Mi ritrovai, così, a pensare a quanto troppo spesso ci ritroviamo a scrivere e parlare di firme anziché di musica. Il nostro ascolto è sovente condizionato dalla grandezza dell’autore; siamo tutti vittime di un piccolo bias positivo (o negativo) nella scelta delle cose da eseguire. Chissà se l’Ave Maria di Caccini si sarebbe ritagliata tutto lo spazio di cui ancora gode se si fosse saputo da subito che è opera di Vladimir Vavilov! E chissà se l’Adagio di Remo Giazotto avrebbe scalato le classifiche mondiali senza tirare Albinoni per la giacca. Certo è che, però, un innocente pregiudizio (che resta tale anche se positivo), da un’iniziale buona fede, può anche prendere delle vie piuttosto spiacevoli.
E così la mia mente ha subito fatto un salto indietro di cinquecento anni, al tempo di papa Leone X [4], quando successe un episodio ai limiti del grottesco. A raccontarcelo è il nostro inimitabile Gioseffo Zarlino [5] che non manca di condirlo con note di sdegno e disappunto. Il protagonista della vicenda, dalla cui bocca sentì più volte la narrazione, è il suo maestro, Adrian Willaert, compositore fiammingo della quarta generazione, patriarca della scuola veneziana. In quel tempo, per le messe della Madonna, la Cappella Musicale Pontificia soleva cantare con gusto un mottetto a sei voci di Josquin, Verbum bonum et suave. La fama del pezzo era tale che i cantori stessi lo definivano volentieri uno dei più belli del tempo. Così, trovandosi a Roma, Willaert andò a sentirlo con curiosità. Immaginate la sua faccia quando, dopo poche note, capì che il pezzo che stavano intonando era suo e non di Josquin. La vicenda, da comica che era, assunse, però, tinte sgradevoli: una volta scoperta la verità, il brano perse totalmente di interesse e il coro si rifiutò di cantarlo oltre, condannandolo all’oblio.
Un altro episodio simile, ma dall’epilogo decisamente più ingegnoso, accadde non troppi anni dopo in una piccola cittadina nella periferia dell’Impero Spagnolo: la mia Oristano. Il nome di Domenico Pietro Cerone suonerà ignoto a molti, ma rappresenta uno dei nomi più importanti per conoscere la musica ispanica a cavallo tra il XVI e il XVII secolo. Nativo di Bergamo, fu cantore presso la cappella musicale del Duomo di Oristano dal 1588 al 1592, quando si trasferì nella penisola, entrando nell’organico della Capilla Flamenca, a Madrid, il coro personale del Re di Spagna. Vi rimase fino al 1603, quando si spostò a Napoli. Fu lì che diede alle stampe un’opera monumentale: il Melopeo. Proprio in questo testo è narrata la nostra storia [6]. Appena giunto nella nostra isola, animato da sincero entusiasmo, mostrò agli altri arcicantori dei libri che aveva portato seco da Roma, contenenti mottetti del suo compositore preferito, Giovanni Pierluigi da Palestrina. Il suo entusiasmo svanì, insieme alla sua espressione felice e propositiva, quando si sentì rispondere che il suo idolo era un incapace e che si trovava in un covo di supporter di Luca Marenzio. Cerone, vinto l’iniziale sconcerto, conscio di esser finito tra ottusi testardi, decise di reagire con la migliore delle sue armi: la sagacia. Tornato a casa prese dei fogli e vi trascrisse le otto parti dell’Ave Regina coelorum del Princeps Musicae con un piccolo accorgimento: ebbe cura di vergare, in luogo dell’autore reale, il nome di Marenzio. Inutile dire che riscosse un successo irripetibile!
Nei giorni scorsi mi passò tra le mani un gustoso libricino di recentissima pubblicazione contenente tre novelle dal marcato sapore autobiografico scritte da Richard Wagner per la Gazette Musicale. In una di queste [7], Das Ende eines Musikers in Paris, [8] la fine di un musicista a Parigi, l’autore racconta per mezzo di un alter ego i suoi terribili anni nella capitale francese, caratterizzati da povertà e umiliazioni [9]. Egli, giovane compositore appena approdato in un mondo sconosciuto, confidava che l’amore dei suoi nuovi concittadini per il suo nume, Beethoven, e per la musica strumentale potesse spianargli la strada per un’ascesa sociale ed economica. La candida innocenza e un forte idealismo non gli permisero di ascoltare il consiglio di un caro amico, il quale gli rivelò che il solo nome del Maestro deificato apposto su una partitura funge da talismano e permette a chiunque di assaporare le meraviglie in esse racchiuse, ma basterebbe sostituirlo con un altro e nessun direttore farebbe più caso alle finezze contenute nello stesso pezzo. Siamo alle solite. Tra il Rinascimento e l’età moderna, poco cambia: ancora oggi facciamo una gran fatica a dar credito a opere dalla firma debole (o sgradita) fino al punto di mutare il giudizio a seconda del nome vergato. Il discorso va ben oltre la mera questione musicale e sull’onestà dei nostri pareri dobbiamo seriamente allenarci. Ma, in fondo, nel nostro medioevo, Alano di Lilla già ci metteva in guardia: Auctoritas cereum habet nasum, id est in diversum potest flecti sensum [10]