Uno dei brani di Mariano Garau più eseguiti dai cori è certamente O magnum mysterium. Il brano è semplicissimo, a tre voci sole, una maschile e due femminili. Questa è la prova che non bisogna scrivere per forza in modo cervellotico, con tante voci magari ulteriormente divise, per avere successo. Anche se i tempi erano diversi e lo stato della composizione e dell’armonia non era quello attuale, naturalmente, bisogna riconoscere che il pezzo più famoso e più eseguito al mondo è stato scritto con sole quattro voci: l’Ave verum di Mozart…
Osserviamo il brano di Garau da vicino. Inizio leggendo le parole del compositore tratte da uno scambio epistolare con me: «Il brano O magnum mysterium, scritto nel 1996, nasce pensando ai magi e allo stupore che poteva aver creato in loro il grande mistero del bambino di Betlemme». Si intuisce come la semplicità dell’approccio abbia potuto limitare sia il numero di voci che la loro estensione, che rimane piuttosto contenuta per tutto il brano. Secondo l’intenzione riferitami dall’autore, c’è un altro motivo sostanziale che limita il numero delle voci a tre: i protagonisti del brano sono i tre Re Magi, che raccontano la visione del bambino Gesù nella mangiatoia come fossero uno storico. Anche l’omoritmia, in questo senso, contribuisce a descrivere l’azione simultanea dei tre Re Magi.
«Dalla battuta 8 le voci salgono perché tutti gli esseri viventi possano dall’alto vedere il Signore nato in una mangiatoia!». Con queste semplici parole il compositore spiega il comportamento melodico ascendente di tutte le voci, che poi discendono come per osservare il Bambino.
«Dalla battuta 18 ho usato una pacata melodia, dove cadenze particolari descrivono le viscere della Beata Vergine degne di generare il Cristo Signore». Una visione molto intimistica che, al di là di complicate disquisizioni di analisi armonica, spiega la particolare successione degli accordi. In chiave sono sempre presenti il sib e il mib, anche nella figura successiva:
Ci sono alcuni cambi di tempo che, complice il procedere pacato del brano, non procurano strappi o interruzioni del libero fluire della parola. Inoltre l’autore è molto attento a far coincidere quasi sempre l’accento della parola con il primo movimento della battuta, proprio attraverso i cambi di tempo. Questa attenzione all’accento della parola è anche rivelata dalla presenza dell’accento segnato su ogni singola parola. In questo modo Garau, vista la grande diffusione dei suoi brani all’estero, facilita l’esecuzione anche da parte dei cori di lingua non italiana, più distanti dal latino di noi. «Alla fine del brano niente virtuosismi ma solo un sereno e tranquillo Alleluia!».
Coerente con la semplicità che pervade l’intero brano, l’autore continua la linea di purezza intrapresa dalla prima nota, per concludere con un altrettanto semplice e disarmante Alleluia, come quando i moti di gioia sono contenuti e circoscritti da una profonda commozione interna.
Il brano è piuttosto breve, ma basta ampiamente a se stesso. Se lo si volesse vedere sotto l’ottica di un lungo arco che gli dia una maggiore continuità sarà sempre possibile, come si fa in genere con altre composizioni sullo stesso testo, prevedere un da capo prima di arrivare all’Alleluia finale. Se poi le voci del coro fossero abbastanza leggere e ben appoggiate, allora lo si potrà anche alzare di un semitono, e l’estensione rimarrà ancora abbastanza contenuta. In questo caso gli uomini emetteranno un mi bemolle 3, e qui i tenori che cantano in una unica sezione insieme ai bassi potranno svolgere bene il loro ruolo senza forzare l’emissione da parte dei bassi. I soprani arriveranno al fa4 e i contralti al si3.
In ogni caso, adottando un ritornello o un innalzamento di un semitono oppure no, si tratta di un brano molto cantabile e sinuoso, affabile e accattivante, che merita il successo che ha ottenuto nel mondo.