Non per niente la scoperta della policoralità sconvolse così tanto l’ambiente compositivo della polifonia da portare gli esecutori – con enorme soddisfazione degli astanti, fino ad allora praticamente ignorati – a percorrere le strade più impervie e improbabili nella dislocazione delle diverse sezioni del coro all’interno delle chiese e dei luoghi dei concerti. Già prima di questa pratica si denotava chiaramente il desiderio dei compositori di costruire i brani secondo una struttura che mettesse in evidenza i diversi timbri del coro, e sfruttasse i colori delle diverse voci presentando le entrate dei temi secondo una precisa successione. Essa poteva sfruttare la contiguità del colore vocale tra cantus e altus, oppure ricercare la contrapposizione tra le voci con vibrazioni piene delle corde vocali (tenor e bassus) e quelle con vibrazioni parziali dei falsettisti (cantus e altus). Quando i cantori del coro antico poterono disporre delle parti separate, allora cominciarono ad allontanarsi dal librone, affrancandosi dal circondarlo strettamente per poter leggere le note dalla grande pagina comune. Fu quello il momento in cui le sfaccettature timbriche esposte poc’anzi si arricchirono della componente spaziale, creando per la prima volta una sorta di fronte stereofonico diversificato nello spazio oltre che nel timbro. La storia della riproduzione sonora del secolo scorso ha poi da sempre cercato di ricostruire artificialmente la spazialità del suono che gli esecutori producono durante una esecuzione dal vivo. La scoperta della stereofonia aprì infatti una voragine nel panorama della ripresa e della riproduzione sonora: essa altro non è che la stessa stereofonia generata automaticamente da qualunque coro disposto in un semicerchio largo. In questo caso, infatti, attraverso la successione delle entrate nella polifonia, si assiste a un continuo movimento della sorgente del suono, che si sposta da sinistra a destra e viceversa.
Tutto questo notevole entroterra storico e musicologico viene purtroppo negato nel momento in cui il direttore disponga il coro a quartetti consecutivi, dal momento che ogni sezione presenta i suoi cantori allungati a occupare tutto il semicerchio lungo il quale è disposto il coro. Ognuna delle diverse entrate della polifonia proverrà quindi uniformemente da tutto il semicerchio, senza alcuna differenziazione spaziale e stereofonico/quadrifonica. Il risultato acustico risulterà impoverito, identico a quello deludente che si poteva sentire quando si premeva il tasto mono-stereo durante la riproduzione musicale da un impianto stereofonico. Bisogna però riconoscere che la situazione cambia radicalmente in meglio nel caso in cui il coro esegua un brano omofonico. In questo caso la disposizione a quartetti garantisce l’ottenimento di una fusione e di una densità di suono difficilmente raggiungibili con la classica disposizione a sezioni separate.
D’altra parte è davvero un peccato che la disposizione a quartetti contenga insito questo grave punto debole, dal momento che essa possiede anche notevoli e innegabili potenzialità didattiche. In effetti il timore che il non ritrovarsi calato nell’avvolgente presenza protettiva della sezione intera possa inibire il cantore, lascia il posto alla maggiore consapevolezza del proprio ruolo, e alla responsabilizzazione che egli scopre e acquisisce in questa nuova posizione solitaria.
Possiamo enumerare alcuni importanti vantaggi di questa disposizione, prima di cercare una soluzione che ci permetta di godere degli stessi benefici senza risentire del difetto congenito:
Nelle foto seguenti un esempio di doppio coro e di coro spazializzato.
Tutti questi stessi vantaggi sono ottenibili con una disposizione simile, che però ha il grande pregio di non patire lo stesso difetto di quella a quartetti sul piano della limitazione omofonica del suono. Si tratta di alternare un soprano e un tenore fino all’esaurimento delle voci acute, e di continuare sullo stesso unico semicerchio con le voci gravi dei contralti e dei bassi. Si ottiene così un largo fronte di suoni, che però mantiene perfettamente definite le differenti provenienze.
Da sinistra proverranno le voci acute dei soprani e dei tenori, da destra quelle più gravi dei contralti e dei bassi. Nella polifonia classica il tema si sposterà continuamente da sinistra a destra e viceversa, con un assetto spiccatamente stereofonico impossibile da raggiungere con la disposizione a quartetti. Questa disposizione, inoltre garantisce una sorprendente apertura del suono, che non è in alcun modo ottenibile nella disposizione consueta a sezioni compatte. Questo perché ogni sezione occuperà uno spazio doppio rispetto alla disposizione compatta classica. A onor del vero occorre menzionare un possibile aspetto negativo di questa disposizione. Esso è legato al fatto che il semicerchio così allungato necessariamente costringe il coro ad allargare le due estremità, allontanandole fino a creare la possibilità che i cantori all’esterno possano avere difficoltà nel sentire bene vicendevolmente le altre sezioni di fronte. Questo non succede con la disposizione a quartetti, dal momento che ogni gruppo di quattro cantori è completo e autosufficiente.
Abbiamo detto che la disposizione a quartetti risulta estremamente efficace nell’esecuzione di musica di carattere omofonico; adesso siamo arrivati a definire una dislocazione del coro alternando i cantori a due a due, che mostra una grande caratterizzazione per la musica di carattere polifonico.
La domanda è: ma chi impedisce al direttore di far assumere al coro diverse conformazioni durante il concerto, in relazione al brano da eseguire? Infatti si vede sempre con maggior frequenza come nei concerti e anche nei concorsi i cori cambino disposizione a ogni brano che eseguono. Oltre all’effetto fortemente positivo sull’ascolto da parte del pubblico, il quale fruisce della situazione acustica ottimale per ogni brano, questi movimenti rappresentano coreografie minime che, se ben sperimentate e altrettanto ben collaudate, ottengono il risultato di dare variabilità a un tipo di concerto, quello corale, che si contraddistingue da sempre per una non eccessiva mobilità di costruzione. A questo proposito si rivela altrettanto fondamentale la diversificazione della formazione stessa della compagine corale, che potrebbe esprimersi nelle diverse possibilità offerte dal numero dei cantori. Eseguire ad esempio al centro del concerto un brano per voci maschili, in seguito un altro per sole voci femminili, uno di musica antica con un quartetto, un altro ancora per solista e coro ecc. contribuisce in modo straordinario a dare varietà al concerto, e a rinnovare il livello di attenzione e di concentrazione del pubblico. Inoltre la specializzazione e la caratterizzazione dei cantori nella nuova disposizione e nelle varie possibilità esecutive garantisce un attaccamento ai ruoli e un rinnovamento dell’entusiasmo che la routine della conformazione classica potrebbe avere appannato nel corso degli anni.