Alla fine del 1969 entrai come maestro collaboratore nel teatro del Maggio Musicale Fiorentino e iniziò così il mio percorso professionale. Fresco di diploma di pianoforte, mi concentrai nella lettura di spartiti d’opera per cercare di essere degno dei maestri del teatro, dai quali cercai di apprendere il più possibile della loro arte. In parallelo portai avanti gli studi di composizione. L’età giovanile mi dava energie insperate e approfittavo di ogni minuto di pausa per riempire i vuoti della mia conoscenza. Prima ancora del mio ingresso in teatro, appena diplomato, mi aveva avvicinato il presidente della Corale Guido Monaco di Prato, mia città natale, l’imprenditore Paolo Agostini, grande amante della musica, per formare dal nulla un coro di giovani. L’esperienza fu affascinante. Andare per le scuole superiori per convincere i giovani studenti a provare a cantare, fu entusiasmante. All’interno della società nacque una costola di vivacità intellettuale, che rivoluzionò l’arcaica tradizione della corale. Poco dopo arrivò il teatro ed ebbi così la possibilità di vivere in contemporanea i due aspetti che compongono da tempi storici il mondo vocale: la professionalità e la passione amatoriale del canto. Il teatro aveva il maestro Riccardo Muti come direttore musicale e stargli vicino era di un insegnamento indescrivibile. Direttore del coro era il maestro Adolfo Fanfani, grande musicista e appassionato cultore del classico novecento italiano. Mi volle come suo sostituto e, quando andò in pensione, il maestro Riccardo Muti mi nominò suo successore. Era il 1974 e quindi lasciai, pur con nostalgia, l’esperienza della Guido Monaco. Aver condiviso per vari anni i due mondi mi permise di mantenere i rapporti con la realtà amatoriale attraverso il Concorso Guido d’Arezzo, al quale, prima come commissario di giuria, poi come membro della commissione artistica, dedicai molti anni della mia vita musicale.
Nel ripercorrere il periodo fiorentino, terminato nel 1990 con il mio nuovo incarico al Teatro alla Scala, voluto dal maestro Muti, rivivo le impressioni di allora, quando la sera cercavo di unire le voci naturali, ancora acerbe, dei giovani studenti con le Six chansons di Hindemith e i numeri dispari dei Nonsense di Petrassi, mentre di giorno seguivo le prove a teatro con le voci del passato, Teresa Berganza, Paolo Montarsolo, Jessie Norman, Renata Scotto, Cesare Siepi, Mietta Sighele, Richard Tucker, per citare solo alcuni dei più grandi che passavano da Firenze e dai quali cercavo di carpire la tecnica del canto lirico.
La prima volta che entrai in sala coro per una prova del maestro Fanfani rimasi folgorato. Stavano studiando la fuga dal Libera me del Requiem di Verdi e la grandezza del suono che mi avvolse, mi soffocò il respiro. Mai avevo avuto tale sensazione di quantità armonica, di pienezza sonora, di vigore vocale. Riflettevo sulla diversità dei mondi che stavo percorrendo: da una parte il coro amatoriale, con la profonda passione che dava ai cantori la forza di superare l’impegno scolastico per i giovani, lavorativo per gli adulti, per trovarsi insieme la sera nel canto polifonico, felici di esprimere la propria individualità espressiva, con mezzi vocali non coltivati se non da una personale volontà di dare alla voce un tono di calore, intonazione ed espressività; dall’altra il coro lirico, formato da professionisti del canto, nati come cantanti solisti per poi abbracciare le compagini corali dei teatri. La passione amatoriale allora era diversa dalla passione professionale. Nei visi dei miei cantori serali vedevo l’entusiasmo di stare insieme per vivere la gioia della realizzazione di una gemma polifonica, pur consapevoli dei propri limiti; nei cantanti del teatro c’era l’orgoglio dei propri mezzi vocali, la consapevolezza di un dono di natura coltivato con cura e destrezza. Nei cinquant’anni della mia vita corale, i cori dei teatri lirico-sinfonici si sono portati a livelli di alta realizzazione professionale. Se negli anni del passato era difficile trovare buoni musicisti, coi ricambi generazionali le nuove realtà canore hanno apportato un corredo musicale di alto profilo che, data la duttilità di analisi degli spartiti e il più alto valore musicale che corrobora i cori professionali, permette di produrre con maggior velocità.
A Firenze il repertorio si è nel tempo allargato a produzioni complesse, a opere in lingua originale, a realizzazioni d’avanguardia, dove il linguaggio diventava libero da schemi tonali e spaziava in mondi armonici di totale libertà sonora. È stata ed è rimasta prerogativa del Coro del Maggio Musicale Fiorentino l’esecuzione di prime assolute che hanno lasciato un’impronta indelebile di duttilità musicale. La Passio secundum S. Luca di Krysztof Penderecki, diretta prima da Piero Bellugi e poi riproposta da Bruno Bartoletti negli anni Settanta, fu il primo passo verso la specializzazione contemporanea del coro. Seguirono altri concerti e opere dedicati a compositori da poco scomparsi o tuttora viventi: Luciano Berio, Sylvano Bussotti, Paolo Castaldi, Aldo Clementi, Luigi Dallapiccola, Ugalberto De Angelis, Gaetano Luporini, Giacomo Manzoni, Luigi Nono, Goffredo Petrassi, Roman Vlad furono riferimento culturale in tutto il mio periodo fiorentino e molte loro opere ebbero la loro prima esecuzione assoluta nei vari festival del Maggio Musicale Fiorentino.
Fin dalla sua nascita nel 1933, voluta dal maestro Vittorio Gui, era sempre stata una prerogativa del festival del teatro porgere proposte d’avanguardia, per cui esisteva nel clima culturale della città l’aspettativa di novità operistiche e sinfoniche. Il repertorio spaziava dal tardo rinascimento al contemporaneo, in tutti i possibili aspetti estetici, operistico, sinfonico, cameristico, polifonico. Si alternavano sul podio i più grandi direttori d’orchestra del passato: Ernest Bour, Colin Davis, Carlos Kleiber, Lorin Maazel, Kurt Masur, Lovro von Matacic, Paul Paray, Georges Prêtre, Wolgang Sawallish, Thomas Schippers, Georg Solti, oltre ai nostri Claudio Abbado, Bruno Bartoletti, Gianandrea Gavazzeni, Carlo Maria Giulini, Vittorio Gui, Giuseppe Patané, per citare chi ha lasciato ricordi indelebili della propria arte e altri, tuttora artefici del mondo musicale mondiale quali Riccardo Chailly, Myun-Wun Chung, Zubin Mehta, Riccardo Muti, Donato Renzetti, Yuri Temirkanov, Christian Thielemann. Da tutti raccoglievo perle del loro sapere che diventavano pietre miliari della mia conoscenza musicale. Spaziare con loro nel mondo sinfonico-operistico significava interpretare non solo le pagine musicali, ma maturare i diversi stili vocali che caratterizzavano le musiche proposte.
L’Et incarnatus dalla Messa in do minore K 427 di Mozart, cantato da Ileana Cotrubas nella Basilica di San Lorenzo a Firenze diretto dal maestro Riccardo Muti negli anni Settanta, fu rivelazione di stile vocale insuperabile per trasparenza, spiritualità, espressione mistica. Ascoltarla durante le prove e i concerti fu rivelazione di come una voce ben educata tecnicamente potesse affrontare più stili con piena pertinenza e alta raffinatezza. Sempre col maestro Riccardo Muti affrontammo prima Orfeo ed Euridice, poi Ifigenia in Tauride di Christoph Willibald Gluck, cercando di trovare uno stile di canto vicino al mondo classico-barocco e, proprio grazie alla lezione di Ileana Cotrubas, mi fu possibile compenetrare le peculiarità della vocalità classica per trasportarle ai miei artisti e per realizzare al meglio il suono necessario alla realizzazione delle opere.
La programmazione del teatro prevedeva l’alternanza di opere e concerti di autori di epoche e stili diversi. Bach, Gluck, Mozart, Rossini, Bellini, Verdi, Brahms, Wagner hanno tutti diverse caratteristiche vocali ed è molto importante per un teatro di tradizione far comprendere la poetica dei compositori, entrare nel messaggio nascosto dietro il segno musicale, capire il perché delle armonie e melodie che non sono solo bellezza edonistica, ma anche espressione interiore del compositore. Solo l’autore dell’opera d’arte ha la completa visione del proprio capolavoro, noi interpreti abbiamo il dovere di trasmettere ai nostri artisti il massimo possibile del suo perché, per dare a chi calca il palcoscenico i mezzi per trasmettere al pubblico la verità della musica. È grazie ai miei studi e ai grandi direttori d’orchestra che si sono succeduti sul podio del Maggio Musicale Fiorentino, che sono arrivato a comprendere tale regola, che mi ha evitato di insegnare al coro solo le note stampate e mi ha permesso di andare oltre il segno musicale per cercare il suo profondo significato. Credo di poter affermare che è solo con la consapevolezza di tale verità che ho potuto dare interpretazioni che hanno segnato il corso della mia vita artistica.
Arrivato al Teatro alla Scala, capii presto come i grandi del passato fossero ancora presenti nel mondo scaligero. Era evidente che la storia del teatro incombeva su tutto. Molti artisti del coro avevano cantato con Herbert von Karajan, Carlos Kleiber, Claudio Abbado e avevano avuto come loro maestri Giulio Bertola, Romano Gandolfi, Roberto Benaglio. Anche se col tempo le voci avevano raggiunto la loro maturità, rimanevano intatte le loro glorie. La guida del maestro Riccardo Muti, direttore musicale, fu fondamentale per rinnovare e traslare il coro verso la modernità del pensiero musicale, non per dimenticare il passato, anzi per onorarlo con il rigore che aveva sicuramente caratterizzato gli anni eroici di Benaglio, da me conosciuto nel 1971 a Firenze per alcune sue lezioni al coro, assente il maestro Fanfani, per lo studio dell’opera Padmâvatî di Albert Roussel diretta da George Prêtre, di Gandolfi e Bertola, dei quali conoscevo il valore artistico e la grande passione corale.
Nell’arco dei primi due anni il coro si trasformò in vocalità, duttilità e musicalità, raggiungendo in seguito vette espressive documentate in incisioni e documenti storici. L’esperienza fiorentina mi fu maestra e negli anni da me diretti il coro affrontò i più disparati stili, da Gesualdo da Venosa (Responsoria) a Krzysztof Penderecki (Cantico dei Cantici), fino a vedere codificata la commissione di una composizione all’anno ai più significativi compositori contemporanei: Fabio Vacchi (Sacer Sanctus), Azio Corghi (La morte di Lazzaro), Adriano Guarnieri (Passione secondo Matteo).
Il Teatro alla Scala è il teatro d’Italia nel mondo, le sue produzioni sono state e saranno sempre il riflesso della cultura italiana, pur rigenerate nel contesto contemporaneo. Direttori d’orchestra, registi, cantanti si alterneranno con la consapevolezza della sua storia e anch’io, nella preparazione delle partiture scelte, ho avuto come fine ultimo il rispetto più totale del messaggio musicale, affinché il coro potesse esprimere la pienezza dell’opera proposta. Il periodo scaligero mi ha riavvicinato ai tanti direttori conosciuti a Firenze, ma mi ha anche permesso di conoscerne altri coi quali non avevo ancora collaborato. In particolare desidero ricordare Gary Bertini, Daniele Gatti, Seiji Osawa, Giuseppe Sinopoli. La produzione era più intensa del periodo fiorentino e ci costringeva a turni di prove molto stancanti, ma in tutti c’era sempre la consapevolezza di dover arrivare alla perfetta realizzazione di quanto voluto sia musicalmente che scenicamente, sapendo che la loro simbiosi era la strada per la vera riuscita del compito che il teatro aveva per tradizione e per missione artistica. Guida suprema ne era il maestro Riccardo Muti, che dettava le sue linee musicali, che tutti seguivamo con piena coscienza della sua arte. Sicuramente è stato il periodo più importante e significativo della mia crescita artistica.
L’amore per il coro mi dava l’energia per continuare a coltivare la vita amatoriale. Nel periodo fiorentino avevo dedicato tempo al Concorso polifonico Guido d’Arezzo, affiancandone la direzione artistica con Nino Antonellini, Domenico Cieri, Fosco Corti e Silvestro Valdarnini e traghettandolo, insieme a Giovanni Guazzone, verso la sua trasformazione in Fondazione (1983). Assieme riportammo il concorso ai livelli del passato, dando linfa di idee che permisero di mettere a confronto realtà culturali internazionali. Nel frattempo avevo conosciuto realtà corali di alto prestigio col Concorso nazionale corale Città di Vittorio Veneto e col Concorso internazionale di canto corale Seghizzi, partecipandovi spesso come commissario nella giuria degli stessi.
Realtà diverse dal mondo professionale, che esaltavano la passione nelle loro esecuzioni. La polifonia eseguita dai cori partecipanti ai concorsi si realizzava spesso con trasparenza e chiarezza armonica, che sottolineava la scrittura compositiva dei grandi del passato. Diverse erano le estrazioni di studio vocale e ovviamente non erano paragonabili i due mondi: professionale e amatoriale.
I cori professionali delle attuali fondazioni, sovvenzionate in parte dal FUS e regolamentate dal Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro, sono formati da cantanti che hanno dedicato gran parte del loro studio a sviluppare una vocalità solistica, capace di affrontare con pertinenza stilistica e quantitativa il mondo operistico. Vengono scelti per concorso internazionale e, una volta superato il periodo di prova, mantengono il loro lavoro fino al pensionamento, che, attualmente, avviene al compimento dei 62 anni. Ogni teatro cerca sempre di avere al suo interno artisti di alta qualità in tutti gli aspetti artistici, vocali, musicali, estetici, per poter produrre spettacoli che possano lasciare una impronta storica del loro operato. Ma non sempre i cori delle fondazioni possono affrontare con pertinenza vocale il repertorio polifonico rinascimentale.
La vocalità rinascimentale ha caratteristiche proprie, ben lontane dalla vocalità operistica ottocentesca. L’evoluzione storica della voce è evidenziata dai trattati di Pier Francesco Tosi (1653-1732), Manuel Garcia (1805-1906) e dal contemporaneo Antonio Juvarra. Al giorno d’oggi non è possibile immaginare come potessero cantare all’epoca, se non analizzando le partiture del tempo.
Già nel campo della musica sacra troviamo modi diversi di comporre fra le varie corti italiane, che avevano anche diverse altezze di intonazione, come si evince dagli organi costruiti per le loro chiese e ancor più nella musica profana. Le famose tre dame di Ferrara trovarono in Luzzasco Luzzaschi il loro riferimento musicale e, in epoca moderna, cantare le sue musiche è prerogativa di poche soliste specializzate in tecnica e vocalità virtuosistica. Tali possibilità sono molto rare nei cori delle fondazioni, anche se posso affermare di aver trovato, in tutte le fondazioni da me curate, cantanti in grado di proporre con pertinenza tali musiche. Ciò pone in evidenza le diversità timbriche esistenti nei cori d’opera e come certi teatri possano programmare musiche di diverse epoche.
Sempre negli anni fiorentini, pur se molto impegnato nella preparazione dei programmi del Maggio Musicale, trovavo sempre il tempo per dedicarmi alla formazione di complessi regionali che riflettevano la grande passione dei cori della Toscana. Requiem di Mozart, Requiem e Grande Messa Solenne di Cherubini per l’Orchestra Regionale Toscana, Carmina Burana (versione cameristica), Catulli Carmina di Carl Orff, Petite Messe Solemnelle di Rossini per l’Estate Fiesolana, gli Intermedi della Pellegrina, Oedipus Rex di Stravinskij e Le veglie di Siena di Orazio Vecchi per la Settimana Chigiana, sono alcuni degli appuntamenti più rilevanti dell’epoca. I cantori venivano scelti per audizione sulle partiture proposte. Sonorità vocali diverse, accattivanti nella loro chiarezza derivante dalle voci non professionali, ma intonate e di piacevole rotondità sonora. Nell’ultimo periodo milanese mi concentrai principalmente sul Concorso internazionale Guido d’Arezzo, chiedendo all’amico Francesco Luisi di accettare la sovrintendenza e poi la presidenza della stessa fondazione (2000-2011), alla quale contribuivo come direttore artistico.
L’amore per il sinfonismo mi avvicinò all’Accademia di Santa Cecilia, nel suo periodo di commissariamento guidato da Luciano Berio, con alcune produzioni in contemporanea col Teatro alla Scala. Il desiderio di ampliare la mia conoscenza del mondo sinfonico mi portò a decidere di dedicarmi completamente al Coro dell’Accademia e ne accettai la guida. Una volta nominato presidente, Luciano Berio fece sua la mia proposta di formare un complesso polifonico, tratto dalla grande compagine corale, per riportare la polifonia rinascimentale nei programmi dell’Accademia.
Il Coro dell’Accademia di Santa Cecilia è formato da cantanti di alta professionalità, con un’ottima preparazione musicale. Ne nacque così una programmazione che prevedeva spesso la contemporaneità di concerti polifonici dedicati ai più svariati stili inseriti nella stagione da camera e concerti sinfonici programmati per la normale stagione sinfonica con organici di maggior respiro, ma non a organico pieno. La totalità del coro era normalmente prevista per le grandi produzioni sinfoniche. Purtroppo Luciano Berio ci lasciò troppo presto e la sua ultima idea di voler formare un piccolo gruppo polifonico dedicato al contemporaneo non poté trovare continuità per la completa avversione della nuova presidenza al mantenimento delle linee guida del passato.
Alla conclusione del mio mandato, mi ritirai per un breve periodo di riposo per poi accompagnare il maestro Gianandrea Noseda, raffinato musicista, direttore musicale del Teatro Regio di Torino, nel suo fondamentale e prestigioso percorso di rinnovo musicale. Ottimo teatro con struttura di piena efficienza e complessi artistici formati da musicisti e cantanti di alto valore. Un’oasi di vita musicale che mi ha dato soddisfazioni importanti e indimenticabili: tutto partecipava della convinzione intima del dovere inteso come missione artistica. Ne sono testimoni i documenti cd e dvd presenti nella letteratura discografica. La richiesta del Teatro dell’Opera di Roma di diventarne il direttore del coro, mi riportò definitivamente nella capitale. Era il periodo in cui il maestro Riccardo Muti ne era direttore principale e la sua volontà ci riunì nuovamente nella ricerca di lasciare una suprema testimonianza del mondo lirico italiano.
Il mio ruolo di maestro del coro mi ha obbligatoriamente portato a compenetrarmi con la realtà registica dei teatri. Dai tempi antichi il canto si è sempre accompagnato con l’aspetto visivo della musica, ma mentre il canto solistico vive anche del messaggio corporeo che accompagna ogni prestazione del cantante, il coro ha leggi di insieme che non sempre si coniugano con le esigenze registiche. Nei primi anni della mia vita teatrale le opere venivano eseguite con semplici regole di comportamento: ingresso ordinato, staticità di movimento, pochi simbolici gesti, esecuzione musicale sempre attenta alla sua verticalità, uscita ben disciplinata. I registi dell’epoca avevano il preciso compito di rispettare al massimo le indicazioni dello spartito musicale, dando allo spettacolo visione di bellezza e di emozione, al servizio del fluido musicale.
Nel passare del tempo la scelta di registi derivanti da esperienze di prosa, o anche di cinematografia, ha portato a cambiamenti importanti nel rapporto fra musica e teatro. Gli artisti del coro venivano stimolati a libertà di movimento che non sempre aiutavano il loro canto, anzi… Nascevano talvolta vivaci analisi di come poter conciliare le varie esigenze espressive dei registi e ne derivavano soluzioni che mettevano in risalto l’intelligenza, l’istintività e l’esperienza dei più grandi. Vari registi creavano un unicum artistico immergendosi in tutti gli aspetti del teatro, scene, costumi, luci, regia. Di alto respiro artistico le produzioni di Sylvano Bussotti, Piero Faggioni, Luca Ronconi, Pier Luigi Pizzi, Pierluigi Samaritani, Franco Zeffirelli, coi quali ho avuto intense ed emotive collaborazioni. Altri ancora hanno creato opere d’arte con suggestive ispirazioni, che mi convincevano a spingere i miei artisti a seguire le loro pur difficili indicazioni. Non può mancare il ricordo di Jean-Pierre Ponnelle per Cenerentola (1970) e Peter Grimes (1988), di Klaus-Michael Grüber per un intenso Tannhäuser (1980), di Jonathan Miller per una Tosca ambientata nel 1943 (1982), di Ken Russel per il mio primo Rake’s Progress (1982), per poi citare Graham Vick per il nostro primo Mahagonny (1989) e molte altre collaborazioni fra la Scala e il Teatro dell’Opera di Roma, Daniele Abbado, Pier Luigi Pier’Alli, Emma Dante, Davide Livermore, Lorenzo Mariani, Mario Martone, Damiano Michieletto, fra i contemporanei coi quali ho ottimi rapporti umani e professionali. L’intelligenza registica è nel non voler stravolgere le partiture musicali, ma interpretarle in un contesto nuovo, dettato dai cambi del tempo e dall’evoluzione del pensiero intellettivo. In tale realtà drammaturgica è nostro dovere di maestri del coro comprendere il percorso creativo dei registi per trasmetterlo ai nostri artisti affinché possano immedesimarsi nel loro messaggio.
L’opera d’arte si rinnova proprio con l’apporto dell’interpretazione registica che, unica, può vivificare l’interpretazione musicale, che nei tempi moderni riesce a trasmettere vere emozioni solo grazie a pochi eletti direttori d’orchestra. I nostri artisti del coro sono pienamente consapevoli della loro responsabilità e, quando solcano l’invisibile confine fra quinta e scena, dimenticano la loro realtà dell’oggi per trasformarsi nel personaggio che interpretano, vivificandone la sua dimensione storica e iconica. Va anche sottolineato come i migliori registi siano capaci di affascinare gli artisti del coro convincendoli delle loro idee, ma anche comprendendo velocemente le loro stesse caratteristiche in modo da utilizzarle al meglio per la realizzazione del loro progetto espressivo.
Dai tempi di Torino mi ero definitivamente allontanato dal mondo amatoriale, quando a Roma sono stato chiamato dal Mibact a prender parte della commissione per definire la destinazione di fondi destinati alla salvaguardia del patrimonio culturale tradizionale. Con passione mi sono dedicato all’analisi delle tante domande arrivate e, purtroppo, insieme ai miei colleghi, ci siamo rammaricati per le severe direttive date dal bando, che non ci permettevano di premiare, come avremmo voluto, tutti i progetti meritevoli. È stata un’occasione per riscoprire quanto ancora sia vivo il desiderio di partecipazione al canto e alle manifestazioni artistiche non solo canore, ma anche coreutiche, popolari e come la tradizione del passato sia ancora tramandata di generazione in generazione, non solo in documenti a volte dimenticati nelle biblioteche storiche, ma spesso vive nei ricordi dei padri, che a loro volta ne hanno avuto testimonianza dai loro stessi avi. Il canto è vita, passione, scoperta del proprio io, unico strumento diretto dal proprio corpo.
Il coro è amore, socialità, oasi di bellezza, profumo di sensazioni divine, ascesi dell’animo, estasi collettiva, puro nirvana dello spirito. La realizzazione di musica corale, qualsiasi ne sia il risultato artistico, pervade l’animo dell’esecutore di gioia ed emozione. Gli sguardi, le fisicità stesse dei visi dei cantori esprimono il loro vivere al di fuori del tempo, godendone, al momento, col loro impegno fisico, spirituale e mentale. Dal coro sono nati solisti di chiara fama internazionale, felici delle loro esperienze corali, nel coro sono tornati artisti che hanno calcato con successo palcoscenici internazionali, felici di contribuire alla collettività corale. Partecipare alla realizzazione degli infiniti capolavori corali della nostra storia musicale è pura metafisica dell’animo e dello spirito, celeste armonia di «Amor che move il sole e l’altre stelle».
Foto © Yasuko Kageyama