Compose un lirico e dolente De Profundis, per voce, viola, pianoforte e grancassa. Lo dedicò a Pizzetti, accompagnandolo con queste lapidarie parole: «Lugubre espressione della nostra malinconia e intonato forse per sotterrare le nostre illusioni. Amen».
Pizzetti restituì l’omaggio. Dedicò al collega un De Profundis, per coro a cappella, a 7 voci. Ma, contrariamente al musicista veneto, compose un brano che, come vedremo, è tutt’altro che pervaso da tinte cupe e sconsolate. Fatto sta che le due composizioni furono eseguite insieme, per la prima volta, il 12 settembre di quello stesso anno, nel concerto di chiusura del quinto Festival di musica contemporanea, tenutosi nell’ambito della Biennale d’Arte di Venezia.[1]
Insomma, tutto questo per dire che il covid-19 mi ha richiamato alla mente il De Profundis di Pizzetti. Una pagina che non si ascolta di frequente, nonostante sia un gran bel pezzo e un eloquente saggio della maestria e della sensibilità di Ildebrando da Parma (così l’aveva battezzato Gabriele D’Annunzio), nel trattare la compagine corale.
Mario Castelnuovo-Tedesco definì Pizzetti «il più grande polifonista vocale che l’Italia abbia avuto dal glorioso Cinquecento».
Un’esagerazione, si dirà, motivata dall’ammirato trasporto di chi gli fu affezionato allievo. Ma è innegabile che l’intervento di Pizzetti nella letteratura corale ha costituito uno dei segni più rilevanti nella ripresa del genere, in un’Italia musicale che, all’epoca, si avviava sulla strada di un affrancamento dal dominio pervasivo del teatro d’opera, attraverso il recupero di una musica strumentale autonoma, attraverso la rivisitazione delle antiche forme vocali e – non da ultimo – attraverso le utopiche suggestioni sonore delle avanguardie futuristiche.
Prima di entrare nel dettaglio del De Profundis, allarghiamo, seppur brevemente, il contesto di renaissance della musica corale, da cui emerge la figura di Ildebrando Pizzetti. Prodromi al rifiorire di una nuova vitalità corale nei primi decenni del XX secolo in Italia, furono due movimenti di importazione: quello ceciliano, per la musica sacra, e quello orfeonico, per la musica profana.
Nell’ambito dell’Associazione Ceciliana italiana, Giovanni Tebaldini (1864-1952) si distinse per un’azione feconda e instancabile a favore della rivalutazione del canto gregoriano e della polifonia classica. Giuseppe Verdi stesso[2] riconobbe il valore della missione di Tebaldini: «Troppo modesto Egr. Maestro Tebaldini: Ella non è un oscuro! Ella è un valente ed uno di quelli che potrebbe rimettere sulla dritta via chi volesse deviare. Speriamo che ora non vi sia questo pericolo! […]»;[3] e ancora: «[…] Scrivo a stento, ma mi è caro rallegrarmi con Lei, Direttore del Conservatorio di Parma. E più mi rallegro con codesto Istituto musicale, che avrà in Lei un artista che saprà vincere gli inevitabili ostacoli alle riforme di cui abbisogna. […]».[4]
In quest’ultima citazione, si fa riferimento alla nomina del Tebaldini a direttore del conservatorio di Parma. Fu proprio in questo istituto che avvenne l’incontro tra Tebaldini e il giovane studente diciassettenne Pizzetti. Con queste parole Pizzetti, in età matura, ricorda colui che fu il suo principale maestro: «I quattro anni durante i quali il Tebaldini diresse il nostro conservatorio rimangono senza dubbio i più belli, i più fervidi, i più fecondi che il nostro conservatorio abbia vissuto da cinquant’anni; e forse non ne aveva avuto di altrettanto memorabili neanche prima. Prescindendo da tutto ciò che io personalmente m’ebbi da lui – la immediatezza della sua comprensione di uomo e di artista, il conforto della sua fiducia, il suo affetto di maestro e di amico fraterno – il Tebaldini fu il primo a rivelare a tutti noi scolari del conservatorio, la pura bellezza del canto liturgico latino, e la stupenda bellezza della polifonia vocale italiana e straniera dal Quattro al Seicento; e ci fu guida e maestro allo studio e alla conoscenza di innumerevoli musiche grandi, di ogni tempo e paese […]».[5]
Quindi, i due furono uniti da affinità artistica e umana ben oltre gli anni di apprendistato. Ecco, infatti, cosa scriveva Tebaldini il 1 aprile 1940 al suo ex allievo prediletto: «Caro Pizzetti! Grazie di quanto mi scrivi nella tua ultima lettera. Mi parli delle letture al pianoforte, che assieme facevamo in classe, delle grandi opere di polifonia vocale che in Te tracciarono un solco tanto profondo […] E dire che in conservatorio e nei caffè di Parma, si affermava che io … sacrestano – o quasi – andavo facendo propaganda di bigottismo religioso, sia col gregoriano che col Palestrina … A quarant’anni di distanza mi ricordi le letture di allora. Tu solo mi hai capito in quelle che erano le mie vaghe intuizioni. Anch’io sognavo qualche cosa… cui però mi mancava possa di arrivare. Tu l’hai realizzata pienamente […]».[6]
Insomma, c’è un filo diretto che collega il programma di recupero dell’antica tradizione polivocale, avviato sul finire del XIX secolo, con l’arte di uno dei musicisti che fu tra i protagonisti del rinnovamento musicale italiano nella prima metà del Novecento, Ildebrando Pizzetti, appunto. Entriamo ora in merito al De Profundis.
Diversamente dall’asciutta linearità della più nota Messa da Requiem, a 4 voci a cappella (1922), opera intrisa di melopea gregoriana, il più tardo De Profundis allude alla sontuosità degli antichi modelli polifonici, in cui venivano esibite maggiori risorse vocali. Composizioni in cui il variare degli spessori e il gioco dialogico di alternanza fra le parti raggruppate (a due, a tre, a quattro) assumono un ruolo di prevalenza sul movimento per contrappunto indipendente e sul cesello delle singole linee.
Se dovessimo descrivere per sommi capi l’evoluzione del brano, diremmo che c’è una sezione iniziale riservata alle sole voci gravi (quattro parti), una prima apertura verso le estensioni alte (tre parti, contro due), il raggiungimento della massima ampiezza nella tessitura e nella dinamica (sette parti), una nuova rastremazione (quattro parti, contro una), l’estrema densità al termine (sette parti), ma con tutte le voci che chiudono, in pianissimo, la cadenza plagale su una singola nota.
La conduzione delle voci s’adegua, come dicevamo, ai modelli storici, là dove l’intensificazione del numero di voci adiacenti obbliga e limita il movimento a incroci e scambi delle parti per arpeggio, o a spezzettare l’arco melodico in concisi frammenti di imitazioni ritmiche.
Così pure si manifesta la lezione degli antichi prototipi, allorché il crescendo numerico delle voci operanti impone al contrappunto di cedere il dominio alla solida verticalità di armonie consonanti.
Queste prime osservazioni, quindi, a conferma della mano sicura di Pizzetti nella scrittura corale, guidata dalla consapevolezza dei canoni tecnici degli antichi maestri.
Passiamo ora a illustrare l’aspetto più interessante del brano. Quello cioè delle manifestazioni, nel De Profundis pizzettiano, che aprono a un ripensamento in chiave moderna della polifonia classica. Ecco un motivo che supera la tipica conduzione melodica per intervalli diatonici e tende verso più spinte gradazioni cromatiche.
E poi, una decisa digressione dall’ambito modale d’impianto, che trascina di netto alla sfera lontana del tono di re bemolle.
Ma l’inserto più inatteso è quello che segue l’episodio parossistico in fortissimo «quis sustinebit, Domine?» (Un poco accelerando). Bruscamente, le voci crollano e rimangono in sospensione su un’armonia esacordale. Nel piano, le voci sottostanti s’infervorano in una giaculatoria scandita sommessamente: «Fiant aures tuae intendentes…», mentre affiora e s’inabissa, ripetutamente fino a perdersi, la supplicante perorazione dei soprani: «Domine?… Domine?…». Un lampo drammatico che fende l’apollineo equilibrio delle convenzioni stilistiche del mottetto.
La coerenza formale e stilistica viene, in seguito, ristabilita con la ripresa accorciata «Quia apud te…» (Più tranquillo e largo), che conduce alla stringata ed estasiata coda «Domine, Domine, Domine…». Quello dell’ultimo esempio è, come si è detto, il passaggio più intrigante del brano. Poche battute di fusione stilistica tra misurata classicità e palpito umano di natura teatrale, una traccia di comportamento scenico di declinazione monteverdiana, in un quadro di ispirazione mottettistica.
Non possiamo dimenticare che Pizzetti, pur aderendo pienamente ai propositi di rinnovamento della generazione dell’Ottanta, non ripudiò mai la tradizione del dramma musicale. Anzi, nell’economia generale della sua produzione, i lavori dedicati al teatro musicale costituiscono il nucleo principale. Pertanto, anche le composizioni corali risentono della sensibilità del musicista drammatico. Alla luce di ciò, potremmo definire il De Profundis un saggio di eccezionale maestria nella costruzione polifonica, in cui le aperture verso l’espressività della parola scenica oltrepassano il rischio di caduta nel puro formalismo.
Infine, mi sia consentita la seguente citazione, a ulteriore chiarimento dell’esame di questa bella composizione. Sono parole dello stesso Pizzetti a commento del capolavoro assoluto della musica sacra italiana, la Messa da Requiem di Verdi:
«La maggiore grandezza, la vera grandezza della Messa da Requiem verdiana sta in quella parte di essa – e si tratta, si badi, dei tre quarti dell’intera opera – che potrebbe dirsi rappresentativa. Rappresentativa, sì: perché se pure essa non rappresenti né voglia rappresentare nessuna realtà determinata, di luoghi o di persone o avvenimenti, pure, per via di suggerimenti arcani e di fugaci balenanti illuminazioni, e per virtù di accenti di umana commozione, riesce a rappresentare al nostro spirito quell’inconoscibile del quale non possiamo avere il senso o l’intuizione se non per similitudini o riferimenti al mondo sensibile».[7]