Il passaggio della musica da scienza ad arte è stato lento e silenzioso, sempre in bilico tra l’aspetto tecnico e quello artistico, una volta cedendo all’una o all’altra delle due componenti.[4] In effetti la forma costruttiva ha sempre svolto un ruolo molto importante nel processo di composizione[5] musicale, specie del passato. Erano fissati dei confini molto precisi entro i quali il compositore si sarebbe dovuto muovere, e il peso della propria inventiva costituiva la differenza tra l’artista e il tecnico.[6] Un brano era ben riuscito quando le parti di cui era composto risultavano ben proporzionate e in armonia tra di loro. Come nella pittura, del resto, dove si conoscevano precise proporzioni come quelle delle fasce che compongono il volto umano, scrupolosamente rispettate e approfondite alla ricerca della migliore armonia.[7] Nel corso dei secoli, dal realismo caravaggesco si è passati al tratto frettoloso e apparentemente impreciso degli impressionisti, fino a stravolgere le proporzioni del volto umano con il cubismo.
Anche la musica ha percorso un cammino simile, partendo dalle precise e stabili forme musicali antiche – come la sonata, la sinfonia ecc. – passando attraverso i primi scandalosi “strappi alla regola”,[8] fino a cancellare in qualche caso qualunque tipo di forma che possa costituire un limite alla creatività del compositore contemporaneo.
Per la verità sembrano essere molte le occasioni nelle quali le strade della musica e della pittura si sono toccate o sovrapposte. Nel XVII secolo, periodo di fulgore delle prospettive pittoriche, nel quale si scoprì che la convergenza delle linee verso un punto dell’orizzonte assicurava realismo, volume architettonico e drammatica profondità al dipinto,[9] anche la musica stava vivendo un particolare periodo in cui stava nascendo la consapevolezza della priorità di una sola nota della scala musicale rispetto alle altre, una sorta di punto focale verso il quale convergevano tutte le altre note. Tale nota si chiamava tonica e costituiva la base della tonalità, un nuovo modo di intendere la melodia e quindi l’armonia e la composizione, attraverso il quale tutto veniva incentrato su questa particolare nota tonica. È sorprendente inoltre notare come poco prima, in epoca rinascimentale, alla base dei processi creativi sia della musica che delle arti figurative fosse posto il rapporto aureo, il quale d’altronde regola molte delle proporzioni della natura.[10]
Quello che sorprende non è solo questa “coincidenza”, ma in particolare il fatto che dopo trecento anni, peraltro esattamente nello stesso momento, in entrambe le arti sarà distrutta l’unicità e la convergenza rispettivamente delle linee e delle note verso un unico punto, fino ad allora imperturbabile sovrano incontrastato. Nella pittura sarà il cubismo di Pablo Picasso a deviare inesorabilmente le linee prospettiche, mentre in musica interverrà prima la pantonalità di Arnold Schönberg, poi la sua dodecafonia a spezzare il primato della nota tonica. È sorprendente infine il fatto che questi due artisti siano pressoché coetanei,[11] in particolare si deve ricordare che Schönberg dipingeva[12] e che ha intrattenuto rapporti professionali oltre che di amicizia con il pittore Kandinskij,[13] mentre Picasso ha collaborato alla scenografia di alcune opere musicali. Per la verità l’elenco di musicisti che si applicavano con buoni risultati alla pittura, così come di pittori provetti musicisti, è molto lungo, a riprova dello stretto contatto espressivo che esiste tra musica e pittura.[14]
Nello stesso succitato secolo XVII le arti non conoscevano una netta linea di demarcazione tra di loro, ma formavano un tutt’uno, la cui forza di coesione era costituita dalla liberalizzazione dell’uomo attraverso la cultura. Fu proprio durante quel secolo che ebbe inizio un distanziamento e una caratterizzazione maggiore tra la musica e le altre arti, e questa sorta di taglio del cordone ombelicale con le arti figurative probabilmente fu la causa che portò i musicisti a desiderare nostalgicamente di attribuire alla musica una maggiore capacità descrittiva e figurativa. Precedentemente infatti i compositori non sentivano la necessità di dare alle loro opere un titolo che fosse lessicalmente significativo e figurativamente rappresentativo. O non titolavano affatto le loro opere, oppure si limitavano a chiamarle Sonata in Fa maggiore, oppure Sinfonia in Sol minore, preoccupandosi di catalogarle soltanto entro una determinata categoria relativa alla “forma architettonica”. Solo da allora sembrò necessaria una ulteriore chiarificazione riguardante almeno l’ambiente emozionale dal quale l’opera scaturiva, o il paesaggio spazio-temporale dal quale era sgorgata l’ispirazione. Apparvero così i primi descrittivi “titoli a programma”, i quali aprirono uno squarcio sulla questione dell’incapacità della musica a rappresentare la realtà. Essa non è in grado di far rivivere una situazione reale, semmai soltanto di far riaffiorare le emozioni che questa ha provocato. In questo senso, un ulteriore avvicinamento tra le due arti è avvenuto nel Novecento con l’avvento dell’astrattismo, attraverso il quale era negata anche alla pittura come alla musica la capacità di rappresentare la realtà. Nello stesso periodo, simmetricamente, anche la musica faceva i suoi passi per avvicinarsi alla pittura, cosicché le partiture acquistavano una valenza pittorica, attraverso la quale il segno musicale sulla carta pentagrammata in qualche caso intendeva appagare l’occhio di chi guardasse la partitura-quadro, configurata senza rimanere insensibili all’aspetto figurativo del segno musicale in se stesso.
D’altra parte si può facilmente notare come accada la stessa cosa sul versante opposto, e verificare quante opere pittoriche portino titoli che appartengano strettamente alla nomenclatura musicale, e nel loro movimento pittorico mirino a ricreare una situazione acustica e musicale, non tanto rappresentativa in senso stretto quanto figurativa nel tratto.[15] Si tratta di un ulteriore accostamento tra due realtà artistiche che mantengono aperta una notevole fluidità tra ricezione visiva e uditiva. In fondo è difficile scindere i canali sensoriali attraverso i quali si può “gustare” una musica – avendo con questo vocabolo già attuato una chiara forma di contaminatio tra il senso uditivo e quello gustativo – o si ascolta un dipinto che sembra parlare. Una musica può essere così corposa da poterla toccare, come una pittura può essere così realistica da sentirne l’odore. È infatti attraverso la commistione dei sensi che si può godere appieno di una espressione artistica, non solo con una percezione settorialmente sensoriale. Il contatto fisico con un dipinto e l’introduzione dello spettatore dentro di esso possono avvenire attraverso la profondità[16] e la tridimensionalità architettonica:[17] in questo caso il dipinto è statico, ed è chi guarda che si avvicina al dipinto e viene in qualche modo risucchiato dentro di esso. In alcuni altri casi, quali il Giudizio Universale di Michelangelo Buonarroti o L’urlo di Edvard Munch, può accadere che il dipinto possa acquistare un dinamismo tale che riesce a muoversi verso chi guarda, coinvolgendo i sensi dello spettatore nella loro totalità;[18] in questo caso è inevitabile “sentire il suono” del dipinto, avvertire la sua come una presenza sonora alla quale l’orecchio non può sottrarsi. Le trombe del Giudizio Universale non restano mute,[19] né senza sfogo è la disperazione che esce dalla bocca della figura di Munch, entrambe emettono un suono possente che rompe il profondo silenzio dell’unilateralità visiva. Il pennello stende uno strato sottile di vernice appiattendola sulla tela, ma attraverso i secoli e l’adozione di tecniche pittoriche diverse lo spessore di questo strato di vernice è andato sempre più aumentando la sua consistenza – si pensi all’uso della spatola o al pennello intriso di vernice densa dei macchiaioli e degli impressionisti –, fino ad attaccare alla tela veri e propri oggetti solidi nella pittura d’avanguardia. Forse questo processo può essere collegato alla ricerca di una corposità tridimensionale che la pittura, a causa della bidimensionalità del piano di lavoro giacente sulla tela, non ha. Allora il dipinto esce dalla realtà piana delle due dimensioni e può acquisire una plasticità a volte anche dirompente. In questo senso si può affermare che dalla visione delle pennellate grasse sui vestiti delle ballerine ne L’orchestra dell’opera di Edgar Degas nasce un risultato sonoro maggiore rispetto alla vista del variegato e movimentato nuvolo di musicisti che suona; come pure si può dire che sembra scaturire più musica dai robusti tratti pittorici del Ritratto di Arnold Schönberg di Oskar Kokoschka rispetto al groviglio di serpenti che avviluppano Laocoonte nella celebre statua;[20] ancora meno rumore causa la sola vista di una partitura.
Agli occhi del non musicista essa manifesta maggiore fascino per l’aspetto puramente grafico dell’intreccio di linee, segni e punti, come l’inestricabile significato di un alfabeto sconosciuto, piuttosto che per i suoni che essa imprigiona. Nel caso di un musicista l’analisi visiva di una partitura si arricchisce di una inevitabile componente di tipo uditivo: nel silenzio della sua mente egli “sente” i suoni, li può immaginare. È una ricezione di per sé perfetta, dal momento che non è disturbata dalle imprecisioni della presenza umana conseguente alla presenza dall’esecutore; pur tuttavia appare incompleta, dal momento che mancano le sollecitazioni fisiche del timpano e quelle delle strutture ossee e muscolari, manca il turbamento di questi movimenti, impercettibili solo in apparenza.[21] Leggere un libro, osservare un quadro: basta questo, al contrario, perché la fruizione sia completa e tutti i sensi siano immaginificamente sollecitati.
Sotto questo aspetto la musica possiede quindi una potenzialità emotiva maggiore rispetto alle altre arti; forse sarà proprio per questo, oltreché per la facilità di fruizione, che è la più diffusa tra le arti?[22] Tra le diverse arti si può riflettere come la musica e la pittura[23] abbiano a lungo convissuto in un ambiente ristretto ed elitario, quanto meno in riferimento alla fruizione dell’opera d’arte. I prìncipi e le autorità ecclesiastiche si circondavano di musicisti, di pittori e scultori perché adornassero i loro palazzi privati con opere d’arte destinate a essere godute solo da pochi fortunati. L’unico luogo dove il popolo poteva avvicinarsi a queste forme d’arte erano i luoghi di culto, le chiese; ma mentre qui poteva facilmente entrare in contatto ravvicinato con un dipinto, meno agevolmente riusciva ad avvicinarsi alla musica, essendo la ristretta cerchia di espertissimi musicisti operante nelle immediate vicinanze dell’altare, tutta diretta e incentrata verso l’altare e poco attenta alle orecchie desiderose del popolo.
L’avvento della policoralità esplosa a Venezia, in seguito alla quale tutta la chiesa è invasa in tutte le direzioni e a tutte le altezze da gruppi di strumenti e cori in un dialogo continuo tra di loro che investe e avvolge tutta l’assemblea,[24] può rappresentare una sorta di prima “democratizzazione” della musica che tocca da vicino anche il popolo.
Probabilmente il pittore vive la percezione della musica attraverso una sorta di “traduzione visiva”. Si può in un certo senso immaginare che egli “veda” la musica scorrere sottoforma di fasci di suoni, come linee o curve colorate di diversa intensità e densità.[25] L’astrattismo dell’immaginazione visivo-musicale prende ogni volta una forma e un colore diverso, inspiegabile o delirante per i più, ma estremamente significativo per il pittore. È infatti nel passaggio dalla mente alla tela che si diversifica il percorso dell’idea sonora, la quale si incammina verso le linee ampie e sinuose della fantasia dell’autore, fino a configurarsi come una entità espressiva a se stante, un segno dal significato sonoro, come nel caso dei dipinti citati in precedenza.[26] Durante questo passaggio avviene una sorta di liberalizzazione delle frequenze acustiche, imprigionate entro la gabbia della frammentazione delle frequenze stesse. Avviene cioè che il musicista, pur avendo a disposizione una gamma di suoni che vanno da 16 a 16.000 Hertz, [27] si può esprimere solo attraverso una scala di valori tutta frammentata in sette piccole porzioni e di suoi multipli, tante quante sono le note musicali.[28] In ultima analisi, l’enorme gamma di suoni udibili che sono a disposizione dell’uomo, è utilizzabile solo in minima parte dal compositore, perché tra un suono e l’altro della scala musicale ci sono un’infinità di suoni che la musica occidentale non conosce e non può rivelare all’ascoltatore. Questa stessa situazione, calata nell’arte pittorica, mostra come invece il pittore abbia a disposizione tutta la gamma dei colori intermedi tra due frequenze contigue, in questo caso visive. In altre parole, tra il rosso e il giallo il pittore può utilizzare tutte le infinite sfumature della gamma degli arancioni, mentre il compositore si deve limitare unicamente ai due colori estremi, il rosso e il giallo – in questo caso al do e al re ad esempio, due suoni contigui – rinunciando agli infiniti suoni di frequenza intermedia tra i due, avendo a disposizione un unico tono di arancione (il do diesis, nella immensa produzione di musica tonale, però, da usare soltanto in caso di modulazione o di passaggio cromatico).
Considerando questa come una limitazione della musica nei confronti della pittura, si può immaginare che essa non contribuisca a migliorare le sue capacità figurative e rappresentative, e che possa aver spinto i musicisti a ricercare una sorta di collaborazione espressiva con le altre arti. Appare significativo che nel momento in cui maggiore sembra tale ricerca, esattamente in corrispondenza della notevole fioritura dei titoli a programma che avvenne nei secoli XVII e XVIII allorquando, come accennato in precedenza, il titolo voleva aiutare l’immaginazione dell’ascoltatore a creare un ambiente anche visivo, sentimentale e comunque di natura più ampia di quella solo uditiva, si assista alla nascita e allo sviluppo di quella importante forma artistica che assomma in sé varie arti fino ad allora separate e autonome: l’opera.[29]
La confluenza di varie arti all’interno di un’opera, nella fattispecie la letteratura (libretto d’opera), la narrativa (trama), la danza (balletti), le arti figurative (scenografia), il teatro (azione scenica) e, ovviamente la musica, creava una nuova forma d’arte con particolarità e strutture autonome. Nella visione dell’opera come di una contaminatio tra varie forme d’arte, si può dire che il già citato teatro totale di Schönberg e di Kandinskij abbia già avuto un precedente illustre nella Gesamtkunstwerk[30] di Wagner, pur con le dovute cautele derivanti da periodo storici completamente diversi. Nella storia dell’opera si è assistito a un altalenante sbilanciamento del baricentro da una forma espressiva all’altra. Durante certi periodi storici sono state la scenografia e le trovate spettacolari che hanno coinvolto maggiormente l’attenzione degli artisti, altre volte è stata la parola e i testi, altre ancora la caratterizzazione psicologica dei personaggi o l’aspetto narrativo della vicenda. In alcuni casi anche la musica è divenuta essenziale e rarefatta, per lasciare libera o maggiore espressività ad altri valori artistici, ma sempre rispettando un piano di mutue sinergie collaterali.
A considerarla oggi, con gli occhi disincantati di un osservatore moderno, non si può non pensare all’opera come a una forma arcaica di cinema.[31] Il desiderio di dare una immagine ai suoni o, se si vuole, di dare suono alle immagini, sembra una logica conseguenza dei tentativi avvenuti nei secoli precedenti, vòlti a dare una “sonorizzazione plastica” ai dipinti, e insieme a fornire di una capacità descrittiva e quindi in qualche modo pittorica le composizioni musicali. Per la verità agli inizi del cinema avvenne una grave disgiunzione tra immagini e suoni: era l’epoca del cinema muto e allora appariva impossibile risolvere i problemi tecnici che impedivano di associare il suono alle immagini.[32] Nel tentativo di ricucire questo profondo taglio e di supplire a questa grave assenza si rese necessario aggiungere un commento sonoro alle immagini proiettate sullo schermo, utilizzando la capacità di pianisti, per lo più improvvisatori, in grado di descrivere e assecondare estemporaneamente le atmosfere e le situazioni proiettate sullo schermo. In seguito si giunse alla codificazione di una sorta di repertorio di brani musicali dal carattere descrittivo che venne anche stampato e pubblicato. Nonostante l’avvento del cinema sonoro fosse ancora soltanto un sogno, ancora in piena epoca del cinema muto si cominciò a dare maggiore importanza al commento musicale, commissionando le musiche a compositori famosi. Uno dei primi a scrivere musica da film propriamente detta fu il compositore francese Camille Saint-Saëns (1835-1921), il quale scrisse la colonna sonora[33] del film L’assassinat du duc de Guise del 1908, che veniva eseguita al momento e dal vivo, durante la proiezione. A lui fecero seguito Ildebrando Pizzetti (1880-1968) nel 1914 con la musica per Cabiria e Pietro Mascagni (1863-1945) per Rapsodia satanica, anch’esso uscito nel 1914.[34]
D’altra parte in pochi anni il cinema muto aveva raggiunto una autonomia artistica e un successo tali, data la novità del movimento delle immagini di per sé comunque spettacolare,[35] che Charlie Chaplin si dichiarava assolutamente contrario all’avvento del sonoro.
Nel 1931 infatti, nel pieno del boom del cinema sonoro, il famoso attore-regista restò fedele al muto girando quello che si rivelerà come uno degli ultimi grandi films muti: Luci della città. Occorre però aggiungere che la poesia dei silenzi e degli sguardi di Charlot era talmente eloquente da sublimare in arte una deficienza tecnica come quella della mancanza del sonoro.
Con l’avvento della sonorizzazione le interazioni tra musica e cinema diventarono ovviamente sempre più strette e fruttuose, benché come abbiamo visto in precedenza, durante il periodo del cinema muto, la necessità della presenza della musica avesse spinto i cineasti ad adoperarsi perché essa fosse comunque contemporanea alla proiezione del film. Il primo tentativo di sonorizzazione avvenne nel 1926 e consisteva nella sincronizzazione tra un grammofono e la macchina da proiezione.
L’accoglienza del pubblico nei confronti di questa allora stravagante novità fu poco lusinghiera, probabilmente a causa dell’immaginabile qualità fonica del risultato, ma il sonoro era destinato a diventare in breve tempo un successo enorme. Risale infatti all’anno seguente l’apparizione di quello che si può definire come il primo film sonoro nella storia del cinema: The jazz singer (1927). Esso conteneva solamente la sonorizzazione di una scena e di tre canzoni, ma il successo fu senza precedenti, seguìto presto da quello ancora maggiore dei film The singing fool (1928) e Hallelujah (1929).[36] Iniziò allora una variegata, continua intersecazione fra immagini e suono, tra dialoghi parlati e musica, nell’alternanza tra il trionfo dei suoni, come nei film musicali americani, e il primato della parola, come avviene nei film introspettivi dalla sceneggiatura in primo piano, rarefatta e intimistica. Sia l’aspetto musicale che quello figurativo possono trarre vantaggio da questa collaborazione: è evidente che un brano musicale può meglio e più a lungo restare impresso nella mente se è strettamente associato alla visualizzazione di certe immagini, nello stesso modo in cui resta più impresso un pensiero allorquando lo si fissa sulla carta attraverso dei segni che non siano necessariamente e strettamente letterari, ma figurativi.[37] In questo caso si percorre un tragitto che, partendo dall’immagine, arriva fino al suono, ma avviene la stessa cosa percorrendo la strada in direzione opposta, quando sentire da sola la musica di un film riporta immediatamente presente l’azione cinematografica e la condizione emozionale provata durante la visione, normalmente sempre positiva o comunque fortemente emozionante. È questo il fattore che sancisce l’importanza della colonna sonora di un film e che ne può determinare il successo.
Per la condizione stessa della musica da film – a causa del suo esistere all’interno di una situazione che prevede molti dialoghi, tagli improvvisi di montaggio, tempi di breve respiro e percorsi accidentati, senza contare la presenza dei rumori reali dell’azione ecc. –, essa non può facilmente possedere una ben definita forma strutturale del tipo di quella accennata in precedenza, attraverso la quale la si possa inserire in un preciso contesto musicale di tipo strettamente compositivo. Quindi essa sembra vivere ai margini di quella regione dell’arte della composizione considerata canonica,[38] seppure illuminata dagli squarci dell’ispirazione personale e comunque suffragata dalla preparazione accademica del compositore. Solo in alcuni casi fortunati tra i quali la musica di Ennio Morricone, essa figura infatti nei programmi da concerto, ma non tanto per una sua improbabile condizione di inferiorità, quanto piuttosto per la natura stessa della sua organizzazione la quale, in quel caso, renderebbe necessaria una dilatazione della sua struttura, compressa dai ritmi del film. A meno che, al momento della stesura della sceneggiatura e specialmente della creazione della fisionomia del film, esso non sia stato preventivamente architettato in modo da dare particolare spazio e importanza alla musica. Questo avveniva fin dai citati film musicali americani che decretavano il successo autonomo delle musiche della colonna sonora, fino al successo delle musiche dei Bee Gees ne La febbre del sabato sera, all’interno del quale era riservato uno spazio molto ampio al ballo, fattore necessario e sufficiente perché la musica potesse dipanare la sua struttura in una forma autonoma ed esaustiva.[39] Non ha avuto lo stesso successo la colonna sonora di Amadeus, nonostante l’autore fosse Wolfgang Amadeus Mozart. Non si può certo dire che il motivo di questo mancato successo possa essere dipeso dal compositore, quanto proprio dai tempi dei film; in Amadeus i temi musicali, di per sé di largo respiro perché appartenenti ai capolavori di Mozart, risultano necessariamente contratti[40] (tranne che per l’affascinante quanto improbabile episodio della composizione del “Confutatis…” da parte di Mozart morente aiutato da Salieri, che fa apparire tutta la concitazione emotiva dell’atto del comporre).
Il film ha, come tutte le creazioni artistiche, un centro germinale e gravitazionale, un fulcro dal quale si è sviluppata l’idea creativa iniziale dell’artista. Dalla persistenza di questo centro, diluito in circa un’ora e mezzo di sviluppo, dipende la coerenza e la consistenza del lavoro finale. Nella pittura questo centro è coincidente con l’opera stessa, avvertibile in condizione di immediatezza, mentre per la musica esso risulta sparso per tutta la lunghezza del brano, traendo però vantaggio dalla forma di una sinfonia, ad esempio, fatta di movimenti diversi e a sé stanti, con temi autonomi che rinnovano l’interesse all’ascolto. Nell’opera lirica è più difficile mantenere tutto il lavoro coerente con l’idea iniziale senza appesantirlo, data la lunghezza, che si protrae per alcune ore, e la fissità del punto di vista dello spettatore, immobile per tutto il tempo. Per questo si cerca di ricorrere ai cambi di scena, alla diversificazione delle luci ecc… Conosce bene queste problematiche il cinema, che si avvale di repentini cambi di scenografia, improvvisi capovolgimenti di visuale, inaspettate deviazioni attraverso le quali si possono contemporaneamente tenere in vita tre o quattro storie parallele con i relativi centri germinali, assicurando in questo modo sempre nuovo interesse alla creazione completa. Tutto questo dipende dal fatto che i parametri variabili di cui dispone la pittura sono soltanto la forma e il colore,[41] ma non il tempo, al quale sono invece fortemente legati sia la musica che il cinema.[42]
Quest’ultimo è profondamente legato alla presenza di forme e immagini della natura, dalle quali non può prescindere nemmeno quando tratta temi fantascientifici, le cui visioni fantastiche si appoggiano necessariamente al mondo delle esperienze reali. Sembra invece godere di maggiore autonomia dalla realtà l’universo ormai vastissimo dei video-clips, basati sulle stesse tecniche cinematografiche, seppure condensate e portate all’esasperazione, ma dotati di maggiore emancipazione nei ritmi, anch’essi condensati data la loro brevità, nelle ottiche usate per la riprese, nella computerizzazione delle immagini e nella libertà da una trama o dalla fedeltà all’idea iniziale che può risultare inutile a causa delle dimensioni ridottissime dell’opera. Anche i concerti di musica rock, che fulminano i sensi con luci ed effetti speciali, vivono nella stessa dimensione nervosa e frenetica dei video-clips, ma la musica può vivere anche rinunciando a tutto questo, e lo dimostra quando si astrae nei concerti acustici, parchi nel regalare i suoni e nello sfruttare i mezzi, ma ugualmente efficaci e penetranti. Lo stesso non si può dire dei video, i quali non possono vivere di vita propria ma dipendono strettamente dalla presenza della musica, ne assecondano i ritmi e la dinamica, ne commentano il contenuto, sfruttando la capacità di penetrazione della memoria visiva.