Bene, cominciamo da qui. Chi è stato Jón Leifs?
Jón Leifs è stato un compositore islandese, nato nel 1899 e morto nel 1968. È stata, la sua, una figura di assoluto primo piano nella cultura musicale della piccola nazione insulare. Un musicista che, nei tempi attuali, è ampiamente rivalutato e celebrato in patria. La sua vicenda biografica, tra l’altro, ha ispirato il toccante film Tears of stone (1995). A 17 anni Leifs ha lasciato l’Islanda, per perfezionare la propria istruzione musicale in Germania, a Lipsia, dove ha avuto la fortuna di incontrare come insegnante e mentore Ferruccio Busoni e dove ha intrapreso con successo la carriera di pianista, direttore d’orchestra e compositore. Nel periodo di permanenza in Germania, però, Leifs ha sempre mantenuto legami culturali, artistici e affettivi molto stretti con la terra d’origine. A conferma di ciò, ci sono, nelle sue opere, frequenti richiami alle tradizioni storico-mitologiche, all’ambiente naturale e al folklore musicale islandese. Leifs non ha mai perso il contatto soprattutto con il canto popolare della patria. Il canto popolare islandese è stato il suo terreno privilegiato di ricerca e una costante fonte d’ispirazione tematica e stilistica per le sue composizioni. Inoltre, egli ha fondato il suo immaginario artistico sulla base di forti connotati nazionalistici. Un dato non del tutto estraneo a un pensiero di supremazia ariano-islandese; a un pensiero per cui le remote lande dell’isola avrebbero preservato l’autentica cultura nordica, nella sua forma più incontaminata.
Questo atteggiamento estetico ha senz’altro favorito il giovane Leifs nel clima politico di ascesa del regime nazista in Germania. Egli ha pagato amaramente, però, le simpatie manifestategli in gioventù dalle gerarchie naziste. Tant’è che i sospetti di una sua adesione all’etica nazista hanno screditato, in avanzata età, la sua immagine; anche in patria.In realtà, all’epoca del suo ventennale soggiorno in Germania, la benevolenza delle gerarchie naziste nei suoi confronti non ebbe lunga vita. Ciò a causa dei forti accenti modernisti della sua musica. Infatti, la ricerca di un suono duro e primitivo e l’emancipazione della dissonanza contraddistinsero ben presto lo stile delle sue opere. La sostanza sonora, quasi materica, che contrassegnava le sue partiture, sembrava tradurre in suono l’energia che si sprigiona negli eventi vulcanici e geotermici, caratteristici del paesaggio naturale islandese.
Si ascolti l’esordio del Concerto per organo e orchestra, op. 7, del 1941. Testimoni raccontano che, alla fine della prima esecuzione di quest’opera, rimase in sala soltanto una ventina di persone. La maggior parte del pubblico, scioccato dall’impatto con l’asprezza delle sonorità, abbandonò fin da subito la sala. Nonostante le sue partiture non abbiano eguagliato per radicalità la scrittura di Schönberg, né la sua musica sia mai stata etichettata come “degenerata”, rimane il fatto che le composizioni di Leifs, dapprima bene accolte in Germania, persero in seguito di apprezzamento e vennero giudicate difficilmente accessibili.
Introduciamo ora un’altra considerazione. Il destino ha voluto che, da questo momento in poi, l’arte di Jón Leifs si annodasse strettamente alle sue vicissitudini esistenziali. Spieghiamo facendo un passo indietro. Nel mese di giugno 1921, Leifs si era sposato con Annie Riethof, una giovane pianista tedesca, ma di origini ebraiche, conosciuta durante gli studi in conservatorio a Lipsia. Dal loro matrimonio sono nate due figlie, Snót e la prediletta Líf. La crescente ostilità verso le persone di origini ebraiche nella Germania degli anni trenta guastò la serenità familiare e, per i coniugi Leifs, la minaccia della persecuzione si fece concreta. A ciò si aggiunga quanto già detto a proposito dell’affievolirsi dell’interesse, da parte di pubblico e critica tedeschi, per la musica del compositore islandese, al punto che, dopo la citata esecuzione del Concerto per organo, egli non ebbe più l’opportunità di ascoltare la sua musica in Germania. Pertanto, nel 1944, maturò la decisione di lasciare il suolo tedesco, per trasferirsi con l’intera famiglia in Svezia. Il legame di coppia, tuttavia, già duramente messo alla prova dalle difficoltà trascorse, si era ormai definitivamente incrinato. Nel 1946 i due coniugi decisero di separarsi. Mentre la madre continuò a risiedere in Svezia con le due figlie, Jón Leifs fece da solo ritorno in Islanda, dove rimase fino alla fine dei suoi giorni. Passò soltanto un anno dalla separazione e un evento funesto si abbatté sull’esistenza di Leifs. Il 12 luglio 1947, Líf – quella che si è detto essere la figlia prediletta, nonché una promettente musicista – morì, all’età di soli 17 anni, in circostanze tragiche. Líf, pur essendo abile nuotatrice e solita allenarsi in mare, perse la vita, annegando presso le coste svedesi orientali.E siamo giunti al punto. Il 31 luglio 1947, mentre le spoglie della povera Líf (accompagnate dalla madre e dalla sorella) navigavano verso occidente, per essere tumulate in terra d’Islanda, suo padre Jón pose fine alla composizione di un Requiem, a lei dedicato, per coro a quattro voci a cappella. Una breve composizione di soli cinque minuti; ma sono cinque minuti di straordinaria e commovente intensità; quei cinque minuti menzionati in apertura. Il titolo richiama il testo latino della liturgia per i defunti. In realtà, si tratta di una composizione su frammenti di una poesia popolare islandese, combinati con alcuni versi tratti da un’elegia (Magnúsarkviða, La poesia di Magnus), opera del letterato islandese Jónas Hallgrímsson, risalente al 1842. Il testo utilizzato da Leifs per il Requiem è assimilabile a quello di una ninna nanna. Sarebbe, perciò, meglio definire il brano proprio una ninna nanna. Una tenera ninna nanna, attraverso la quale un padre cerca consolazione per il dolore devastante dovuto alla perdita della giovane figlia. Ecco il testo.
Il brano è ancorato a un intervallo di quinta vuota (la-mi), pressoché per l’intera sua durata. L’unica variazione armonica è dovuta al cambio di modo dato dall’aggiunta ora di una terza maggiore, ora di una terza minore. Queste oscillazioni d’intervallo costituiscono l’unico elemento di contrasto e di movimento, dal momento, che il pezzo non cessa mai di gravitare attorno al tono di la. Insomma, la composizione circola in un ambito dai confini ristrettissimi: suoni, tessiture e dinamiche sono racchiusi in un alveo assai circoscritto; niente modulazioni, né progressioni armoniche, né sviluppi fra le parti vocali, ma un calmo “moto-immoto” che circola attorno ai suoni della triade di la.
Ecco il motivo iniziale del Requiem (“Il biondo tarassaco / Ora dorme nel campo…”). Si noti, tra l’altro, la scrupolosa serie di forcelle dinamiche, che sembra visualizzare la morbida elasticità ritmica, attraverso cui i suoni roteano.
L’impiego della quinta come cardine fondamentale del pezzo, è conforme a una prassi antica e comune nei canti popolari islandesi, risalente almeno al XV sec. Si tratta del tvísöngur (o two singing, canto a due), cioè una forma di canto, in cui le voci procedono per quinte parallele, nota contro nota (anche incrociandosi), all’incirca come nella primitiva polifonia degli organa medievali.
Le immagini degli animali e della natura addormentata – viene in mente la lirica di Alcmane-Quasimodo: “Dormono le cime dei monti e le vallate intorno…” – e dei bambini, che prendono sonno, cullati dal papà, si susseguono nel moto ipnotico della melodia altalenante tra modo maggiore e modo minore. La coda di questo episodio è sulle parole che il padre rivolge direttamente alla figlia: “Dormi amore mio tra le braccia del Signore. / Dormi, mia cara figlia”. È il sonno eterno della fanciulla.
Il motivo iniziale è ripreso, in chiusura della prima parte del brano, dal solo soprano, mentre le altre voci sostano sulla quinta-ottava vuota.
La seconda sezione si apre con la rappresentazione della notte che stende il suo misterioso velo di sogni sulle stanche baracche contadine. Questo scenario è affidato alla profondità delle voci maschili divise. Si tratta dell’unico e netto stacco di tinta, in un quadro di generale omogeneità timbrica del pezzo.
Con la successiva sovrapposizione delle voci femminili prende forma il passaggio di maggiore intensità espressiva, là dove s’invoca l’auspicio che dolore e sofferenza siano allontanati, per lasciare il posto alla visione gioiosa e consolatoria della città celeste.
Lo schema della tripartizione formale si chiude, quindi, con la ripresa accorciata della prima parte: ma con la variante che, alla ripetizione del motivo iniziale da parte del soprano, si unisce in forma speculare il tenore.
La composizione termina con le stesse parole del padre (“Dormi amore mio tra le braccia del Signore…”), le quali si affievoliscono sul dondolio di quarte (mi-la) del tenore.
Da questi esempi brevi, eppure eloquenti, si deduce che il piccolo Requiem di Leifs, pur improntato all’insegna di un’estrema semplicità – quasi naif –, è modellato secondo il principio di variazione minimale e costante. Un presupposto stilistico assai moderno. È come se il compositore volesse mettere l’ascoltatore nella condizione di “osservare-udire” la lenta e caleidoscopica rotazione di un oggetto, che presenta una superficie sonora sempre leggermente mutevole. Si dirà che la gamma melodica ridotta a poche note, l’iterazione di sobri motivi, l’andamento lento e regolare, la dinamica contenuta nell’estremo più tenue della sonorità, l’impasto timbrico morbido e omogeneo, sono tutti ingredienti musicali che contribuiscono all’esito carezzevole e ipnotico, tipico di qualsiasi ninna nanna.
La composizione di Jón Leifs vanta, però, un valore aggiunto: quello che potremmo definire del corto circuito fra arte e vissuto. Una premessa che non sempre porta al risultato di un capolavoro. Anzi! Quante opere, infatti, pagano il prezzo della retorica, là dove la “voce” dell’autore deborda sui reali valori musicali della partitura! Nel caso del Requiem di Leifs, tuttavia, la partecipazione emotiva dell’artista – pur concedendosi in piena sincerità – si mantiene nei giusti toni; e la creazione sonora si presenta con impeccabile coerenza e armonia di stile. È questo giusto equilibrio tra coinvolgimento affettivo e controllo dell’espressione, che carica l’ascolto di pathos, indipendentemente che si conoscano le reali circostanze che hanno dato origine a questo incantevole pezzo di musica.
E ancora un’ultima breve riflessione. In un’epoca – quella attuale – in cui nella musica corale si celebrano forme di neo-semplicità, stupisce alquanto scoprire che esistono tracce ante litteram in autori del passato, considerati – a torto – minori e isolati. Autori di raffinata sensibilità, che hanno saputo intuire l’essenziale della comunicazione artistica, cogliere la purezza dell’emozione – anche soltanto occasionalmente; senza necessariamente ricorrere a complicazioni e artifizi, manierismi e facili convenzioni, senza chiamare in causa linguaggi, strategie, mezzi e platee all’avanguardia. Il Requiem di Jón Leifs fu eseguito per la prima volta soltanto nel giugno dell’anno successivo alla sua composizione (cioè nel 1948), dal Coro della Società Musicale Islandese, sotto la direzione di Victor Urbancic, a Copenaghen, in occasione di un festival di musica nordica.