Oggi l’età delle componenti iniziali del gruppo, a cui in seguito si sono aggiunte figlie e nipoti, si avvicina e in molti casi supera gli ottant’anni, ma la grinta, l’instancabile voglia di cantare e raccontare storie attraverso la musica e l’incredibile vitalità con cui porgono ancora i loro brani le rende un gruppo musicale davvero unico. Nell’ascoltare le Mondine di Novi, si possono rivivere ancora le emozioni e i suoni delle straordinarie registrazioni degli anni Sessanta dell’istituto Ernesto de Martino [1] ma anche i risultati di collaborazioni che nessun altro coro di quella età può vantare, ovvero con l’elettronica e il mondo musicale giovanile del cosiddetto combat folk. [2]
Come nasce questo coro?
Nasce da un gruppo di donne che aveva condiviso molte cose nella vita: miseria, guerra e resistenza, lotte per la conquista di diritti fondamentali dei lavoratori, ma soprattutto aveva condiviso l’esperienza della monda dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta, con tutto quello che significava, canti compresi. Queste donne, tutte più o meno coetanee, ancora bambine per sopravvivere si erano ritrovate in Piemonte, lontane dalle loro case, a fare le mondine. Poi per molti anni non avevano più cantato assieme: inizialmente si aveva anche voglia di dimenticare quel periodo così duro di giovinezza negata, ma la casualità dei canti spontanei di una gita in pullman fanno nascere l’idea di costituire un coro. E così quasi per gioco, nei primi anni Settanta si sono ritrovate di nuovo insieme a condividere un’altra esperienza: sono diventate il Coro delle Mondine di Novi.
Ci puoi spiegare chi erano le mondine?
Per il lavoro della monda, cioé estirpare le erbe infestanti e piantumare il riso, si reclutavano soprattutto ragazze giovanissime, alcune di soli tredici anni, in quanto pagate meno dei maschi, considerate più docili e con le manine svelte. A fine aprile/maggio salivano su un lungo treno bestiame che le raccoglieva dall’Emilia Romagna e dal Veneto e le portava verso il Piemonte: Novara e Vercelli. I capisquadra, maschi, andavano a prenderle alla stazione con i carri e poi via, verso le cascine disseminate tra campi e risaie, per 40-45 ininterrotti giorni di lavoro. Sempre in gruppo, allora come oggi: nel lavoro, nel canto, nella vita. Sveglia alle 4.30, al più tardi alle 5, ai primi chiarori, raggiungevano le “terre bagnate” e lì iniziavano la giornata di lavoro che durava 10-12 ore o più. Il lavoro era veramente duro. Nelle varie “quadre” [3] in cui venivano suddivise le risaie, squadre di donne (sei/sette fino a dodici/quindici), si disponevano in file parallele: scalze, con un grande cappello, sottana o pantaloni tagliati e arrotolati e calze sopra il ginocchio. Manicotti al braccio per proteggersi da insetti di ogni tipo, biscie, topi d’acqua. Così, a testa in giù, in mezzo all’acqua dall’alba al tramonto a mondare il riso. Guadagnavano qualche soldo per aiutare la famiglia, vivendo le prime esperienze di emancipazione fuori di casa. Imparavano a convivere e anche a cantare. E quei canti di monda, come anche il modo in cui renderli, sono cose che non si dimenticano.
Che tipo di brani cantavano queste ragazze?
In generale, molti dei canti erano preeesistenti, imparati in famiglia, come ballate epico-liriche (la Pinota, Donna Lombarda), canti di protesta, sociali, anarchici e sull’immigrazione (Addio Lugano bella, E da Genova il Sirio partiva, E dall’Italia siamo partiti), la dura conquista delle otto ore di lavoro (Combattete lavoratori, Sciur padrun, Sentite buona gente, Se otto ore) e naturalmente vi erano anche canti che descrivevano la durissima condizione di queste lavoratrici poco più che bambine e la nostalgia di casa, oppure canti d’amore o allusivamente erotici (O cara mama, Alla mattina, Amore mio non piangere, Ama chi ti ama, Senti che aria rigida, Ho passato in quel boschetto). Si cantavano sia brani del repertorio militare che di protesta contro la guerra (Sento il fischio del vapore, Sono nato campagnolo, Noi vogliamo l’eguaglianza). Sostanzialmente in cinquant’anni di canti vediamo rappresentate le maggiori lotte contrattuali e di conquiste civili e sociali dello scorso secolo!
Musicalmente e da un punto di vista vocale, come si può descrivere questo repertorio?
Le squadre di mondine erano omogenee come provenienza, perché si formavano praticamente in paese, e in ogni squadra c’era sempre quella che sapeva di avere una bella voce e che “capiva” quando era il momento di cantare. A quel punto, immersa nell’acqua, cominciava una sorta di chiamata, di squilla con voce acuta, quasi un grido, un «Attenzione, ho qualcosa da dire». Quando la “prima” era partita, si aggiungevano le altre “prime”, poi quelle della seconda voce e poi alla fine le voci più basse, i bordoni. Si cantava sempre a tre voci, qualsiasi fosse il numero delle persone. In passato, quando le voci erano più giovani, la prima che cominciava aveva un attacco acuto, sicuro e spavaldo, e durante l’esecuzione non era raro che le voci si spingessero sempre più su come intonazione. Si cantava e si canta tuttora sempre in maniera libera, sia come fraseggio della melodia che come abbellimenti. La voce delle mondine è spontanea, gagliarda, estroversa, con dei suoni aperti, sempre acuta e sonora! Non esiste il sottovoce, bisogna farsi sentire!4 Talvolta, quando c’era un argine di mezzo o c’erano più squadre a distanza, ci si mandava degli stornelli improvvisati, dal contenuto ironico e spiritoso, che esaltavano le virtù, vere o presunte, di ciascuna squadra. Di questi brani, che costituivano la vera fase creativa di queste spesso anonime cantanti, purtroppo, non si è riusciti a salvare nulla.
E quando finiva il lavoro della monda?
Finiti i quarantacinque giorni della monda, con la cassetta in spalla, i soldi in seno, il sacco di riso in mano, le mondine riprendevano il treno bestiame e tornavano a casa, con il plauso delle contadine piemontesi che non vedevano di buon occhio queste “forestiere” che per quaranta giorni stavano fuori dal controllo della famiglia, ritenute trasgressive e spregiudicate. Ma tornate a casa, non si viveva di certo meglio. L’essere state in risaia, sintomo di una condizione sociale davvero umile, era considerato con un leggero senso di compatimento, e all’epoca non vi era nessun rispetto per la donna nel mondo arretrato delle campagne italiane. Essere mondina era una condizione temporanea, ma anche tutto il resto dell’anno il lavoro era sempre durissimo: la terra, le mucche, i bambini… Forse inconsapevolmente, attraverso l’esperienza della monda, queste giovani hanno aperto la strada alle lotte per una degna presenza delle donne nella società. Erano ragazze sottomesse che piano piano si sono emancipate.
Come spieghi l’energia che le tue mondine trasmettono al pubblico anche adesso che l’età è piuttosto avanzata?
La forza, la carica dell’esperienza comune è senza pari. Poter trasfigurare un’esperienza di grande sofferenza, poter avere una seconda possibilità di rivivere la gioventù che non si è vissuta è un collante emozionale fortissimo. E poi, poter testimoniare la storia dell’emancipazione femminile, la protesta per condizioni di lavoro più dignitose, l’affermazione della donna nella storia sociale del nostro Paese attraverso il canto! Queste donne, molti anni dopo la monda, si sono ritrovate nel coro: amavano cantare, avevano belle voci intonate e il ricordo di quei canti di risaia è la base del nostro repertorio, col modulo della prima voce, della seconda e del bordone. La prima voce è quella della melodia, la parte più squillante. La seconda è il controcanto che fa la terza sopra o sotto la melodia, e poi c’è il bordone. È il basso: tiene una nota spesso uniforme a seconda della melodia e poi si muove in relazione alla prima voce, ma sempre con voce bassa che dà l’effetto di profondità [5]. Sono voci che a loro vengono d’istinto, non devi certo spiegargliele. Quando provano le trovano da sole. Sanno cercare gli effetti tipici del canto popolare senza che un maestro insegni loro la parte. La trovano a orecchio. Le canzoni, infatti, ancora adesso, nascono facendole.
L’interesse artistico e l’amore che pubblico e musicisti giovani hanno verso le Mondine di Novi è davvero un unicum: a cosa lo attribuisci?
Credo sia proprio il fatto che esprimiamo un’idea di musica come radice, come base, come racconto, una musica che dice da dove veniamo. Terra, radici, senso di giustizia, pace: temi profondi amplificati dal canto e dalla musica. Ed è questo il motivo per cui alcune ragazze giovani hanno deciso di cantare con noi: si sentono “mondine dentro”. Per la stessa ragione musicisti del cosiddetto combat folk ci hanno cercate, e con loro abbiamo ampliato il mondo sonoro con una rilettura moderna delle canzoni popolari [6]. Abbiamo partecipato a importanti festival in Italia e all’estero, [7] e non è un caso che anche all’estero il nostro messaggio arrivi forte e chiaro: spesso a fine concerto ci dicono che «abbiamo qualcosa che va dritto al cuore», anche se magari non hanno capito una parola del testo!
E si può ben dire che il coro, con le sue canterine che non conoscono la musica, di strada ne ha fatta veramente tanta. Oggi il coro continua la sua meravigliosa avventura con l’impegno di ricercare sempre nuove espressioni musicali e con la consapevolezza che i valori e gli ideali che un tempo hanno consentito la conquista di diritti umani inalienabili sono il vero patrimonio da trasmettere ai giovani. Le mondine hanno cantato «la voce della protesta, del rifiuto, del dolore, dell’amore, del riso e del pianto» e, strano ma vero, tutti hanno compreso, tutti hanno respirato la passione che le accompagna e che come il vento tutti coinvolge.
Chiara Ferrari, Il canto collettivo dell’emancipazione, articolo su «Patria Indipendente».
Nunzia Manicardi, Il coro delle mondine - immagini e canti dalle risaie padane, 1996.
Manuela Rossi, Con i piedi nell’acqua, Grafiche Sala, 2010
Ignazio Macchiarella, Il canto a più voci di tradizione orale, in Guida alla Musica popolare in Italia - Forme e strutture, a cura di Roberto Leydi, LIM, ristampa 2019
Note
1. Sentite buona gente, canti delle mondine di Trino Vercellese, 1960, I Dischi del Sole; Amore mio non piangere, Giovanna Daffini, 1962, I Dischi del Sole.
2. Corrente nata in Italia nel 1993 che fa riferimento all’approccio musicale/sociale tipico del folk anni Sessanta. Iniziato dai Modena City Ramblers al nord e dal Canzoniere Grecanico Salentino al Sud, si è caratterizzato per le rivisitazioni di brani della cultura popolare anche con cantori tradizionali e per l’utilizzo di strumenti della tradizione (ghironde, violino, fisarmoniche, zampogne, percussioni varie ecc.).
3. Porzioni di terra allagata di forma quadrata-rettangolare.
4. «Mi ricordo bene quando si cantava», racconta Silva Manicardi, classe 1926. «Noi incominciavamo con canzoni brevi e a bassa voce poi il padrone ordinava: Cantate la canzone dei bersaglieri così andate più forte! Perché era una canzone allegra, e più la canzone era vivace più noi andavamo svelte». «Gli piaceva che cantassimo – aggiunge Diva Lazzaretti, del 1923 – così non parlavamo. Se si chiacchierava, si andava a rilento, invece a cantare si seguiva il ritmo e si stava tutte concentrate».
5. Solitamente la prima e la seconda voce hanno intervallo quasi costante di terza, maggiore o minore. La terza voce ha funzione di basso, spesso a note lunghe di pedale, si muove sui gradi fondamentali della scala e cadenza nella tonalità di impianto. Il raddoppio di alcune voci, all’acuto o al grave, crea spesso intervalli di sesta o di decima.
6. Fiamma Fumana, Modena City Ramblers, Tupamaros, Gang, Flexus
7. Musicultura Festival (Mc), Terra Madre (To), Notte della Taranta (Le), tournée in Lussemburgo, Francia e Slovenia, Stati Uniti e in Canada. Inoltre vantano numerose collaborazioni teatrali con l’attrice Ivana Monti e sono state protagoniste del film Di madre in figlia.