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Musica e lavoro

di Febo Guizzi
dossier "I canti del lavoro", Choraliter 46, aprile 2015

Si fa presto a dire: canti di lavoro. Dietro questa etichetta si estende una realtà complessa e non poco problematica. Tra le tante questioni si pensi alla contraddizione che si cela al di sotto della facilità apparente con cui pare ovvio individuare i canti che formano questo gruppo semplicemente riferendoli a una destinazione funzionale che pare scontata, quale è per l’appunto quella del lavoro. Si tratta infatti di uno dei casi più ovvi tra quelle musiche cosiddette funzionali (che comprendono anche le musiche militari, i canti religiosi, ecc.), principalmente segnate cioè dallo scopo cui esse sono destinate. Proprio il legame con occasioni determinate e comportamenti altrettanto definiti dovrebbe bastare per accorpare senza problemi insormontabili forme anche molto diverse tra loro, al di là delle aree geografiche e culturali di appartenenza.

Questa ampia eterogeneità, che già di per sé esclude una fisionomia comune degli aspetti formali, non azzera il vero dato problematico: la funzione, il legame, sono espressioni sintetiche di una sostanziale varietà di casi, esplorando i quali si scopre che è proprio il nesso di dipendenza dall’attività lavorativa a mostrare modalità concrete di attualizzazione tra loro non solo nettamente distinte, ma definibili solo per via di scelte soggettive: come già notava Roberto Leydi, si tratta dunque di una categoria «in parte arbitraria: infatti si è soliti far rientrare sotto la definizione di canti di lavoro non soltanto quei canti specifici che vengono utilizzati per ritmare il lavoro (soprattutto collettivo), ma anche quelli che sono destinati ad accompagnare o alleviare la fatica e la noia del lavoro, individuale e collettivo» (Roberto Leydi, I canti popolari italiani: Milano 1973, p. 294).
Una tassonomia ormai da tempo consolidata in etnomusicologia disegna le diverse forme in cui si manifestano i rapporti significativi tra canto e lavoro con una ancora più ampia casistica, le cui principali concrezioni sono costituite dai
  • canti, o musiche non vocali, di lavoro, quelli cioè che esercitano una funzione diretta nell’organizzazione e nel coordinamento dei gesti fondamentali dei processi lavorativi, come il celebre caso dei battipali della laguna veneta di un tempo o le figure ritmiche dei colpi sull’incudine a uno o più martelli da parte dei fabbri o i sea shanties, i canti con cui si organizzavano le difficili manovre alle vele delle più sofisticate e complesse imbarcazioni commerciali spinte dal vento, e cioè i clippers del traffico transatlantico precedente l’avvento dei motori a vapore;
  • canti del lavoro, ovvero le espressioni radicate negli usi lavorativi di alcune categorie, ma non finalizzate alla concertazione dei gesti, come i richiami dei venditori dei mercati all’aperto (le abbanniate dei mercati di Palermo);
  • canti durante il lavoro, cioè i canti eseguiti nel corso di attività produttive individuali o, più spesso collettive, che riempiono il tempo e lo spazio mentale dell’attività lavorativa allo scopo di alleviarne l’oppressiva incombenza, come è il caso dei canti di monda della coltivazione delle risaie di un tempo;
  • canti sul lavoro, nel senso di canti che si esprimono a proposito del lavoro, e dunque funzionano come strumento espressivo e comunicativo attraverso cui si formalizza e si riversa all’esterno l’esperienza riflessiva sul lavoro, le sue condizioni, il suo valore sociale, attraverso la protesta, ma anche a volte la rivendicazione di appartenenza o la fierezza del mestiere.

Vedremo poi più avanti che le questioni sono anche più intricate.

È dunque opportuno pensare all’insieme eterogeneo di questi canti come una sorta di campo segmentato e marcato da confini sempre più ampi, disegnati in modo concentrico, come i cerchi sulla superficie dell’acqua in cui si sia gettato un sasso. Occorre anche compiere un passo decisivo sul piano teorico, e cioè convincersi che la stessa partizione tra musica funzionale e musica pura è un artificio, legato a idee estetiche datate e da tempo messe in crisi soprattutto dalla prospettiva etnomusicologica: ogni musica infatti è funzione di qualche finalità sociale e tutta la musica (anche la più asservita a un fine pragmatico) smuove inevitabilmente processi percettivi ed emotivi che a loro volta mettono in moto anche una partecipazione di tipo estetico, rilevante soprattutto se non si resta legati alle categorie dell’estetica idealistica, quelle del sublime, del bello assoluto e dell’arte per l’arte. Si rileggano a tal proposito le chiare parole appena citate del discorso di Leydi: anche il canto legato al lavoro per ricavarne una parziale e contestuale emancipazione dai gravami della fatica è certamente funzionale, sia al miglior svolgimento dell’attività in corso, sia all’ottenimento di un equilibrio psichico perseguito quasi contro il lavoro stesso e l’usura che esso può produrre. Tale effetto si esplica per mezzo dell’abbandono performativo e attraverso l’evocazione di flussi mentali cui non è estraneo l’ambito delle idee, suggerite dall’esperienza in atto: un coinvolgimento pienamente riconducibile ai poteri che l’agire artistico è capace di dispiegare attivando la creatività soggettiva sia sul piano del sentimento, sia su quello della critica, a volte con precisi riflessi sociali. Basti pensare a uno dei repertori più noti di canti sul lavoro, legato a un mestiere che non esiste più ma che ha segnato con la sua potenza suggestiva e l’efficacia critica un intero periodo del cosiddetto canto sociale: il riferimento è ai canti delle mondine. Sono disponibili ampie ricerche su questa tradizione, che si sono rivolte sia al momento – particolarmente difficile da documentare – dell’esecuzione in funzione, e cioè durante il lavoro, nelle condizioni durissime in cui esso si svolgeva, sia all’esecuzione sul palcoscenico e comunque in forma dopolavoristica, in cui si è liberata nel tempo una forte carica identitaria ed espressiva di una più generale condizione femminile soggetta allo sfruttamento, fonte e oggetto di rivendicazione sociale e di denuncia politica. Ebbene, questi canti sono stati utilizzati sino in fondo come una sorta di viatico spirituale che favoriva la sopportazione della fatica attraverso una potente liberazione delle coscienze, attingendo a canti di ogni tipo, da quelli d’amore ai canti di origine militare, dalle canzonette in voga a canti di ispirazione religiosa, dal canto narrativo agli stornelli, senza escludere importanti momenti basati sull’improvvisazione in cui si potevano canalizzare in modo estemporaneo l’ironia, la critica contro il padrone, l’allusione sessuale o la nostalgia per la casa lontana. Non è un caso che i responsabili dell’organizzazione del lavoro in risaia incentivassero il canto, nonostante i contenuti spesso si indirizzassero contro il sistema, poiché gli agrari erano ben consapevoli dell’insostituibilità del canto delle lavoratrici come fattore di coesione e di evasione dalla fatica.
Costituiscono dunque aspetti decisivi per individuare i canti di lavoro sia la funzionalità e l’occasionalità cui sono destinati molti di essi, sia anche la connessione stretta che ci si attende che essi stabiliscano con espressioni fondamentali del sentire umano. Ma vi si può scorgere un carattere ancora più originario, nel momento in cui si colga il legame profondo e generativo che molte espressioni sonore legate al lavoro intrattengono con il comportamento umano di base, a partire dal movimento corporeo in quanto tale: e non è un caso che proprio queste connessioni primarie si siano imposte all’attenzione degli studiosi sin dai primi momenti di elaborazione scientifica moderna del ruolo e del significato della musica nella vita degli uomini, come l’etnomusicologia delle origini seppe quasi immediatamente cogliere. 

Nel clima culturale dominato dal Positivismo, che fu determinante per favorire la nascita di una delle esperienze fondative più rilevanti di quella che solo molto più tardi si sarebbe chiamata etnomusicologia, e cioè la cosiddetta Scuola di Berlino nata all’interno del comparativismo scientifico da cui prese le mosse, si consolidò un interesse per gli aspetti fondamentali dei comportamenti umani nel senso più ampio, entro cui fu messa in evidenza la stretta relazione intercorrente tra movimento corporeo, la musica, e la poesia. Il testo di riferimento – che rimase tale anche per molto tempo dopo la fase di maggiore influenza esercitata dalla musicologia comparata – fu quello di Karl Bücher, pubblicato a Lipsia nel 1899 con il titolo Arbeit und Rhythmus. In questo testo l’autore, che di formazione era un economista, non solo passò in rassegna una quantità ragguardevole di canti e musiche di ogni parte del mondo, ma espose il suo punto di vista che già allora comprendeva interessanti considerazioni: tra queste, l’idea che il lavoro e il gioco alle origini dell’esperienza umana fossero la stessa cosa, e che l’uomo primitivo esprimesse unitariamente in tutte le sue fatiche una gioia nel fare non dissimile da quella elaborata ai più alti livelli della mente raggiunti nello sviluppo più avanzato delle civiltà. Il ritmo, inteso da Bücher come principio evolutivo economico, ha da sempre avuto la forza «non solo di ridurre l’onere del lavoro, ma anche [di funzionare] come una delle fonti del piacere estetico e del principio artistico per il quale tutti gli esseri umani senza distinzione di cultura condividono nel loro intimo una sorta di sentimento comune» (cap. IX: Der Rhythmus als ökonomisches Entwicklungsprinzip).
Questa visione, ovviamente intrisa di evoluzionismo come era allora inevitabile, frantumava l’idea romantica e idealistica della musica e del canto separati dal tempo di lavoro: l’idea cioè che, essendo quest’ultimo il momento centrale della vita materiale, con le sue costrizioni segnate dalla fatica e con l’impegno fisico nella trasformazione della natura per perseguire la realizzazione di prodotti o di diverse condizioni della vita associata, fosse in totale contraddizione con il tempo della festa nonché con i momenti dell’abbandono, della temporanea liberazione dei sentimenti e delle emozioni, comunque del rapporto con il mondo in cui si gioca senza costrizioni l’attività creativa, l’artificio disinteressato spiritualmente appagante e svincolato dal bisogno materiale.
La grande ventata del Positivismo, considerando la vita umana in generale e le sue manifestazioni psichiche come risultato di attività globalmente ricondotte al sostrato materiale dell’esistenza, cioè alle condizioni per l’appunto positive che fissano l’appartenenza al genere umano a partire dal dato fisico di base, determinò una valorizzazione teorica che è rimasta al centro di gran parte dell’antropologia culturale anche dopo il superamento della teoria evoluzionistica e della griglia ermeneutica del Positivismo stesso: si tratta della centralità attribuita al corpo come fonte e mezzo primario dei comportamenti, nessuno escluso. Anche per la formazione di una nuova scienza dei suoni umanamente organizzati – per la quale ci volle poi ancora circa mezzo secolo affinché il neologismo etnomusicologia divenisse un termine accettato pressoché generalmente – è stato decisivo l’assioma che affermava che ovunque vi sia vita umana c’è movimento corporeo ed espressione vocale, anch’essa direttamente dipendente dalla corporeità e dalla sua fisiologia. Entrambi questi aspetti furono presi in considerazione come segni della presenza umana nel mondo e come presupposti ineliminabili di ogni considerazione delle sue determinazioni culturali: il corpo, dunque, e non solo nella sua fissità anatomica, bensì nell’espletamento della sua incomprimibile dinamicità funzionale, costituì un focus irrinunciabile per l’analisi delle manifestazioni culturali poste al centro della comparazione praticata dagli scienziati.

Il rovesciamento dell’approccio idealistico alla cultura e alla sua genesi, quindi, inglobò in modo irreversibile nell’osservazione dedicata ai comportamenti della psiche umana la considerazione della relazione profonda tra le forme e i modi dell’organizzazione del lavoro, degli sforzi cioè di sfruttamento e di trasformazione della natura richiesti dalle necessità primarie della sopravvivenza, e dei comportamenti formalizzati degli uomini impegnati nell’esercizio di quegli sforzi. Ancora più inevitabile si mostrò di conseguenza l’utilizzazione, più o meno indotta, di modi specifici di formalizzazione dei comportamenti secondo dettami di regolazione del tempo e delle sue scansioni, e quindi di reinvenzione creativo/funzionale del movimento sulla base del ritmo e del suo rivestimento organizzativo non meno che riflessivo per mezzo di espressioni vocali articolate in frasi melodiche a loro volte connesse in relazioni cooperanti di più voci – nel caso di lavori collettivamente eseguiti – simultaneamente emesse o rimbalzanti tra sottogruppi in forma responsoriale.
La ricerca di spiegazioni primarie – così intensamente professata dalla vergleichende Musikwissenschaftportò a interrogarsi sull’origine della musica e a distinguere in modo originale la genesi della musica strumentale in totale autonomia da quella della musica vocale: fu attribuita una piena centralità originaria al movimento e alla misura ritmica fortemente marcata del gesto da cui si sprigiona la precisione energica dei ritmi: era il concetto dell’impulso motorio posto alla base stessa dell’origine della musica strumentale da Erich M. von Hornbostel, Curt Sachs e poi da André Schaeffner. Fondamentale fu lo scritto di Hornbostel pubblicato nel 1903 Melodischer Tanz. Eine musikpsychologische Studie, nel quale egli elaborò il concetto – che raffina potentemente l’idea del ritmo puro che scandisce il movimento coreutico – del movimento melodico che diviene danza e si articola perciò stesso in musica in modo molto più profondo di quanto non faccia il mero ritmo, dal momento che la stessa melodia è un effetto del danzare melodico, vero motore originario dell’esperienza psicologica della musica. Per Sachs il concetto, più volte al centro del suo interesse, compare in modo netto nel capitolo iniziale del suo Geist und Werden der Musikinstrumente, ove egli mette all’origine della musica strumentale il movimento corporeo e il corpo stesso come fonte primaria del suono organizzato: «È certo che questo inizio ha origine unicamente da un sistema ritmico innato degli uomini e viene posto in essere solo in funzione del loro movimento. [...] si tratta sempre della soddisfazione del semplice impulso, per mezzo della semplice attività muscolare regolata per produrre ritmicamente il suono» (Curt Sachs, Geist und Werden der Musikinstrumente, Berlin 1929, Dietrich Reimer, a p. 7 e segg.).

Da questo perspicace laboratorio concettuale allestito dai comparatisti berlinesi e poi ripreso dal surrealista André Schaeffner negli anni ’20-’30 del Novecento, deriva un’ulteriore affinamento della riflessione antropologica sul lavoro, il corpo, il ritmo, i tratti psichici e spirituali della musica, che dobbiamo al più importante paleo-antropologo della seconda metà del secolo scorso, quell’André Leroi-Gourhan che nel suo fondamentale saggio uscito nel 1964-65 scrisse: «Fra il ritmo musicale fatto di tempi e di misure e il ritmo del martello o della zappa fatto di procreazione di forme, immediate o differite, la distanza è notevole, in quanto il primo dà origine a un comportamento che traccia simbolicamente la separazione del mondo naturale e dello spazio umanizzato, mentre il secondo trasforma materialmente la natura selvaggia in strumento dell’umanizzazione. L’uno e l’altro sono strettamente complementari, ma (…) non occupano entrambi la stessa posizione nella scala dei valori. La musica, la danza, il teatro, le situazioni sociali vissute e mimate appartengono all’immaginazione, cioè alla proiezione sulla realtà di una luce che illumina in maniera umana lo svolgimento banalmente zoologico delle situazioni umane. Esse sono il rivestimento di comportamenti sociali e interindividuali che si registrano nelle norme biologiche più generali, costituiscono la proprietà intima del linguaggio nella misura in cui esso si contrappone alla tecnicità manuale. Il ritmo tecnico non ha immaginazione, non umanizza comportamenti, ma materia grezza» (André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola. I. Tecnica e linguaggio II. La memoria e i ritmi, 2 voll. Torino 1977, Einaudi: II, 362-363). Alla musica dunque si riconosce una prerogativa fondativa della cultura, sino dai suoi esordi, in quanto fattore decisivo di umanizzazione: non è dunque impropria l’aspirazione a usare il suono organizzato non solo come oggetto di studio e di interpretazione, ma anche come mezzo per la comprensione del mondo degli uomini, come interpretante della realtà e della cultura.

In questa chiave la connessione tra musica e lavoro, che ingloba anche l’opposizione tra le divergenti qualità dei ritmi coinvolti nelle due sfere complementari dell’agire umano (quella della tecnicità e quella dell’immaginazione), si propone come luogo non solo di una mera funzione coadiutrice, ma anche del suo superamento. In altre parole la musicalizzazione del lavoro equivale a intensificare emotivamente il senso profondo delle esperienze della fatica e del fare, attribuendo anche alla sfera tecnica e materiale un carattere di eccezionalità liminale. La creatività del canto è capace di produrre effetti in tutte le situazioni umane e per questo, in un’epoca in cui gli aspetti direttamente funzionali dei vari tipi di canto di lavoro hanno perso, almeno nella gran parte del nostro ambiente sociale e produttivo, una diretta operatività, il recupero di quel senso profondo, che comprenda peraltro la consapevolezza delle tante differenze originarie non solo dei contesti d’uso ma anche della peculiarità di forme e stili, è un compito artistico di piena reinvenzione della creatività contemporanea. Un ritorno, attraverso la musica e il canto, alla gioa del fare.

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