Il palco regala endorfine, ci fa formicolare la pancia e tutte le volte pone noi stessi in una condizione privilegiata di contatto con il nostro “io”. Siamo come catapultati in un luogo amplificatore di noi stessi con casse puntate ovunque verso di noi e l’esterno. Avete mai avvertito, tuttavia, al di là di quella gratificazione egocentrica, la sensazione di incompletezza a seguito di un concerto? La certezza di non aver trasmesso al pubblico ciò che la nostra autentica esigenza espressiva (autentica poiché vera per noi) richiedeva, nonostante l’impegno nell’esecuzione?
Il nodo risiede nell’interazione tra artista e pubblico, nel delicato confine tra necessità di esprimere se stessi, aspettative di condivisione di vissuti analoghi, senso di appartenenza, rabbia dovuta alla difficoltà di adattamento e riversata in modelli espressivi provocatori, genialità, talento.
La maggior parte delle informazioni nei rapporti con gli altri esseri umani avviene attraverso la lettura della componente non verbale. Sul palcoscenico, che tu sia gobbo, zitto e timido o aggressivo, disinibito, empatico, stai sempre comunicando qualcosa agli altri, anche qualcosa non necessariamente in linea al tuo atteggiamento esteriore. Vale dunque la pena fermarsi un attimo e chiedersi «Ho qualcosa di importante da dire? Ciò che sto esprimendo davvero coincide con quello che vorrei esprimere?», vale la pena rimanere attenti e vigili rispetto a come siamo e stiamo davanti agli altri.
Per mantenere uno stato più elevato di presenza è consigliabile, ad esempio, non dover avere a che fare con partiture, quando è possibile. Per alcuni cori suona come una imposizione scomoda, probabilmente perché non risulta chiaro quanto la memorizzazione delle parti possa fungere da preziosa occasione per lavorare su altro e alzare nettamente il livello performativo. Chi canta o suona leggendo una partitura utilizza più del 50 per cento della sua attenzione complessiva nella vista: gli rimane poca energia da dedicare al resto del corpo.
L’intenzione di verità produce qualcosa di artistico attraverso di noi, lasciando che la musica scorra senza intralciarne il flusso. Possiamo lasciare o impedire che questo accada solo ascoltando in modo sincero quale emozione si muove dentro di noi nel cantare un determinato brano e prendendo coscienza delle produzioni di senso musicali, testuali, emozionali e filologiche (lo stesso compositore avrà affidato, più o meno consapevolmente, un significato alla propria partitura).
Difficilmente però ci accorgiamo delle emozioni che sentiamo e del modo in cui siamo portati a esprimerle. Delle svariate componenti che costituiscono la complessità dell’emozione, quella psicosensoriale (vedere il pubblico, toccare qualcuno che scatena l’emozione), quella emotiva viscerale o neurovegetativa (aumento dei battiti cardiaci, cambiamenti nella respirazione/salivazione, etc.), quella motoria (mimica o movimento dei muscoli), siamo in grado di riferirci quasi esclusivamente alla psicocognitiva. Siamo infatti così allenati a gestire il nostro scenario mentale con i ricordi, le idee, le proiezioni, da dimenticare quanto le altre componenti, più strettamente incarnate nella fisiologia del corpo, siano in grado di produrre l’emozione e mantenerla nel tempo.
Eppure il “come” portiamo la nostra voce agli altri, come camminiamo, la nostra pancia, le mani, il respiro sono determinanti, fanno la differenza. Il pubblico, ovviamente, lo sente. Quando i robot, tra qualche decennio, rimpiazzeranno totalmente il lavoro di coristi e orchestrali, ci renderemo conto che non bastava la tecnica, né l’errore. Che cosa mancava allora? Se i nostri compagni coristi possono aiutarci a far arrivare il nostro messaggio al pubblico, per riuscire nell’intento è indispensabile conoscere quale sia, interrogarsi sui motivi che ci spingono a voler cantare con altri, a qualcuno. Se esiste una missione dichiarata da compiere insieme con qualcuno, un obiettivo condiviso, dobbiamo allentare le difese e imparare a fidarci.
Fidarci del direttore, ad esempio. Soprattutto, e qui viene il difficile, affidare a lui/lei le nostre parti fragili. Riporre piena fiducia in una persona diversa da noi stessi richiede per alcuni un coraggio da eroi. Se dopo esserci conosciuti per qualche decennio (chi qualche anno in più, chi meno) abbiamo compreso le strategie per non andare a toccare i nostri veri punti deboli, per rimanere nella cosiddetta comfort zone, un buon direttore di coro può essere colui che scalfisce e lede la dorata corazza. Egli, nella misura in cui glielo permettiamo, può scomporci e ricomporci, aggiustando quinte, quarte, ottave, giocando sulle nostre dinamiche interne. Può fare male, crescere fa male.
Ecco la giusta predisposizione al successo, quello di squadra e quello personale: mettersi costantemente in gioco rinunciando a proteggere forzatamente ciò che sappiamo già di noi stessi.
Una volta che abbiamo ragionato sul messaggio che vogliamo condividere e abbiamo deciso che siamo disposti a lavorare personalmente e collettivamente per raggiungere l’obiettivo, cosa può fermarci? Ancora e sempre loro: le emozioni.
Negli ultimi anni di approfondimento ho personalmente individuato alcune chiavi pratiche fondamentali dalle quali partire per un buon lavoro mirato alla presenza scenica, aspetti che costituiscono la premessa per salire sul palco e che nei corsi dal vivo sviluppo in modo approfondito facendole vivere sulla pelle e “fissare nel corpo” per mezzo dell’esperienza, con l’utilizzo di diversi esercizi di presenza mirati.
Negli ultimi anni di approfondimento ho personalmente individuato alcune chiavi pratiche fondamentali dalle quali partire per un buon lavoro mirato alla presenza scenica, aspetti che costituiscono la premessa per salire sul palco e che nei corsi dal vivo sviluppo in modo approfondito facendole vivere sulla pelle e “fissare nel corpo” per mezzo dell’esperienza, con l’utilizzo di diversi esercizi di presenza mirati.
Da dove possiamo partire? Se ci risulta difficile rimanere presenti a noi stessi sul palco è perché nel momento in cui ci esponiamo agli altri si pongono in allerta più o meno intensa le parti del cervello preposte alla difesa più inconscia e primordiale (per esempio le amigdale). Un ottimo modo per arrestare questa reazione di difesa è “distrarre” il cervello attivando la maggior porzione possibile di corteccia celebrale, la sede della consapevolezza. Così i neuroni impiegati saranno in quantità maggiore rispetto a quelli preposti alla reazione automatica, e la loro attività sarà numericamente e qualitativamente prevalente. Focalizzando l’attenzione sulle dita o sulla bocca, che sono parti del corpo rappresentate in maniera più estesa sulla corteccia celebrale perché più evolute, si attiva massicciamente la parte del cervello interessata e da lì sarà poi più facile spostare la consapevolezza sulla nostra azione canora o strumentale.
Possiamo dunque concentrarci sulla punta delle dita, possiamo muoverle di pochi millimetri, sfregandole leggermente tra loro, con totale attenzione rispetto ai movimenti che stiamo compiendo. Si tratta di un movimento che se fatto con discrezione non viene percepito dal pubblico durante l’entrata sul palco. Dietro le quinte possiamo invece massaggiarci le mani, le dita, il viso. Questo ci aiuterà da subito a portare consapevolezza alle spalle e a rilassare la colonna.
Un insieme di esercizi particolarmente funzionali sono quelli che ho raccolto e denominato “chiave-drone”: prendete le macromisure del palcoscenico/locale/chiesa/teatro e immaginate di guardarvi da fuori, come se i vostri occhi fossero su un drone disposto in altezza sopra al pubblico. Immaginatevi parte dell’ambiente e sentitelo come familiare.
Prendere confidenza con il luogo in cui ci si esibisce è fondamentale, sentirsi parte del contesto nella sua interezza può permetterci di sentire una fusione particolare che ci radica al palcoscenico e si tramuta velocemente in sicurezza naturalmente percepita da parte dell’audience. Prima di ogni concerto o cinque minuti prima dell’inizio delle prove, il coro dovrebbe prendersi qualche minuto per camminare liberamente nel luogo deputato all’esibizione o in tutto il teatro. Cerchiamo di occupare tutti gli spazi a disposizione e di non lasciare parti del palcoscenico vuote: questo esercizio effettuato di prassi in campo teatrale consente di aumentare la percezione delle altre persone coinvolte nell’attività e di uniformare gli spazi individuali. Lo si può fare anche dopo l’ingresso del pubblico.
Molte cose ci sarebbero da dire rispetto all’entrata in scena (occorre provarla almeno quanto si provano i brani eseguiti), allo sguardo dei coristi, la distanza tra essi, i movimenti legati alla spazializzazione di alcuni brani. Durante l’esibizione, i piedi devono essere leggermente aperti ma non sporgenti rispetto all’apertura delle spalle, la schiena deve essere naturalmente dritta e le spalle mai indietro, bensì in fuori. Dobbiamo immaginare che si espandano lateralmente, aprendoci uno spazio frontale di inclusione e non di fronteggiamento. Se per esigenze sceniche o personali si è portati a compiere un qualunque gesto o spostamento, lo si sperimenti prima davanti allo specchio o davanti a critici compagni. Se si tratta di un gesto inaspettato e si è già di fronte a migliaia di persone, allora ci si metta completamente a servizio di quel gesto. Siate lì, presenti, nella muscolatura impegnata a compiere quel movimento, siate veri, al servizio dello spazio e dell’intenzione. Rispetto agli inchini: filmatevi e create un momento di confronto costruttivo. Tra i modi efficaci e belli di inchinarsi (le mani sulle cosce esternamente alla giapponese, frontalmente, mani sul cuore, mano nella mano, etc…) ogni gruppo, ogni direttore deve decidere il suo. Le ballerine alle volte s’inchinano fino ad arrivare quasi a toccarsi con la testa le ginocchia, in un coro occorre decidere di quanti gradi inchinarsi e che tutti arrivino effettivamente non dopo la linea immaginaria concordata.
Insomma, il palcoscenico costringe a costanti interrogativi.
Non c’è niente che mi piaccia di più al mondo che investigare sulla componente espressiva dell’arte, del “fare musica” in particolare. Una volta acquisita libertà sul piano esecutivo, ci si apre un mondo che crediamo un po’ ingenuamente di poter controllare, del quale però sappiamo ben poco. In conservatorio siamo sempre così presi a occuparci del come che dimentichiamo del perché facciamo musica, eppure tutto si muove attraverso il flusso di quel sentire emotivo, cristallizzato nel corpo, al quale non rivolgiamo abbastanza attenzione e spazio nel nostro agire quotidiano.
È tempo di dare allo strumento della voce il posto che merita e assumerci la responsabilità di starci (non dietro, non davanti) insieme, consapevolmente, di essere una cosa sola con la propria voce e il proprio corpo, nonostante le ferite, nonostante tutto, senza paura, un tutt’uno con il proprio intento di presenza. Forse, tra tutte, la domanda più saggia che mi pongo costantemente è questa: «Dove sono, quando non sono sul palco?».