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Cantare oltre ogni confine
Il progetto Amway in Palestina

di Rossana Paliaga
Finestre, Choraliter 58, maggio 2019

Amwaj in arabo significa “onde”. Un eterno movimento vitale sulla vastità del mare, come l’attività della scuola corale che opera in Palestina da quattro anni per indirizzare la vivacità cognitiva ed emotiva dei bambini verso prospettive sconfinate che possano lambire le rive del mondo intero con la forza etica della musica. È la storia del musicista italiano Michele Cantoni, oggi direttore generale del progetto, e di Mathilde Vittu, docente al Conservatorio di Parigi, che ne ha assunto le redini artistiche. Per entrare in questa scuola non ci sono prerequisiti, soltanto il desiderio di intraprendere un percorso culturale su solide basi che permetta di formare musicisti, futuri insegnanti, persone desiderose di costruire un futuro anche sui valori offerti dalla musica. Il progetto pilota nasce a Hebron, luogo isolato e con un’attività culturale molto ridotta, per estendersi alcuni mesi dopo a Betlemme, con il sostegno di un centro culturale frequentato da bambini provenienti anche dai campi dei rifugiati. Per Michele, Mathilde e i loro collaboratori non si tratta di un progetto a scadenza, ma di un’attività permanente, quanto la loro decisione di stabilirsi in un paese tormentato, ma del quale entrambi hanno voluto vedere soprattutto la sconfinata bellezza e lo straordinario potenziale. Li abbiamo incontrati per farli parlare della loro Palestina, quella della costruzione di opportunità, di armonia e collaborazione.

Esiste una tradizione corale in Palestina?

MV - C’è un’abitudine al canto tradizionale: cantano tra di loro, in famiglia, ai matrimoni, ma non c’è una tradizione di insegnamento per i bambini, finalizzata all’utilizzo ottimale della voce. Questo è stato un punto di partenza interessante, mentre l’altro stimolo a intraprendere questa attività è stato rendersi conto che con il canto si può riunire diverse comunità presenti in Palestina, che spesso non hanno accesso alla musica, offrire loro un insegnamento musicale strutturato; con questo progetto abbiamo voluto allargare la consapevolezza dell’importanza di studiare la musica, proponendoci in comunità nelle quali non veniva ancora offerto. L’idea del coro nasce dal fatto che l’apprendimento può offrire risultati in breve tempo. Con il coro è possibile lavorare da subito su un repertorio interessante, sviluppare l’ascolto, sperimentare la polifonia con bambini che non sono abituati a esprimersi attraverso il proprio corpo. Un altro aspetto importante è il fatto di cantare su un testo che abbiamo voluto sfruttare per trasmettere anche la conoscenza delle lingue straniere in un approccio al mondo che passa attraverso il canto. In Palestina si vive senza grandi possibilità di contatti esterni. Fin dall’inizio abbiamo considerato nei programmi almeno venti lingue diverse, un possibile approccio alle diverse culture attraverso il coro. La nostra idea è formare nel tempo un coro di cantori con competenze musicali e di proseguire con la seconda tappa, ovvero l’individuazione di bambini e bambine che potremo indirizzare verso l’apprendimento di uno strumento complementare.

La sua fede nel potenziale offerto dal canto corale deriva da esperienze personali?

MV - Con il coro tutti possono avere accesso a musiche ed esperienze bellissime. Io sono cresciuta in una scuola corale e in parallelo ho studiato al conservatorio. Penso di essere diventata una musicista soprattutto grazie all’esperienza corale che mi ha formata, ha sviluppato il mio orecchio e la mia voglia di essere direttore di coro. Tutto quello che ho imparato al conservatorio è stato in qualche modo un complemento della mia formazione principale, quella corale. Per questo cerco di trasmettere questa esperienza ai ragazzi.

Come avete convinto i primi bambini ovvero le famiglie a condividere il vostro progetto?

MC - Ci siamo appoggiati su due centri culturali a Betlemme e Hebron che lavorano con bambini. Abbiamo proposto il programma corale intensivo e ci hanno aiutato nella promozione. Nell’agosto del 2015 abbiamo realizzato sei giorni di campo estivo con diciotto partecipanti, principalmente bambine, con una minoranza maschile. Al terzo giorno abbiamo invitato le famiglie a vedere il lavoro fatto per spiegare che quello poteva essere l’inizio di un percorso a lungo termine. Abbiamo detto loro che volevamo impegnarci non in un progetto temporaneo come un campo estivo, ma per costruire a lungo termine. La mattina dopo i bambini sono diventati trenta, metà maschi, metà femmine. 

Come è strutturata l’attività della scuola?

MC - Adesso siamo al quarto anno di attività e da un anno abbiamo introdotto anche le materie teoriche come il solfeggio. L’approccio dei primi due anni è stato molto speciale per due motivi: da una parte perché l’apprendimento orale e uditivo ha permesso ai bambini di sviluppare enormemente le capacità di ascolto, dall’altra perché il repertorio vastissimo ha stimolato una grande curiosità nei confronti delle lingue e culture veicolate dalla musica.

MV - Quando in Palestina abbiamo iniziato l’attività di questa scuola in molti non ne hanno compreso la necessità perché tutti più o meno “sanno cantare”. Abbiamo dimostrato che l’insegnamento del canto apre prospettive di didattica e apprendimento molteplici. I bambini studiano otto ore a settimana che comprendono canto, solfeggio, yoga, corsi di teatro, danza, storia e analisi della musica, lingue straniere, elementi di composizione, introduzione al pianoforte e alle percussioni, per dare loro un’impostazione artistica globale. Con il repertorio corale al centro.

Di che tipo di repertorio parliamo?

MV - L’idea è che il repertorio sia il più diversificato possibile. Lavoriamo a progetti trimestrali. Ad esempio abbiamo realizzato un progetto sulla musica di Mozart vista da diverse prospettive, attraverso opera, musica sacra, ma anche composizioni arabe ispirate al compositore salisburghese. Abbiamo trattato anche il tema della musica rinascimentale con uno specialista in residenza, ma senza dimenticare le possibili connessioni e contaminazioni con canti tradizionali locali. Non è mancato nemmeno il repertorio arabo con un cantante palestinese, improntato alla monodia, ma con elementi di eterofonia, canto su bordone, possibili incroci di stili. La musica corale trova sempre il suo posto in rapporto alla vastità delle proposte e attorno ai progetti si svolge l’attività pedagogica. 

Possiamo dire che la musica corale diventa un modo per emanciparsi ovvero per entrare in contatto con l’esterno?

MV - Assolutamente. Siamo felicissimi delle opportunità di scambi internazionali perché permettono ai ragazzi di capire che la conoscenza reciproca può passare attraverso la condivisione dell’esperienza corale, che fanno parte di una tradizione corale molto vasta e sovranazionale. Abbiamo fatto scambi con la Francia con un coro che poi è venuto in Palestina. Queste esperienze formano i ragazzi attraverso le nuove scoperte. In Palestina ad esempio non esiste una tradizione di festival corali, non c’è una simile vivacità intorno a una pratica, quindi questi contatti sono fondamentali. Per i nostri bambini significa sentirsi parte di un universo più vasto. 

MC - Ovviamente le uscite a Parigi, Lione, Lille sono state una festa. I bambini hanno visto il mare per la prima volta, in Normandia, in una giornata libera durante la tournée in Francia. Tuttavia, oltre a questa dimensione internazionale, partecipare a questo coro e fare concerti permette di uscire alla scoperta del mondo anche senza uscire dal proprio paese. Quando abbiamo iniziato, i nostri ragazzi non avevano conoscenze musicali e tre mesi dopo sono andati a fare un concerto a Gerico, poi a Gerusalemme. Adesso li porteremo in Galilea, a Nazaret e Haifa, permessi permettendo. La scoperta degli altri musicisti e del territorio, ovvero far scoprire se stessi all’interno della Palestina, è una dimensione importante

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