Naturalmente deve essere un gesto ben pensato, frutto di un continuo lavoro di ricerca e approfondimento, e non scaturito soltanto dalla fantasia personale. Il tutto è poi filtrato dalla morfologia individuale, dalla conformazione della mano, dall’uso che si fa delle articolazioni del braccio. Ci sono delle mani che sembrano fatte apposta per dirigere, in grado di assumere spontaneamente delle posizioni efficaci, eloquenti e significative; altre invece non sono state così fortunate, e devono subire un lungo lavoro di controllo, affinamento e perfezionamento.
Specchio e telecamera sono una buona medicina, ma soprattutto l’occhio dell’insegnante è in grado di fare miracoli. Però se l’allievo non studia, non c’è niente da fare. Esistono vizi e difetti della gestualità che accompagnano il direttore lungo tutta la sua vita musicale, se non sono sottoposti a una visione critica e costruttiva da parte sia dell’insegnante che dell’allievo direttore. Poi ci sono quelli che credono di essere diventati grandi direttori quando riescono a dirigere l’Ave verum corpus di Mozart con un quartetto d’archi, e per quelli non ci sono speranze.
Parlavamo di articolazioni. Il braccio ne ha cinque: la seconda falange delle dita della mano (tralasciamo la prima…), la terza falange, il polso, il gomito, la spalla. Ognuna di esse è responsabile di un preciso livello della dinamica. Dalla prima all’ultima il livello dell’intensità del suono deve aumentare, così come deve diminuire passando dall’ultima (spalla) verso la prima (falangi). Allora risulta essere una contraddizione chiedere un piano mentre si sta adoperando tutto il braccio con l’articolazione della spalla. Ricordiamoci sempre che esiste la forza di gravità che agisce continuamente su ognuno di noi. E ricordiamo anche che in questo preciso momento la terra sta ruotando intorno al proprio asse alla velocità di quasi 1700 chilometri all’ora (l’Italia, per la sua posizione rispetto all’equatore, ruota a una velocità di “soli” 1180 km/h). Nel frattempo il nostro pianeta sta ruotando intorno al sole, e in un secondo (!) percorre 30 km, viaggiando a 108.000 km/h. Allora immaginiamo quale forza – seppure inconsapevole – ci voglia per tenere un braccio teso all’infuori, lontano dal busto. In questo caso stiamo utilizzando l’articolazione della spalla e stiamo creando tensione: infatti per tenere il braccio in quella posizione i muscoli devono in qualche modo “contrastare” la grande forza centrifuga causata dai movimenti di rivoluzione e di rotazione della terra. Ecco spiegato perché non dovremmo chiedere un piano se stiamo utilizzando l’articolazione della spalla! Nello stesso senso non si dovrebbe chiedere un forte se stiamo utilizzando solo l’articolazione del polso. A meno che tu sia in possesso di un carisma tale per cui ti basta uno sguardo penetrante e incisivo per ottenere ciò che vuoi. E poi il forte nasce da una sorta di “corrente elettrica” che parte dalla schiena del direttore – almeno di quelli bravi… – e si propaga fino all’ultimo esecutore. Se ciò non avviene non arriva il forte, o almeno non con il livello di incisività e imperiosità che volevamo. Questo è anche il motivo principale per cui molti cori cantano spesso tutto mezzoforte (è la rilevazione più frequente delle giurie nei concorsi corali): proprio perché il direttore usa esclusivamente le articolazioni del gomito e soprattutto della spalla. Semplificando le cose possiamo dire che più le mani sono vicino al corpo e meno “pesano”, quindi meno tensione creano. Viceversa, più sono lontane e più tensione causeranno per il loro peso intrinseco, con il risultato di creare un forte.
Nel nostro corpo esistono altre articolazioni oltre alle cinque descritte: il collo, busto, le anche e le ginocchia. Quando si utilizzano queste articolazioni vuol dire che ci stiamo muovendo troppo, invece una parte della nostra attenzione dovrebbe essere sempre rivolta al controllo dei movimenti di troppo. Il corpo oscilla ai movimenti del busto e delle anche, oppure saltella molleggiando sulle ginocchia. Inoltre può dondolare lateralmente se si continua a passare il peso del corpo da un piede all’altro. Poi c’è chi cammina avanti e indietro pur stando fermo dietro al leggio, perché ha inopportunamente posizionato un piede davanti all’altro, innescando la “camminata”. In realtà l’elenco dei movimenti inopportuni sarebbe lungo. Ci sono anche quelli che per ogni attacco danno il consenso con la testa muovendola come per dire “sì”; quelli che piegano le ginocchia a ogni tactus; c’è chi ha un baricentro troppo ristretto, quindi sensibile ai movimenti delle braccia perché tiene i piedi troppo vicini tra loro; chi si sporge in avanti vivendo il leggio come un ostacolo alla comunicazione verso il coro; chi mima continuamente le sillabe del testo con le labbra. Sono tutti movimenti che hanno come unico risultato quello di indebolire i messaggi delle mani, che sono gli unici a essere essenziali. Insomma dobbiamo sempre chiederci se ci stiamo muovendo troppo e stiamo ultra-conducendo! Quanto al fatto appena menzionato di mimare le parole con le labbra, non bisogna essere indulgenti, anche se sembra un innocuo aiuto dato al coro. In realtà nasconde delle insidie. Prima fra tutte quella che, mentre si lavora un brano polifonico, la sillabazione del direttore aiuta una sezione ma disturba molto tutte le altre, le cui sillabe non corrispondono alle sue. Oltre a distogliere l’attenzione dei cantori dalle sue mani, naturalmente, il sillabare le parole mette a nudo il fatto che il direttore non si fidi dei suoi cantori, e li reputi bisognosi di un aiuto. E questo consolida l’abitudine, e fa letteralmente “pendere dalle sue labbra” il coro, che alla lunga sarà incapace di attaccare senza l’impulso labiale del direttore. Per quanto riguarda l’attacco poi, il coro risulterà sempre in ritardo, perché le labbra del direttore si aprono all’improvviso e senza preavviso. Mi pare sufficiente per decidere di non farlo più…
Ma perché si dice che la mano destra deve battere il tempo e la sinistra si occupa dell’espressività? Sarà vero? Certo, è vero, e dipende dalle fibre piramidali che escono dal cervello, e dalle funzionalità del cervello stesso. È risaputo che i suoi due lobi sono preposti a funzioni diverse. Per semplificare possiamo dire che il lobo destro è preposto alle attività che potremmo definire artistiche, di fantasia, mentre quello sinistro alle attività di tipo logico-matematico. Ma allora qualcosa non torna: il lobo destro è preposto all’aspetto artistico, ma il braccio destro batte il tempo matematicamente. E il lobo sinistro è preposto alla matematica, mentre dallo stesso lato il braccio sinistro si occupa di dare espressività artistica al suono. Ecco le fibre piramidali, che quando escono dal cervello si incrociano e creano un collegamento tra lobo sinistro e braccio destro, e viceversa. Sarà per questo che è così difficile raggiungere una buona indipendenza delle mani, che pure si rivela molto necessaria nell’atto della direzione? In questo senso l’uso della bacchetta per la direzione d’orchestra facilita il compito affidato alla mano destra, innervando la comunicazione con gesti affilati e precisi, e lascia libera la sinistra di esprimersi con gesti più morbidi e indicazioni che conducano gli esecutori all’espressività voluta.
Esistono sostanzialmente due modi di approcciarsi alla direzione: quello secondo la tecnica del levare e quello della tecnica dell’anticipo. Il primo si basa sull’assioma secondo cui un ritmo è definito in presenza di due impulsi. Questo significa che dando un attacco preceduto solo da un non meglio definito respiro, gli esecutori si troveranno ad attaccare magari nell’attimo voluto dal direttore, ma senza sapere quale sia la velocità del tactus da seguire. Essa sarà stabilita solo al momento del secondo movimento della battuta iniziale (se va bene…). Il trucco che ha cambiato le sorti della tecnica della direzione è quello di far precedere l’attacco da un ictus ben visibile, dato prima dell’attacco e posto a distanza di un movimento da esso. In questo modo si giungerà al momento dell’attacco – dato sullo stesso punto del precedente ictus! – con la consapevolezza che esso costituisce il secondo impulso dei due che definiscono il ritmo. L’esecutore sarà quindi in grado addirittura di suddividere questo lasso di tempo in due per eseguire una duina, in tre per una terzina ecc. Nel caso in cui la velocità da imprimere al brano sia elevata (o comunque per maggior sicurezza in caso di esperienza direttoriale non troppo consolidata) si daranno due movimenti in fuori. Una volta per così dire “innescato” il metronomo attraverso il gesto di preparazione (il quale deve seguire il cosiddetto gesto di attenzione, ma qui le cose si complicano scrivendo di situazioni senza poterle mostrare…) basta colpire lo stesso punto di nuovo per l’attacco e il gioco è fatto.
Arrivati a questo punto dobbiamo chiederci perché, dopo aver colpito un punto per due volte (preparazione e attacco), dobbiamo poi cominciare a gironzolare nello spazio davanti a noi, costringendo gli esecutori a seguire il nostro peregrinare a sinistra per il secondo movimento (in un gesto in quattro movimenti), a destra per il terzo e verso l’alto per il quarto. Questo è ciò che accade nella tecnica classica (parola gentile per non dire vecchia…), che in passato ha creato non pochi problemi ai direttori anche famosi [è noto l’aneddoto degli orchestrali che si erano messi d’accordo di attaccare quando la mano del famoso direttore fosse arrivata al quarto bottone del suo panciotto… Come pure esistono molte registrazioni importanti con attacchi iniziali e centrali estremamente disuniti e imprecisi].
Al contrario della tecnica del punto focale, la quale prevede di battere il tempo in un unico punto e poi differenziare la direzione della seconda suddivisione secondo le consuetudini acclarate (secondo a sinistra, ecc.). Questo unico punto, oltretutto, rimane fermo nella stessa posizione durante qualsiasi variazione della dinamica e dell’agogica; e questo non può avvenire se si adotta la tecnica classica, nella quale invece i quattro punti si spostano in relazione alle modificazioni dinamiche e agogiche. Un’altra possibilità per dare un attacco chiaro e inequivocabile, stabilendo anche la velocità del tactus, è quella di usare il cosiddetto impulso proporzionato, adottato da Chelibidache. Nei casi in cui si debba dare un attacco per un primo movimento che contenga molte note (da tre in su) si scandiscono verso il basso le prime due note, poi si alza il braccio e si trattiene in alto per il tempo necessario al completamento del gruppo di note [nel tentativo di semplificare: per una quartina di semicrome: ta-ta(giù)-taa(su)]. Funziona. Basta che gli esecutori guardino il direttore… Ma qui si apre una voragine! Se riuscite anche voi a staccare gli occhi da quella maledetta partitura, allora provate a contare quanti sono gli esecutori che vi osservano mentre dirigete, e ne resterete molto delusi! Naturalmente bisogna anche dire che se gli esecutori si accorgono che siete insicuri non vi guarderanno mai (e fanno bene!). L’altra tecnica menzionata in precedenza, quella dell’anticipo, non prevede uno stacco esatto prima dell’attacco, che sia in grado di mostrare chiaramente la velocità. Questo causa una certa quale indecisione negli esecutori, con il risultato di un leggero ritardo nella loro risposta. A causa di questo fatto il direttore risulta in anticipo, appunto.
Questa tecnica ha alcuni vantaggi, come la necessità di una maggiore attenzione degli esecutori durante l’attacco, che causa un suono accorto e intenso, ecc. Essa risulta anche necessaria lavorando con gli ottoni i quali, avendo un transitorio d’attacco piuttosto lungo rispetto ad altri strumenti percussivi come il pianoforte, le percussioni appunto, i legni ecc., hanno bisogno di essere trattati dal direttore sempre con un leggero anticipo.
Ma a pensarci bene questo anticipo potrebbe derivare dal rovesciamento di una situazione congenita delle orchestre e della prassi esecutiva del passato. Mi spiego meglio. Facciamo un passo indietro per capire quale fosse la reale condizione delle orchestre, e torniamo con la mente agli epiteti che Mozart scriveva contro gli orchestrali nelle sue lettere al padre. Ricordiamo anche la situazione delle esecuzioni a prima vista che, da ciò che segue, sembra essere stata una prassi normale: il 7 ottobre 1797 Haydn scrisse chiedendo al Kapellmeister di provare almeno una volta prima del concerto le sue tre sinfonie (90, 91 e 92), e di farlo «attentamente e con una certa concentrazione, a causa degli effetti particolari presenti nella scrittura». Aggiungiamo il fatto che le orchestre di fatto fossero dirette da due direttori contemporaneamente: il Konzertmeister e il Kapellmeister. Il primo era il primo violino e si occupava della direzione attraverso i movimenti del suo archetto; il secondo era il maestro di cappella seduto al clavicembalo, che si occupava dei solisti e della concertazione. Tanto è vero che ancora oggi è possibile rilevare un retaggio di questa doppia presenza quando nei manifesti dei concerti e delle opere si legge scritto «Maestro direttore e concertatore: Tal dei Tali». Naturalmente la coesistenza di due persone responsabili contemporaneamente dell’esecuzione avrà creato non pochi problemi di sincronia e di fusione, a detrimento della precisione dell’esecuzione. La comprensibile confusione avrà creato delle indecisioni e dei ritardi che la tecnica classica – con il suo spargere nell’aria i vari movimenti della battuta – avrà sicuramente alimentato. E con essa i ritardi nella risposta degli esecutori. Si aggiungano fattori contingenti quali gli accordi di tre suoni affidati agli archi nell’ultimo accordo, in un’epoca in cui non c’era ancora la consuetudine di dividere le file. Il cambio di corde creava un ritardo nel completamento dell’accordo. Insomma, ritardi su ritardi.
Ed ecco allora il rovesciamento: dato per certo il ritardo degli esecutori, fu assunto come assioma che il direttore dovesse andare in anticipo. Cioè in pratica: fu fatta di necessità virtù.
Cambiamo ambito. Abbiamo detto che il gesto è già suono. Infatti quando il direttore chiude la mano per chiudere l’ultimo accordo, il coro chiude la bocca. In questo modo inesorabilmente si sentirà una M nel piano e una P nel forte. Ma soprattutto si perderà una cosa molto preziosa: il suono dell’ambiente. Basta provare per capire, e chiedere al coro di chiudere un accordo mantenendo la bocca aperta, ottenendo l’arresto del suono solo interrompendo il fiato. Si sentirà che l’accordo riesce a galleggiare nell’aria, creando un alone molto prezioso. E questo anche in assenza di riverbero. Se il riverbero invece esiste, l’alone sarà ancora più luminoso e intenso. Come fa una tromba del resto, che non chiude il suo padiglione alla chiusura del suono!
Per concludere: non troverete mai due direttori che siano d’accordo sull’andamento da dare a uno stesso brano. E questo forse è anche uno dei motivi per cui esistono tantissime esecuzioni della Quinta di Beethoven, ma una sola Gioconda: la necessità di un esecutore che chiuda il triangolo i cui altri due vertici sono l’ascoltatore e il compositore.
Ma detto questo parliamo dell’andamento, dal quale consegue la scelta del gesto da adottare. È un po’ come guidare un’automobile in salita: posso salire con la prima marcia, ma anche con la terza. Tutto dipende dalla velocità. Così potrò scegliere di battere un tempo ternario in un movimento, o con doppio movimento in due asimmetrico (ciò che io definisco con il nome di punto anticipato, efficacissimo!) oppure con tre movimenti. Naturalmente vale anche per i tempi binari, che posso condurre in uno (musica antica), in due o in quattro; ma qui il discorso si allarga. La vista della sigla C o 4/4 in un pezzo del Sette-Ottocento ci fa pensare immediatamente all’obbligo imposto dal compositore di condurre il brano in quattro movimenti.
Ma non è sempre così. Anzi. Dobbiamo ricordare che soprattutto nell’Ottocento la polifonia rinascimentale conobbe un periodo di grande recupero (e insieme a essa anche l’intonazione degli intervalli secondo i valori della scala pitagorica!). L’andamento tipico era in due movimenti, anche se la grafia si era ormai comunemente (e pigramente) assestata sul segno C. Interessante notare come lo studio di Chopin op. 10 n. 4 mostri il segno C, ma poi l’indicazione metronomica indichi la minima a 88 e non la semiminima a 176.
È molto illuminante a questo proposito leggere cosa scriveva Carlo Gervasoni nel suo libro intitolato La scuola della musica, pubblicato nel 1800. A pagina 164 l’autore scrive che «tutte le grandi misure a quattro tempi dividere si possono eziandio in misure a due soli tempi, così vengono considerati generalmente tutti i tempi pari sotto un doppio movimento». In questo modo ho la coscienza a posto quando decido di dirigere Locus iste e l’Ave Maria di Anton Bruckner in due movimenti. Aggiungo che, dopo aver assaporato i fraseggi fluidi ed eleganti che derivano da tale scelta, niente e nessuno sarà in grado di convincermi a tornare alla scansione in quattro movimenti. Nemmeno vedere che l’autografo di Os justi presenta il C tagliato, che pure manifesta l’esplicita volontà di Bruckner di mandare in due quel brano specifico, e vedergli usare il C nei mottetti menzionati. In quell’epoca, infatti, tra C e C tagliato successe la stessa cosa che era accaduta nel Rinascimento tra gli stessi due segni: si andava ugualmente in due in entrambi i casi.
Già in precedenza ci sono esempi in tal senso. Si veda ad esempio l’Ave verum Corpus di Mozart, che è scritto originariamente con l’indicazione del C tagliato, con le arcate spesso a due a due, ma trascritto normalmente in 4/4. Mentre la sequenza Dies irae nel suo Requiem è scritta con C ma si esegue normalmente in due movimenti, come fosse un C tagliato. Se poi tornassimo ancora più indietro troveremmo le trascrizioni fatte Casimiri della musica rinascimentale tutte trascritte in 4/4, quando ormai sappiamo benissimo che nel Rinascimento si batteva in due movimenti, meglio ancora in uno. Guarda infatti cosa scriveva Adriano Banchieri a p. 39 della sua Cartella Musicale, edita da Giacomo Vincenti a Venezia nel 1614: sia il C che il C tagliato indicavano una divisione della battuta (tactus) in due movimenti, una con il braccio che percuote, l’altra con il braccio che si alza. Ma il numero di percussioni verso il basso è uno solo in ogni battuta, quindi C non è da considerare nemmeno in due, ma addirittura in uno!
Abbiamo iniziato dicendo che “il gesto crea il suono”. Terminiamo aggiungendo che questa verità deve guidare continuamente il direttore durante tutta la sua attività: egli non deve solo battere il tempo ma deve creare la musica, perché le note, da sole, non bastano a definirla in modo univoco. Nel triangolo di cui parlavamo sopra spetta infatti all’esecutore-direttore il compito di dare la forma definitiva alla composizione. Con un gesto chiaro ed efficace, ma anche ispirato e artistico.