compresa la voce di falsetto nelle voci maschili, in corrispondenza delle zone craniche di risonanza.
La voce di falsetto, tanto vituperata, è quella voce che viene enormemente impiegata nei cori maschili, specie nel repertorio popolare elaborato per coro così vivacemente rappresentato nelle nostre regioni del nord, e dai sopranisti e contraltisti nel repertorio rinascimentale e barocco. Si tratta di un registro per natura povero di armonici e debole d’intensità, regolato da un innalzamento laringeo che produce allungamento e stiramento delle corde vocali a opera del succitato muscolo cricotiroideo, e che genera un’area di vibrazione più piccola e di “sfondamento” (equilibrio pressorio e resistenza glottica) più facile per la vibrazione del solo bordo delle corde vocali e non della loro massa. L’amplificazione del suono bianco tipico del falsetto può evolversi in falsettone, suono prezioso nei nostri cori per muoversi in ambito acuto (cfr. Anton Bruckner, mottetti per coro maschile a cappella; Felix Mendelssohn-Bartholdy, mottetti e Lieder). La pratica non è delle più semplici, ma con una buona guida e un adeguato appoggio si possono ottenere discreti risultati. L’immagine sonora del coro misto nella letteratura dal XVIII secolo è quella di un ripieno d’organo in cui le voci femminili fan bella vista se alle loro spalle si stende un corpo sonoro di voci maschili armonico, timbrato e omogeneo, quasi una rappresentazione pittorica dove l’immagine in luce emerge di più se impressa su un fondo più scuro.
A tutto ciò si aggiungono altri elementi che concorrono al raggiungimento di un “ideale vocale” individuale e corale. In primis la corretta pronuncia delle lingue, in particolar modo della latina e italiana: si presta maggior interesse e attenzione al suono di altre – inglese, francese, tedesco – e non si “studia” né si curano le suddette. Un diverso accento è-é e ò-ó eseguito all’interno di un brano e non uniforme nelle sezioni corali produce un bisticcio armonico; diversamente in una scelta uniforme si ottengono risultati armonici omogenei, completi e ampi. Per esemplificare: soprani e tenori pronunciano «Déus» mentre alti e bassi «Dèus», oppure alcuni «ét» altri «èt»! La nostra scuola non è molto di aiuto in ciò, anche a causa di influenze dialettali locali e regionali, ma un contributo didattico importante lo possiamo trovare in un buon dizionario di pronuncia e fonetica e un attento uso dell’ascolto.
E in tutto ciò a che serve l’orecchio? Un buon formatore vocale non può prescindere dalla conoscenza e dalla funzione dell’orecchio nella ricerca del suono vocale e nell’esercizio dell’attività corale. Il nostro suono vocale lo percepiamo attraverso due vie: ossea e timpanica; la prima è dell’orecchio interno, coclea, la seconda dell’orecchio esterno timpanico. In ogni caso la percezione sonora della nostra voce non è reale; differente e completa è quella di chi ci ascolta. Da qui la considerazione che non siamo in grado autonomamente di valutare la nostra produzione sonora se non abbiamo come riferimento un ascoltatore esterno, il formatore vocale o il direttore di coro ai quali dobbiamo dare credito e fiducia. Certo che il maestro di coro dovrà conoscere bene il processo di emissione e adeguare la didattica del canto a ogni singolo cantore, valutandone con competenza le caratteristiche soggettive. In linea generale le voci femminili hanno spazio di conquista nelle zone medio-gravi, mentre le voci maschili nel registro medio-acuto. L’intervento “manuale” sulle voci femminili per rivelare il loro registro acuto, amplificare la risonanza e abbandonare il suono ancora bianco consiste nel sollecitare la mobilità mandibolare durante la fonazione: i risultati sono molto apprezzabili.
Nella didattica del canto è necessario sviluppare la “memoria sonora”, ovvero l’acquisizione degli intervalli attraverso moduli di ear training per esercitare l’orecchio relativo nel riconoscere intervalli e melodie e saperle ripetere: sentire correttamente e cantare con precisione. Già la didattica kodalyana imponeva il percorso occhio, orecchio, memoria, voce in cui occhio sta per lettura, orecchio per sentire dalla voce o dallo strumento, memoria per archivio, memorizzazione e consapevolezza, voce per capacità di riproduzione precisa.
Fin qui le considerazioni e le modalità per un uso corretto e consapevole utilizzo della propria voce, ma oggi siamo più che mai pervasi da modalità di canto che ricoprono un posto privilegiato nell’immaginario collettivo (rock, pop, metal, reggae, ecc.) anche di una buona parte della nostra coralità. Nulla da recriminare, è il frutto dei tempi ed è, tanto per essere chiari, la ripresa di certe modalità di canto tribali (e non) già esistite. Utile richiamare quanto compositori come Kurt Weill, Leonard Bernstein, Luciano Berio e altri si siano posti all’avanguardia e abbiano osato assimilare altri tipi di vocalità nella propria scrittura, anche per dare l’idea che il mondo non si sia fermato al mottetto rinascimentale o sul palcoscenico del Teatro alla Scala.
Tutte, antiche e nuove vocalità, dalla più controllata a quella “graffiante”, hanno la capacità di creare atmosfere magiche, di ricreare un “mondo” definitivamente scomparso – ancora fonte di insperate emozioni – e un “mondo” che deve far esplodere tutte le sue contraddizioni.
«E così, tutti i musicisti un po’ attenti alle cose che succedono nel mondo si trovano in bilico tra una struttura convenzionale estremamente cristallizzata, dove nulla è lasciato alla fantasia e dove il minimo respiro musicale è stato codificato, e un mondo esterno che li attende, assolutamente sconclusionato, dove tutto è possibile in termini sintattico-emotivi, ma dove poi funzionano in un secondo tempo le leggi, altrettanto ferree, anche se completamente diverse, del mercato» (Françoise Goddard).