Egli vanta una notevole solidità di mestiere, acquisita al di fuori dei percorsi formativi accademici. Prima di guadagnare la fama di affermato compositore contemporaneo, Talbot ha, infatti, attraversato esperienze assai disparate: da bassista nella band liceale, a suonatore di oboe nei gruppi amatoriali; da insegnante di flauto dolce nelle scuole primarie, ad arrangiatore nei complessi pop-rock. Un percorso servito per riempire un bagaglio, da cui affiora, nelle sue opere attuali, un variegato mondo di generi e stili.
La conquista della notorietà è venuta in seguito alla composizione delle musiche per il balletto Alice’s Adventures in Wonderland (2011). Un lavoro spumeggiante, di raffinata e fantasiosa creatività, che tuttora riscuote un ampio successo, sui palcoscenici dei più prestigiosi teatri internazionali.
Nell’ambito più specifico della composizione vocale, avevamo comunque già apprezzato – prima dell’uscita di Path of Miracles – il suo madrigale The Wishing Tree (2002). Un incarico dei King’s Singers e dei BBC-Proms, commissionato per celebrare i 50 anni di regno di Elisabetta ii. Un brano tutt’altro che pomposo – come ci si aspetterebbe –, in stile minimalista, che sorprende alquanto per i suoi passaggi in chiaro-scuro.
Ma veniamo a Path of Miracles.
Il soggetto di questo considerevole e impegnativo lavoro (oltre 60 minuti di musica corale a cappella!) è veramente originale. Trattasi dell’evocazione in musica del cammino che da secoli pellegrini (credenti e non) provenienti da tutto il mondo compiono a piedi per raggiungere il santuario di Santiago di Compostela. Questo itinerario di devozione è descritto nell’opera di Talbot attraverso quattro tappe fondamentali del percorso: Roncisvalle, Burgos, Léon e Santiago stessa (il cosiddetto Camino Frances). Quattro luoghi che corrispondono ai quattro movimenti in cui è suddivisa la partitura. Luoghi che il musicista ha voluto visitare di persona, prima di procedere alla vera e propria stesura dell’opera, che l’ha visto impegnato per circa per tre anni e mezzo.
La parte letteraria di Path of Miracles è stata scritta dal poeta inglese Robert Dickinson (1962). Egli ha elaborato un testo in cui versi originali sono intercalati a citazioni dalle Sacre scritture e da fonti medievali (in particolare dal Codex Calixtinus del XV sec. – conservato proprio nella Cattedrale di Santiago – e dai Carmina burana). Attraverso queste parole emergono le sensazioni fisiche e spirituali che i pellegrini provano durante il lungo viaggio. Inoltre, il susseguirsi delle emozioni dei pellegrini è messo in relazione con le storie dei santi, i miracoli, le credenze, le usanze e le tradizioni associate al cammino. La narrazione si conclude con il rogo di un capo di abbigliamento indossato dal pellegrino durante il viaggio, gesto simbolico finale, di rinuncia della vita passata e inizio di un cammino verso un futuro illuminato.
Sfogliando la partitura di Path of Miracles, osserviamo indicazioni che riguardano movimenti e disposizione delle voci nello spazio dell’auditorio. Nient’altro che suggerimenti – si dice –, in quanto «il pezzo può essere eseguito ignorandoli o con una più complessa e teatrale spazializzazione». Trovo intelligente quest’avvertenza di Talbot. La spazializzazione delle voci – considerata da molti oggi come un presupposto irrinunciabile – rappresenta, in realtà, un’opzione da valutare di volta in volta e che varia in relazione al luogo della performance. Path of Miracles (dedicato da Joby Talbot alla memoria di suo padre) è un’opera per coro misto a 17 voci (5 soprani, 4 contralti, 4 tenori, 4 bassi), che è stata eseguita per la prima volta il 17 luglio 2005 nella chiesa di S. Bartolomeo il Grande a Londra, dal complesso vocale Tenebrae, sotto direzione di Nigel Short.
Storico valico nel cuore dei Pirenei, a 790 km. da Santiago; tradizionale luogo d’incontro e di partenza per il pellegrinaggio vero e proprio. La composizione ha inizio con quella che può sembrare un’isolata e gratuita premessa. Invece, affioreranno ancora, in seguito, tracce di questo esordio. Path of Miracles è, infatti, un’opera tutt’altro che affastellata; essa si distingue per la rigorosa consequenzialità delle idee musicali e del loro sviluppo. Tenori e bassi confluiscono da fuori verso l’interno dell’auditorio e si dispongono in circolo, intonando un canto armonico [Fig. 1]. Il misterioso suono ha la forma di un glissato, che dal grave estremo si propaga e si prolunga lentamente, in crescendo, fino all’estremo acuto, allorquando le voci femminili improvvisamente emergono dalle navate di destra e di sinistra per l’invocazione in fortissimo: «Herr Santiagu» [Fig. 2].
A proposito di quest’apertura ecco le parole dello stesso compositore:
«Il mio cammino verso la composizione del viaggio che è Path of Miracles è iniziato un tetro pomeriggio a sud di Londra, negli anni ’80, quando mi è capitato di ascoltare un programma radiofonico della BBC, sulla musica corale dei popoli aborigeni di Taiwan. […] Ricordo chiaramente che stavo sdraiato sul pavimento della mansarda, in casa dei miei genitori. Quando il lento, infinito glissando di un particolare pezzo […] mi ha rapito. Mi sono reso conto che stavo provando l’allucinazione che le gronde della stanza stessero per inclinarsi verso l’esterno. È stato un momento di un’intensità inquietante. A quel punto, l’idea di provare a ricreare qualcosa di simile in un mio pezzo deve essersi depositata da qualche parte nella mia mente. Un decennio e mezzo più tardi, quando Nigel Short direttore del coro inglese Tenebrae mi ha proposto di scrivere un pezzo sul pellegrinaggio a Santiago de Compostela, [quel canto aborigeno] mi è tornato in mente».
Talbot si riferisce a un pasi but but, un particolare e complesso canto armonico polifonico, propiziatorio – per un abbondante raccolto – delle tribù Bunun. Una sensazione acustica – quella del pasi but but – veramente primitiva, che evoca il fragore di una cascata d’acqua, o il ronzio di uno sciame d’api. Talbot, quindi, ricorre a questa citazione sonora in virtù dell’analogia con il vissuto d’iniziazione, che i pellegrini provano, quando s’immergono nella dimensione fisico-spirituale del cammino. L’invocazione iniziale («Dio aiutaci ora e sempre») sfuma al rintocco del set di crotali (la min.), solitari suoni strumentali, nell’esclusivo contesto vocale a cappella (anche in questo caso, non solo un tocco di colore, ma un’eco di arcaiche e devote sonorità).
L’alto solo narra, in greco antico, del destino di San Giacomo: «In quel tempo il re Erode si mise a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere con la spada Giacomo, fratello di Giovanni…» [Fig. 3].
Le sue parole sono riprese dalle altre voci in latino, spagnolo, basco, francese, inglese e tedesco. Un crocevia di lingue che rappresenta il convergere di pellegrini da luoghi e nazioni diverse. Su queste parole ascoltiamo per la prima volta la canzone dei pellegrini, un motivo di conio medievale, dall’accentuazione marcata e dal ritmo misto, che principia in stile monodico, ma che presto si dirama in un complesso intreccio vocale [Fig. 4].
La storia di San Giacomo prosegue con le vicende della sua predicazione in Galizia; la narrazione del suo martirio presso Gerusalemme; il trafugamento del corpo da parte dei suoi discepoli, i quali lo trasportarono nuovamente in Galizia; il miracoloso ritrovamento delle sue spoglie presso Campus stellae (Campostela). In questi passaggi di elaborato sviluppo possiamo apprezzare alcune tipicità della scrittura di Talbot: gesti ritmici alla Stravinsky, pattern corali alla John Adams [Fig. 5].
Sul finire del movimento, dopo la ripresa del suono dei crotali (fa min.), una serie di litanie a San Giacomo è intonata dalla voce solista di un basso profondo. Un inserto di canto rituale russo ortodosso, sulla stessa corda della salmodia in greco, cantata precedentemente dall’alto solo [Fig. 6].
Quindi, sul finire della visione del Campus stellae, l’epilogo: un accenno ai glissati del canto armonico iniziale s’incunea tra le voci che si smorzano e scivolano in profondo [Fig. 7].
È cantato interamente in inglese. Il cammino si fa duro. Insidie, aggressioni e pericoli ovunque. L’angoscia e il timore di un incontro ostile. Storie di miracoli, di reliquie prodigiose, accompagnano i pellegrini, ma: «A volte il Santo prende la forma di un pellegrino, a volte il diavolo appare sotto forma di un santo».
È il quadro dalle tinte più scure di Path of Miracles. Si apre (tono di fa) con una giaculatoria – come un supplichevole lamento –, le cui frasi sono separate da larghe pause.
Il lamento si trasforma in implorazione ai santi, San Giuliano di Cuenca, Santa Casilda, per chiudersi in pianissimo e all’unisono sul fa (nota-pedale dell’intero episodio che segue). Ha qui inizio l’ampia sezione (Adagio), caratterizzata da un cadenzato ostinato delle voci maschili, che accompagna e simula i passi dei pellegrini (“pesante e ritmico” la linea dei bassi, mentre quella sfasata dei tenori “leggero e ritmico”). Forse non è nelle intenzioni dell’autore, ma l’ostinato insiste sull’intervallo di tritono (diabolus in musica): il presagio di un agguato del maligno, che inquieta l’animo del pellegrino? [Fig. 9]. Dalla sezione dei contralti si levano singole voci, che narrano di eventi soprannaturali [Fig. 10].
L’immagine del demonio ingannatore si concretizza in un movimento omoritmico (tono di la) fortemente ritmato e accentato (come una danza macabra) [Fig. 11], che culmina nello spaventoso grido del diavolo che adesca le anime [Fig. 12].
Per esorcizzare gli agguati del maligno, non resta che invocare la benevolenza della Madonna e dei Santi. Riprende, quindi, in conclusione, il tema delle litanie iniziali (trasportato una quarta sotto), che presto s’inabissa – come in un De profundis – nella supplica appena percettibile delle voci gravi: «Ora pro nobis, Jacobe, a finibus terrae ad te clamavi» (Salmo 61) [Fig. 13].
Le meravigliose luminescenze della cattedrale di Leon si riflettono nel siderale carillon (do min.) dei 4 soprani, un refrain in francese: «Il sole che splende in me è la mia gioia…». Le voci maschili, nel frattempo, parlano della continuità del cammino [FIg. 14].
Un pezzo, insomma, dedicato all’idea della luce. Talbot stesso lo descrive come un Lux aeterna. Ci troviamo all’incirca a metà del viaggio. La fatica pesa e mette alla prova la volontà dei pellegrini. Ma c’è la meraviglia per l’aura luminosa che avvolge il cammino («come un sole che abbaglia e non brucia»), per le storie, per i luoghi, e l’appagamento del riposo, a fine giornata. Camminare diventa la vita del pellegrino, la veglia, il sonno, il sogno e la mera esistenza diventano un miracolo [Fig. 15]
«Voci di grazia sulla strada delle meraviglie…»: è uno momenti più belli dell’intera partitura. Viene annunciato dalla nota-perno (do) tenuta dal soprano 5. S’arresta per qualche istante l’abbacinante sfavillio luminoso (ovvero il roteante carillon). Appaiono in serie immagini fantastiche. Domina la stasi. Le lunghe note-pedale collegano la declamazione del testo, sillabato e monocorde, che passa da una sezione vocale all’altra. Insiste la cadenza plagale, fino all’affermazione in choro pleno del nuovo tono (mi bem.) [Fig. 16]
Segue la ripresa del motivo di carillon, ma in un contesto vocale variato e arricchito, come se il turbinio luminoso si espandesse ulteriormente. Poi c’è una nuova stasi: «è un miracolo che siamo qui…»; la luce del giorno sublima l’ambiente circostante, come nella visione del Paradiso promesso. Canta una lode il soprano 5: «Beate, qui habitant in domo tua, Domine; In saecula saeculorum laudabant te» (Salmo 84) [Fig. 17].
Ritorna, nella breve coda, il carillon iniziale: «…Et Dieus est mon conduis» [Fig. 18].
La quarta e conclusiva sezione di Path of Miracles si articola in una sequenza di quadri molto differenziati: l’ultimo impegnativo tratto del percorso, l’arrivo al santuario di Santiago, l’epilogo del viaggio a Finisterre e l’esodo dei pellegrini. Sulle note del motivo dei pellegrini (questa volta in do diesis), viene dettagliatamente descritto il faticoso saliscendi della strada e l’impervio ambiente naturale attraversato; la temperatura che si raffredda e la pioggia; i territori avvolti nella nebbia, in cui si rischia di smarrire la via; i nomi di località, che si intravedono come ombre in fondo alle vallate. «Laudabant te» leggermente, ma incessantemente ripetono le voci di soprano: una pioggerellina di note ribattute, che accompagna gli ultimi sforzi del cammino [Fig. 19].
Ma superata l’altura del Monte de Gozo, ecco finalmente la sospirata discesa verso Santiago. L’arrivo al santuario è salutato da una più distesa ripresa dell’invocazione di apertura: «Herr Santiagu» (in re, il tono che ci accompagnerà fino alla fine). Ad essa fa seguito la ripetizione, in crescendo e in accelerando, del motto del pellegrino: «Eultreya esuseya!», un’espressione intraducibile alla lettera, che all’incirca significa «più avanti, più in alto!» [Fig. 20].
La gioia per la conquista della meta si libera in una musica gaia e vivace. Il testo – tratto dai Carmina Burana – inneggia al ritorno della primavera, salutata dal tripudio festoso della natura tutta («Ver redit optatum / Cum gaudio, Flore decoratum / Purpureo; Aves edunt cantus / Quam dulciter, Cantus est amoenus / Totaliter»), metafora di quel senso di rinascita fisico-spirituale, che prova il pellegrino, giunto al termine del cammino. Il ritmo è quello di una danza in 5/4, dagli accenti sincopati, d’impronta medievale. In questo frangente, l’efficace scrittura di Talbot tramuta la scrittura vocale in stesura strumentale. Avvertiamo, infatti, passaggi che alludono a colpi di percussioni, a fanfare di fiati [Fig. 21]
Orff-style si dirà, ma c’è di più. Nell’arco di queste pagine avviene un’abile trasformazione di stile. Gradualmente, infatti, il ritornello medievale si evolve in un complesso e moderno gioco poliritmico di natura minimalista, d’incastro di pattern, che si combinano con i precedenti elementi tematici [Fig. 22].
Ma ancora il viaggio non è finito. I pellegrini usano spingersi oltre Santiago, a Finisterre, in riva all’Oceano, là dove «le pareti del cielo diventano un velo sottile e trasparente come il vetro». L’approdo a quel simbolico bordo occidentale, estremo limite del mondo, è descritto dall’ammaliante movimento di terzine ondeggianti [Fig. 23].
Soltanto qui, di fronte al mistero di quell’infinito orizzonte, si compie la rituale usanza di bruciare e gettare a mare un indumento indossato durante il cammino, per suggellare la fine del pellegrinaggio, la rinuncia della vita passata e il senso di cambiamento interiore che d’ora in poi ispirerà il pellegrino nella sua “nuova vita”. Una breve serie di colpi di Temple Bells sottolinea il carattere mistico di questo tradizionale rituale.
Cala, infine, il sipario dell’opera di Joby Talbot con le note dell’inno del pellegrino (questa volta cantato in inglese), che i cantori intonano, mentre, seguendo differenti direzioni, escono dall’auditorio. Le lente e profonde cadenze plagali delle voci gravi (repeat to fade, «now and evermore…») fanno da sfondo all’andarsene del coro-pellegrino.
Chi ha fatto il cammino, chi ha in programma di farlo, chi non l’ha mai fatto e mai lo farà, tutti costoro, insomma, possono comunque apprezzare come la narrazione in musica del compositore britannico colga in pieno l’anelito, che da secoli muove il pellegrino sulla via di Santiago. «Se tu fossi stato un servo della gleba in un regime feudale, da qualche parte nel nord Europa – dice Talbot –, il pellegrinaggio sarebbe stata l’avventura di una vita». L’ascoltatore, condotto in un viaggio nelle dimensioni del tempo, dello spazio e dello spirito, è rapito da una polifonia di sensazioni, da una molteplicità di voci, di storie, d’idiomi, di sonorità, di stili, brillantemente combinati in una partitura dal forte impatto mistico ed emotivo.Attualmente l’edizione di riferimento di Path of Miracles è senz’altro quella del complesso vocale che ha commissionato il lavoro: Tenebrae, diretto Nigel Short (cd Signum Classics sigcd078). Prepariamoci però, quanto prima, a saggiare altre interpretazioni esemplari, tra cui quella dell’altrettanto valido gruppo americano Conspirare, che ha già eseguito l’opera in concerto.