Il 7 febbraio 1887, Giuseppe Verdi ricevette la visita di tal Gino Monaldi. Quest’ultimo così ha riportato il pensiero del grande Maestro:
«Ingegno ve ne è ancora: non è questo che manca ai giovani attuali che scrivono: quello che loro manca – è la sincerità! Sì, essi non sono sinceri: essi non scrivono già come sentono e come vorrebbero; ma vanno torturando la loro fantasia correndo dietro a degli stelloni che non vedono e non distinguono, ma che sembra loro soltanto d’indovinare. È una posa come un’altra e, ripeto, non ne avrebbero bisogno perché il loro ingegno naturale li consiglierebbe assai meglio, qualora lo lasciassero andare liberamente per la sua via. Naturalmente che il gusto si modifica e quindi bisogna saper trarre profitto e servirsi accortamente di tutte le scoperte che nel campo speculativo dell’arte si compiono tutto giorno; questo è un progresso necessario; ma tuttociò vuolsi farlo senza tradire il proprio carattere e la propria individualità». (Conati M., a cura di, Interviste e incontri con Verdi, Emme Edizioni, 1981, p. 185)
Chiaro, come sempre, il Beppino. Ma ora, arriva la bordata:
«E anzi tutto occorre conservare al canto ed alla voce la sua sovranità e la sua libertà d’espansione. Si dice: ma la voce è in fondo un istromento anch’essa, e quindi non vi è una ragione per concederle troppe sovrane prerogative. Sì, in parte ciò è vero; ma bisogna che i giovani rammentino che la voce umana, oltre che il migliore di tutti gl’istrumenti, non è soltanto un suono; ma con questo suono va sposata la poesia; e questa ha bisogno di una idealità d’espressione elevatissima e sempre intelligibile. Di questo precetto i giovani d’oggi si scordano troppo facilmente» (ibid.).
C’è poco da aggiungere, se non che, in vero, esistono compositori italiani che hanno saputo creare opere corali di valore autentico, ma sono per lo più ignorati, o snobbati. Fra questi, Mino Bordignon, assai celebrato come direttore di coro, ma che fu compositore e arrangiatore colto, raffinato e – per alcuni aspetti – visionario.
Ha scritto Gianandrea Gavazzeni: «Per Mino Bordignon il coro è un modo di vivere. La coralità si specchia nel comportamento. Un’idea di musica vivente inserita negli atti della giornata».
E appunto, quest’idea etica della coralità, si è incarnata nella favolosa avventura del leggendario Coro INCAS. Un concentrato di qualità musicali e umanità, che ha raggiunto livelli molto alti.
Ciò che ci rimane di quella straordinaria esperienza è il repertorio, che Bordignon ha personalmente confezionato per il suo coro, in assoluta coerenza fra sentire ed esprimere. Una delle canzoni più belle, nata in virtù di amicizia vera e in complicità di lingua madre, è La nóna de la baita. Uno sposalizio genuino fra suono e poesia, tanto per riprendere l’esortazione di Verdi. L’autore del testo è Cecilio (Ilio) Manfredotti, amico fraterno del musicista, cofondatore e paroliere del Coro INCAS, che, nella fattispecie, ha messo in versi un quadro d’ispirazione pascoliana. Un bozzetto alquanto ingenuo nello stile, se volete; ma di immediata efficacia comunicativa. Un componimento che si avvale del potente veicolo della lingua madre, il dialetto bergamasco. Ho chiesto a Mario Mora di tradurmelo.
Veniamo alla musica.
Tralascio – con sofferenza – le osservazioni sulle armonie ricercate e impeccabili, sulla sapiente e ben dosata conduzione delle parti, sulle squisite sfumature di colore. Dovrei entrare in dettagli tecnici, col rischio di essere per l’ennesima volta redarguito, a causa delle mie solite pedanti e noiose locuzioni. Mi soffermerò, più semplicemente, sull’afflato melodico del pezzo. È un motivo che cattura, che emoziona, mai scontato, teso come un arco, che non molla. Ve lo trascrivo, perché possiate cantarlo. Vi entrerà immediatamente in testa, come un Va’, pensiero.
La nóna de la baita è pubblicato in un volume ormai introvabile, se non nelle biblioteche: Mino Bordignon, Esperienze Corali, raccolta di brani classici e popolari armonizzati per cori a voci miste e cori a voci virili, Edizioni Musicali Pro Civitate Christiana, Assisi.