Prima che pensiate che il caldo mi abbia definitivamente dato alla testa, e potreste avere pienamente ragione, c’è un motivo per cui questo ragionamento compaia qua, nella mia biblioteca. Ed è il fatto che ogni cantore si porta appresso da sempre un retroterra sonoro nell’orecchio che ne condiziona il modo di cantare. Sarebbe facile, ora, parlare delle grandi scuole nazionali che costituirebbero il fiore all’occhiello di ogni buon romantico ma, siccome ogni occasione è buona per parlare di medioevo, al XIX secolo togliamo un millennio pulito e rivolgiamo la nostra mente a quel periodo straordinario ricco di diversità nell’unità.
Prima che le riforme carolinge inventassero il canto che noi chiamiamo “gregoriano” – anche se, in verità, questo mosaico proseguì per molto tempo ancora fino ad arrivare praticamente ai nostri giorni – il mondo del canto era estremamente frammentato per tipologia e per stile. Solo nella penisola italica c’erano almeno quattro rappresentanze di tutto rispetto: il grecizzante canto Romano antico, l’aquileiese Patriarchino e il derby longobardo tra Beneventano e Ambrosiano. E molti altri ancora tra i Mozarabi iberici, il mondo Celtico, quello Gallicano e così via. E il tifo? Quello strano fenomeno per cui anche la nonnina tanto gentile della porta accanto che saluta sempre si trasformi per novanta minuti in Hulk e senta il bisogno fisico di chiamare chiunque abbia la casacca dai colori sbagliati con appellativi presi dal mondo animale, non è storia recente. E non è nemmeno un fenomeno che riguarda le classi più incolte. Perfino santi monaci dalla penna sopraffina ci hanno deliziato per secoli con insulti degni del miglior Guybrush Threepwood.
La storia ce la sintetizza bene sempre lui, il nostro Guido d’Arezzo, quando scrive che «chi fa ciò che non sa viene definito bestia» [1]. Il punto è che, come spesso accade (alzi la mano chi, in un coro attivo da lunga data, non ha mai sentito la frase: «noi abbiamo sempre fatto così!»), il sostrato diventa così forte e caratterizzante da percepire come dissonanti delle letture (talvolta) pur valide provenienti da un contesto differente [2].
Un accenno di quanto queste incomprensioni potessero scaldare gli animi ce lo dà Ademaro di Chabannes, fotografando un momento particolare della storia, ovvero quando Carlo Magno decide di importare dei cantori da Roma per insegnare alla schola imperiale il modo di cantare e avanzare verso un linguaggio universale in tutti i territori del suo regno. La nascita, insomma, di quello che noi chiamiamo “canto gregoriano”. Bene, dice Ademaro: «Sorse, quindi, una disputa nel periodo di Pasqua tra i cantori romani e quelli franchi: i franchi dicevano di cantare meglio e in maniera più bella rispetto ai romani, mentre questi ultimi dicevano di cantare la musica liturgica in maniera dottissima, com’era stato insegnato loro da San Gregorio papa, contrariamente a quegli altri che cantavano in maniera corrotta e laceravano, distruggendolo, il sacro canto. La contesa giunse innanzi al re Carlo. I franchi, forti della sicurezza di un appoggio del re, accusavano con forza i cantori romani. Questi, invece, affermavano per l’autorità della dottrina che gli altri erano stolti, rustici e ignoranti come ottusi animali e che alla loro ignoranza preferivano la dottrina di San Gregorio» [3].
Ovviamente siamo di fronte a un grande scontro culturale prima ancora che vocale. Inaspettatamente per i suoi, anche se, visto l’intento originale, l’esito era un po’ scontato, Carlo Magno diede ragione ai romani: se il modello è ciò che fa il papa, loro non possono che essere la fonte dalla quale attingere. In questo caso c’era un giudice. Ma è quando abbiamo solo una campana che accadono cose meravigliose.
Come quella volta in cui Giovanni Diacono, romano, monaco a Montecassino, se la prese con gli uomini del nord, dicendo che «le genti alpine che strepitano fortemente con le loro voci tonanti non sono adatte alla dolce modulazione della voce a causa della barbarità selvaggia delle loro gole ubriache» [4]. O come quando Elias Salomonis, monaco francese, parlando di chi ha un talento naturale nel canto, chiosò dicendo che «non è certo il caso dei Lombardi che ululano come lupi» [5].
Un altro che non va per il sottile è uno scritto anonimo di area sangallese che recita: «Malediciamo e proibiamo nei nostri cori voci da attori, mormoranti, alpine ovvero montane, tonanti o sibilanti, raglianti come asini, muggenti o belanti come pecore [...]» [6]. Ovviamente i romani, che finora hanno fatto bella figura, non sono esenti da questo florilegio di epiteti. A bastonarli è nientemeno che San Girolamo, il quale ci ricorda che «i chierici aquileiesi cantano come un coro di beati, mentre, in verità, quelli romani abbaiano come cani» [7].
E così molti altri, come Aelredo di Rievaulx [8] o Arnolfo di Saint-Gilles [9]. Ma mi resta una particolare predilezione per il tedesco Conrad von Zabern, forse perché il primo che abbia conosciuto, che viene ricordato nell’universo mondo per l’espressione poetica e commovente con cui apostrofò certi canonici che cantavano l’ufficio in modo poco consono: «ut boves in pratis, sic vos in choro boatis».[10]. Che belli gli Europei! Ora non ci resta che dedicarci al cantomercato, sperando di levarci qualche soddisfazione anche alle Olimpiadi!