«Il mondo è radicalmente cambiato e la coralità non sfugge a questo mutamento», dice Italo Montiglio, che del Concorso Internazionale Seghizzi di Gorizia è, da decenni, il factotum. «Rispetto al degrado di molti altri settori, mi sento tuttavia di affermare che la qualità media dei cori sia nettamente migliorata».
Una visione condivisa anche da Carlo Pedini, presidente del Polifonico di Arezzo, che giudica cambiate «in meglio certamente le capacità organizzative e il livello generale dei concorrenti. In peggio sicuramente le risorse disponibili e le condizioni gestionali. Fino a non troppi anni addietro i soggetti a partecipazione pubblica come il nostro operavano senza troppo badare al bilancio: i passivi venivano automaticamente ripianati dall’Ente di riferimento. Oggi siamo invece chiamati a ripianare i passivi che abbiamo ereditato».
Gli fa eco Carmine Catenazzo, che da quattro anni organizza un concorso a Matera: «La principale difficoltà che si incontra è di ordine finanziario. È sempre difficile reperire le risorse necessarie per le semplici spese vive e altrettanto coinvolgere, specie in questo periodo, enti pubblici e privati a sostegno della manifestazione. Il resto viene dopo: appetibilità del concorso, location, ecc…».
Una formula comunque non in crisi, a detta di Andrea Angelini, promotore del Concorso di Rimini: «Basta sfogliare una rivista specializzata in musica corale internazionale per constatare che ci sono centinaia di festival e di concorsi, anche se non tutti seri, purtroppo. Oggi l’organizzazione di un festival è vista da qualcuno come occasione di business». Ma perché si organizza un concorso? «Nel mio caso», dice Andrea Angelini, «un’assidua presenza internazionale come membro di giuria mi ha portato ad appassionarmi anche alla parte organizzativa. Ho avuto fortuna perché il progetto è risultato interessante per il comune di Rimini che ci ha supportato anche economicamente».
Altre volte si approfitta di un vuoto da colmare: «Nel nostro caso», racconta Carmine Catenazzo, «lo si è fatto perché mancava un concorso perché era un evento assente in Basilicata e nelle regioni vicine. Abbiamo voluto arricchire l’offerta culturale del locale attirando l’interesse dei cori verso il territorio e del territorio verso la coralità».
Rispetto al dibattito di quindici anni fa, sembra oggi molto ridimensionata la contrapposizione tra i fautori del concorso e suoi negatori per principio.
Il concorso è una tappa non obbligata ma auspicata. Il coro non vive per fare concorsi ma è diffusa l’idea che il concorso costituisca un banco di prova, sia un modello di lavoro.
Questo il pensiero del direttore lombardo Fabio Triulzi: «Pur non essendo amante dei concorsi, ritengo opportuno, dopo un serio lavoro di sviluppo della tecnica vocale e del repertorio, provare a fare il punto della situazione affidandomi al giudizio di una giuria di concorso». Competitivo, tutto sommato, il direttore lecchese: «Sicuramente un concorso dev’essere affrontato non dico con la possibilità di vincerlo, ma almeno di ottenere buoni risultati».
Un’assidua frequentatrice di concorsi, nella doppia veste di giurato e di direttrice del Coro Polifonico di Ruda (Ud) come Fabiana Noro, sostiene: «Mi stimola, innanzitutto, che lo studio finalizzato al concorso sia sempre estremamente accurato; non che, normalmente, non lo sia, ma per il concorso si cerca di curare ogni minimo dettaglio sapendo che tutto verrà analizzato nelle minime sfumature; un concorso è poi ottimo incentivo per preparare repertori nuovi e diversi».
Impostazione condivisa anche da molti coristi, come Adalgisa Condoluci, del Coro Giovanile Italiano. Per lei «un concorso è una stazione di arrivo e un traguardo che il coro e il direttore si danno come punto di partenza per il percorso successivo».
Anche per Giulia Beatini, corista del Janua Vox «il concorso ha, rispetto al concerto, alcune caratteristiche peculiari: in particolare il tempo relativamente breve per realizzare il frutto di un lavoro lungo dettagliato, scrupoloso e la presenza di persone competenti che esprimeranno il loro giudizio. L’attenzione cresce, si impone un controllo più fermo sulla propria stabilità emotiva e questo col tempo migliora la propria capacità tecnica».
Più articolato il giudizio di Andrea Lagomarsino, anch’egli corista del Janua Vox, che, dopo questa fase, vede quella in cui «una volta che il corista ha maturato un gusto e un orientamento estetico, le possibilità offerte da un concorso gli appaiono ristrette rispetto al terreno, più libero sul piano della ricerca artistica, del concerto».
Una posizione, per certi versi, coincidente con quella del suo direttore, Roberta Paraninfo, che in fondo vede il concorso come una tappa intermedia, cui far partecipare «un coro da far crescere, cui dare mete e obbiettivi; o anche un coro che non abbia una attività concertistica affermata, da far conoscere».
Unanime la convinzione che il concorso sia un luogo privilegiato di incontro, una specie di fiera dove trovi un concentrato di esperienze tali per cui l’ascoltare è non meno importante del cantare: «un momento importante», dice Andrea Lagomasino, «è quello successivo alla propria esecuzione, in cui i coristi, seduti in platea, ascoltano gli altri sul palco. Il corista avrà la possibilità di esercitare pensiero critico sul proprio lavoro artistico e su quello degli altri attraverso il confronto e in questo modo progredire nella formazione di una personale idea estetica e artistica».
In fondo, anche per gli organizzatori, chiosa Italo Montiglio, «la motivazione più importante è la promozione e la valorizzazione dell’eccellenza corale».
Con queste premesse, non stupisce che vincere un concorso sia una soddisfazione, ma non sia l’obbiettivo: «Nel coro non mi sento mai un arrivato e pertanto accetto e son felice di trovare sempre qualcuno più bravo. Pertanto, vincere un concorso non ha nessuna importanza», dichiara senza timore Giancarlo Rossi, corista del Coro S. Giorgio di Fiorano (Bg). «Piazzarsi bene dà certo soddisfazione, anche solo per il lavoro svolto e diventa incoraggiamento per il futuro. Ma anche questo può spiazzare. Molte volte il direttore non è all’altezza; qualche volta è presuntuoso; troppe volte si accontenta o si rassegna allo strumento che ha in mano».
«Nessun risultato positivo o negativo», è il pensiero di Giulia Beatini, «può intaccare lo studio mirato realizzato in vista del concorso e la conseguente crescita personale e del coro. Inoltre, il confronto con le altre realtà corali dovrebbe mettere in moto il senso critico e permettere di valutare il risultato del concorso secondo criteri più oggettivi, al di là dell’appagamento o della delusione derivante dal risultato».
Anche Adalgisa Condoluci conferma: «Vincere appaga l’animo nell’immediato, ma ciò che più mi diletta personalmente è lo studio del dettaglio, la meraviglia nell’ascoltare un suono così concentrato durante una prova cruciale, l’orgoglio di far parte di un insieme che sa divenire corpo unico, e sa trasmettere un messaggio con chiarezza e passione. Di sicuro preferisco il “durante” al “dopo”, e sebbene una vittoria ripaghi ogni sforzo fisico ed emotivo, amo il confronto più del verdetto».
Plaude, dal podio direttoriale, anche Fabiana Noro: «Cercare di raggiungere il massimo, che ovviamente è relativo alla propria formazione e alle sue caratteristiche, è sempre una motivazione che supera tutti gli altri aspetti».
Sulla stessa linea anche Silvana Noschese, direttrice salernitana: «mi invoglia a partecipare a un concorso l’avere un obiettivo, una scadenza, un impegno che dia una scadenza precisa allo studio; la possibilità di ascoltare cori altrettanto preparati; esplorare in maniera approfondita repertori diversi; offrire al coro un momento intenso, adrenalinico, dove misurare lo stato dell’arte del proprio gruppo; sapere che per lui sarà un momento di coesione, di autovalutazione, di ascolto».
Realistico il pensiero di Roberta Paraninfo: «Le valutazioni negative fanno parte del gioco: iscrivendosi a un concorso si metterà in conto la possibile delusione, che porterà comunque con sé, anch’essa, un gradino di crescita». La sua preoccupazione va invece alle possibili conseguenze: «Il concorso, non deve mettere a repentaglio l’equilibrio del gruppo ma deve essere preso come una fotografia del momento, che nell’istante successivo sarà modificata, come nel naturale svolgersi della vita».
Raccolto, senza dubbio, il consenso di Eraclito, la direttrice genovese può dormire sonni tranquilli: il coro, a detta degli intervistati, sa tenersi unito anche nella cattiva sorte. I; di questo è convinta Adalgisa Condoluci, che prosegue: «Il direttore sa quali parole e quali modi utilizzare per evitare di ledere l’entusiasmo dei coristi».
Si stacca dal “coro” Giancarlo Rossi: «Un giudizio negativo poco influirebbe sul rapporto tra il mio coro e il direttore. Il mio pensiero, invece, potrebbe essere più vicino al giudizio della giuria, che sarebbe determinante nella decisione di non continuare il rapporto con questo coro e con questo maestro ma di cercare una scuola migliore».
Con la stessa apertura si passa dalla semplice graduatoria al giudizio più articolato espresso dalla giuria, magari nel corso di un colloquio, come previsto da diversi concorsi. «I giudizi li aspetto e voglio tornare a casa con nuove tracce e nuovi spunti sui quali riflettere e crescere: siamo qui per migliorare», dice Silvana Noschese. Da parte loro i giurati sentono questa responsabilità.
Secondo il bolognese Daniele Proni, «tendenzialmente, chi desidera un riscontro diretto con la giuria lo fa solitamente per avere indicazioni “positive”, ossia che possano aiutare a ottenere migliori risultati per le performance future».
Nel trasmettere il giudizio, riflette Ivan Florjanc, «il giurato deve essere un delicato comunicatore, con doti di empatia intelligente, in particolare con quelli che hanno reso di meno. Dall’altra parte, il modo di vivere il colloquio dipende anche dall’intelligenza autocosciente e dalla maturità emotiva del singolo direttore, consapevole dei limiti suoi e del suo coro. Lo stesso potrebbe valere per il singolo corista e per il coro preso come corpo unico. Le persone creative e innovative, del resto, amano mettersi a confronto. Certamente conosco momenti di tensione avvenuti durante confronti di questo tipo, ma li ho sempre motivati con lo stress da competizione».
È il direttore romano Fabrizio Barchi il più problematico tra i giurati: «Se i maestri in concorso sono giovani posso dare una mia opinione probabilmente utile, ma non so veramente cosa dire a un collega che ha un blasone internazionale, come mi è successo all’ultima edizione del concorso di Malcesine. Dare suggerimenti a Mario Mora o a Roberta Paraninfo è imbarazzante: magari fanno scelte diverse dalle mie, ma c’è dietro un pensiero musicale profondo a suggerirle. Debbo però ammettere che spesso l’atteggiamento di direttori molto noti è più umile di quello di alcuni direttori in formazione».
Dubbi condivisi anche da Carlo Pedini (e infatti il concorso di Arezzo non contempla questi colloqui): «a parte il giudizio sull’esibizione, che comunque risulta dai punteggi ottenuti da ciascun concorrente, ogni altra considerazione dovrebbe tener conto che ogni esecuzione è condizionata da fattori che mutano al mutare delle circostanze. Tentare di dare indicazioni e consigli generalizzati sulla base dell’esito di un giorno di concorso mi sembra difficile e pericoloso. D’altra parte il confronto diretto con gli altri concorrenti resta comunque lo strumento più immediato per dare al direttore e al coro le giuste indicazioni per trarre il massimo vantaggio dall’esperienza vissuta: un confronto in cui il coro e il direttore difficilmente potranno ingannare se stessi sui valori realmente espressi, specie in relazione alle proprie, conosciute, potenzialità».
Ma il giudizio è sempre relativo, non ha il valore assoluto di una competizione sportiva, ricorda Andrea Lagomarsino. «Per fare al meglio il suo lavoro la giuria non dovrà limitarsi a dare il voto ad alcuni aspetti dell’esecuzione, ma considerarla in sé, per il suo valore artistico. Esistono concorsi che abbracciano questo spirito e a questi conviene partecipare».
Ivan Florjanc è invece alla ricerca di criteri meno personali: «tengo lontane le convinzioni estetiche e poetiche personali: ogni coro e ogni brano stimo cosa a sé. Per questa ragione soffro nell’esigenza di dover esprimere giudizi e non semplicemente condividere opinioni, come succede nei rapporti interpersonali». Ancora più deciso Fabrizio Barchi: «Io starei più attento ad aspetti tecnici (intonazione, vocalità, amalgama, equilibrio…). Vedo invece che c’è la tendenza a dare un eccesso di importanza a quella che chiamerei “l’interpretazione condivisa”: se hai la fortuna di trovare in giuria il maestro che sceglierebbe esattamente il tuo stesso tactus, lo stesso fraseggio, allora sei a cavallo».
Difficile, insomma, dare un valore oggettivo al lavoro della giuria, condizionato da mille situazioni. Allora c’è chi preferisce un asettico numero, da consegnate a un segretario che lo sommi a quello degli altri giurati e chi, come Roberta Paraninfo, predilige «di gran lunga i concorsi dove sia possibile comunicare, all’interno del gruppo giudicante, le proprie opinioni, le proprie scelte, i propri dubbi».
Un criterio che sancisce il valore di un coro può essere, secondo Daniele Proni, la rotazione delle giurie. Giurie che, spesso, appaiono troppo statiche, quasi un gruppo chiuso. La continuità non è però sempre giudicata negativamente: «Un giurato che ti ha già ascoltato in altri concorsi può valutare se il coro è in miglioramento o meno», dice Fabio Triulzi, che tuttavia auspica che «oltre ai “capisaldi” della coralità italiana onnipresenti ai concorsi, vadano affiancati giovani musicisti/compositori». Equidistante il giudizio di Ivan Florjanc: «È una cosa neutra. La continuità dei giurati può, da una parte, assicurare una stabilità dei parametri e delle misure nei giudizi. In questo caso il singolo coro può orientarsi meglio sui gradini della crescita, misurarsi negli anni e via dicendo, sempre a patto che il gruppo giudicante mantenga i criteri stabili negli anni. La rotazione, al contrario, introduce una certa vivacità scorrevole nelle aspettative, forse, anche un maggior movimento e varietà dei cori partecipanti».
In generale però il problema è sentito e, in varia forma, affrontato. Andrea Angelini, per esempio, segue queste linee guida: «Nel nostro caso tendiamo a cambiare quasi completamente la giuria ogni anno, lasciando solo un paio di persone fisse, solamente perché questo, in giuste dosi, assicura la stabilità del concorso. Coloro che hanno già partecipato in giuria conoscono bene come si svolgono le prove e possono, attraverso la loro esperienza, rassicurare i “nuovi arrivati”. Vorrei sottolineare», conclude, «che una giuria formata di grandi nomi rende molto più attrattivo il concorso».
Il ricambio è avvertito anche ad Arezzo, come testimonia Carlo Pedini: «la sensazione che un giudizio sempre affidato alle stesse persone potesse portare a qualche rischio di omogeneizzazione un po’ si è avvertita. L’avvicendamento dei giurati nel corso degli anni ha mostrato come non esista un metro unico di giudizio e come il risultato di un concorso, entro certi limiti, può cambiare con giurie diverse. È un fatto che si tratti sempre di giudizi umani e come tali soggetti, ripeto, sempre entro un certo limite, a una possibile oscillazione. Per questo riteniamo auspicabile un continuo ricambio dei giudici, per non rischiare di diventare il concorso dove ci si presenta in un certo modo, si canta in un certo modo, si dirige in un certo modo e via discorrendo. Il ricambio dei giurati è certamente una delle principali condizioni per realizzare un concorso sempre vivo, nuovo e diverso».
Pur con tutti questi limiti e queste difficoltà, la formula del concorso non sembra aver perso il suo fascino e la sua attrattiva.
È il corista Giancarlo Rossi a dare la sentenza finale di assoluzione: «Se qualcuno mi chiedesse: “Ma perché arrivare fino al concorso?”, ecco la risposta: Perché il concorso è una verifica qualificata di quanto penso come cantore amatoriale, senza grande preparazione musicale ma né cieco né sordo al bello!».