Le armonizzazioni di Arturo Benedetti Michelangeli non avrebbero certo potuto nascere spontaneamente, piene come sono di raffinati effetti armonici, inseriti in una struttura polifonica lontanissima dal modello cui i cantori erano abituati. Benedetti Michelangeli, dopo i senatori, aveva intuito le possibilità esecutive del coro, adattandole però alla propria sensibilità e alle proprie esigenze artistiche. Rivoluzione, quindi, ma affrontata e vissuta con naturalezza, come se il grande pianista e il coro “dovessero” incontrarsi e l’avessero sempre saputo. Bastava un caso, un nuovo impulso a quella prima scintilla che, scoccando a Brescia nel 1936, aveva provocato il primo incontro premonitore. Ed ecco che guizza la seconda scintilla: nel 1949 Benedetti Michelangeli è chiamato come docente al conservatorio di Bolzano. Nella stessa città vive e lavora Enrico Pedrotti, uno dei fratelli fondatori del Coro della SAT: un’altra parte del disegno magico si materializza.
Il nuovo incontro tra il maestro ed Enrico Pedrotti – l’inizio di una frequentazione assidua, di una stima reciproca e di un’amicizia sincera – produce le prime armonizzazioni, costruite su una serie di bellissimi canti piemontesi, lombardi e provenzali: La pastora e il lupo, La bela al mulino, La scelta felice, Lucia Maria, Il maritino, La mia bela la mi aspeta. Create le partiture, spetta ora al coro tradurle in suoni.
La prima, ardua prova affrontata è proprio La pastora e il lupo. È il 1954. Siamo lontanissimi dalla placida omofonia e dai comodi accordi della Pastora di Pigarelli con cui i coristi avevano convissuto dalla fondazione del complesso sino al primo dopoguerra. Stesso racconto, stessi personaggi: la pastorella, l’agnello, il lupo, il cavaliere, il salvataggio della vittima, la sconfitta del lupo (o la morte dell’agnello), il bacio quale “prezzo” da pagare. Ma le differenze musicali sono enormi: nella melodia, nella struttura, nel ritmo, nell’armonia. Quell’atmosfera sognante così palpabile nel canto piemontese è una porta aperta attraverso la quale Benedetti Michelangeli si lancia con l’energia di chi da tempo aveva qualcosa da dire e ha finalmente trovato il modo di scaricarsi, di esprimere le proprie emozioni artistiche al di fuori del pianoforte, dei suoi prediletti Chopin, Debussy, Ravel. Il risultato è straordinario: gli accordi sospesi, le scale cromatiche, il pedale dei bassi, le armonie fissate in una fulgida struttura polifonica, i cambiamenti di ritmo, i timbri voluti da Michelangeli sono un mondo nuovo per il coro, che da parte sua si propone all’artista come uno strumento duttile e allo stesso tempo creativo, vivo e vitale, superando agevolmente le perplessità iniziali.
Ma non c’è solo La pastora. Con La bella al mulino si entra in un’atmosfera nuova, i cui confini non ben definiti sono suggeriti dagli svolazzi della tastiera piuttosto che dal solido, ristretto pentagramma del coro. In Lucia Maria, invece, il pizzicato dei bassi sorregge con lievità la melodia, accentuandone allo stesso tempo la drammaticità che sfocia, nel finale, in tragedia, sottolineata ancora dai bassi con un ultimo accordo che è anche un grido di angoscia. Oppure, ancora, La mia bela la mi aspeta: tre strofe modulate sempre in maniera diversa, quasi seguendo il significato del testo, mentre l’ultimo ritornello chiude con struggente tenerezza sulle parole Valcamonica del mio cor, che evocano la nostalgia per quei paesaggi selvaggi e silenziosi, tanto cari al maestro. Lo scherzoso canto trentino Le maitinade del Nane Periot fa da contraltare al dramma della guerra, alla tragedia provenzale. Qui si gioca tutto sul ritmo e sulle coloriture, mentre il testo si snoda tra le lodi cantate della “morosa” del Nane. La melodia passa con naturalezza dai baritoni ai secondi, mentre agli altri reparti è affidato il compito di vivacizzare armonicamente il racconto. Sul finire, poi, un inatteso cambiamento di tonalità (chi mai osava tanto, a quei tempi?) accentua il carattere brillante e “virtuosistico” del pezzo.
Nel 1959 termina il rapporto di ABM con il conservatorio bolzanino, il maestro lascia la città e gli incontri con il Coro della SAT si diradano. I nuovi canti continuano però ad arrivare: Entorno al foch e Le soir à la montagne si aggiungono al grappolo delle prime realizzazioni. Segue poi una serie di canti trentini, che Silvio Pedrotti propone al maestro durante le visite estive a Rabbi, nella “baita” dove egli usava trascorrere brevi periodi di riposo e di concentrazione. Il repertorio si arricchisce con Serafin (raffinatissima elaborazione di un canto già di per sè inconsueto per il folclore trentino, in quanto regolato da un ritmo di 5/4), e ancora con La figlia di Ulalia e Che fai bela pastora.
Un intervallo di cinque anni e poi, nel 1977, altre due canzoni, questa volta lombarde: Io vorrei e I lamenti di una fanciulla. E poi Vien moretina, ancora proveniente dal Trentino, che porta, quale inconfondibile firma, un arpeggio finale pianissimo, sospeso come un petalo solitario in quell’«aria fina» evocata dal testo. E ancora Che fai bèla pastora, Era nato poveretto, La Brandolina e La blonde.
Segue un periodo di silenzio, in cui sembra che l’inventiva di Benedetti Michelangeli si sia fermata, come se la genuina bellezza dei primi canti piemontesi, che tanto aveva attratto il maestro, non potesse più essere rievocata. Invece, un altro canto trentino rinnova il miracolo, nel 1983. Una dolce ninna nanna, semplice e lineare, riesce a ridestare in lui il desiderio di riaccostarsi allo strumento che, dopo il pianoforte, ama di più: la voce umana, anzi, la voce del Coro della SAT. Il quale, credendo di avere ormai sperimentato tutte le invenzioni armoniche possibili, rimane invece sbalordito di fronte a quest’ultima creazione: resta la dolce melodia, affidata a un solista, ma accompagnata da un tenue e sommesso barbaglio di arpeggi e di glissati dei tenori in controtempo, mentre i baritoni e i bassi giocano sul ritmo naturale con calibratissimi ondeggiamenti di semitoni. Tutta l’arte pianistica, l’amore per le sonorità estreme, la poesia di Benedetti Michelangeli si sono riversati in queste poche righe, che rappresentano anche l’estrema sintesi della sua opera di elaboratore di canti popolari, il suo testamento spirituale, perché sono le ultime che lui ha scritto.
Quest’anno ricordiamo il maestro nel centenario dalla nascita e nel venticinquesimo dalla scomparsa, con affetto e stima grandissimi.