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Passaggio a Venezia
L'evoluzione del rapporto testo-musica
nel madrigale italiano del Cinquecento

di Marco Della Sciucca
dossier "Rinascimento. Cinquecento anni di successi", Choraliter 55, maggio 2018

All’alba del Cinquecento, Vincenzo Colli detto il Calmeta, un nobile umanista e poeta che figurerà anche tra i personaggi del Cortegiano di Baldesar Castiglione, scriveva: «sono da essere essistimati di sommo giudicio coloro che cantando mettono tutto lo sforzo in esprimer bene le parole […] e fanno che la musica le accompagna con quel modo che sono i padroni da’ servidori accompagnati […] facendo non gli affetti e le sentenze della musica, ma la musica delle sentenze e degli affetti esser ministra» (Vincenzo Calmeta, Prose e lettere edite e inedite, a cura di Cecil Grayson, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1959, p. 22).

Circa un secolo dopo, Giulio Cesare Monteverdi, nella ormai famosa “Dichiarazione” a premessa degli Scherzi musicali a tre voci (1607) del fratello Claudio, asseriva la necessità di un’armonia (cioè: di una musica) che fosse «serva dell’oratione [cioè: delle parole], e l’oratione padrona del armonia […] l’armonia comandata e non comandante, e per signora del armonia l’oratione». Sembra che nulla fosse cambiato nell’attitudine estetica dei musicisti italiani nei confronti dei testi da porre in musica: in realtà, nel mezzo delle due citazioni scorre una delle epopee più fantasmagoriche della storia musicale occidentale, quella del madrigale italiano, che si sviluppa all’interno di questa continuità estetica di fondo con una ricchezza e una varietà di risultati stupefacenti.

Venezia e le sue accademie

Come ci ha ampiamente dimostrato la musicologa americana Martha Feldman nel suo City Culture and the Madrigal at Venice (University of California Press, 1995), fondamentale nello sviluppo evolutivo di questa forma musicale è il trattamento che essa ricevette in una città come Venezia, coi suoi fermenti letterari, filosofici, artistici: una città che, in linea con la sua conformazione urbanistica tortuosa e imprevedibile e, conseguentemente, con una società internazionale che l’abitava senza gerarchie assolute, brulicandovi con una mobilità che non aveva pari in alcuna altra città europea, divenne il luogo ideale per il libero sviluppo di un gran numero di salotti e accademie, nuovo mercato di scambio di idee e opere di letteratura e d’arte. Considerando anche la presenza, a metà Cinquecento, di un folto numero di esiliati fiorentini in primis, e poi di romani e di eminenti cittadini delle principali capitali italiane ed europee, germogliava a Venezia un’eteroglossia, una coesistenza di stili e registri linguistici, anche vernacolari, che sottintendeva vocazioni dialogiche, talvolta persino conflittuali, che finirono per interagire con la moda di un petrarchismo diffuso. Quel petrarchismo che aspirava ora a una volgarizzazione e divulgazione della poesia del Petrarca, volgendone in termini pubblici, e si direbbe anche popolareschi (se pensiamo alla grande produzione di poesia vernacolare o comunque “leggera”, spesso anche parodistica), le immagini e i temi più intimi e privati. Ma, d’altra parte, la ricerca accademica si concentrava anche sugli aspetti di complessità del linguaggio petrarchesco, sulle sue strutture sintattiche e sulle architetture versali, retoriche, concettuali, generando una produzione poetica di rango elevato che procedeva parallela a quella più leggera. Centrale, in questo crocevia di stili, in questa eteroglossia comunque di ascendenza petrarchesca, fu il patronato artistico, a metà secolo, dell’accademia di un patrizio veneziano, poeta e letterato egli stesso, Domenico Venier (ma non si dimentichino i vari Gottardo Occagna, Antonio Zantani, Marco Trivisano). Il suo palazzo a Santa Maria Formosa, già dagli anni ’40, era divenuto meta di nobili diplomatici, pubblici funzionari, colti mercanti, editori, poeti, filologi, teorici, letterati. È interessantissimo notare come, con eguale zelo, vi si coltivassero produzioni poetiche raffinate e auliche così come madrigaletti, barzellette, capitoli, villotte e villanesche. La presenza diffusa di una tale varietà di registri stilistici, rappresentativi di ogni ceto, non va però intesa come un tentativo di annientamento delle differenze di classe nella struttura sociale. Al contrario, le modalità con cui gli stili circolavano, comprese le declinazioni più popolaresche, sostenevano, piuttosto che abbattere, le appartenenze di classe.
Per quanto riguarda l’aspetto aulico della poesia, riferimento etico e teorico per tutti gli ospiti di palazzo Venier, a cominciare dallo stesso padrone di casa che aveva avuto modo di frequentarlo personalmente, fu il Bembo delle Prose della volgar lingua, sulla strada di un moderno classicismo della lingua volgare ispirato allo stile del Petrarca: nuove erudite aspirazioni e complessi ideali retorici, che si riassumevano nel termine “variazione”; un continuo trascolorare compositivo di affetti, suoni, agogiche, parole, frammenti di parole e accenti. Altresì importante per Bembo era la necessità di preservare un decorum stilistico, cioè un grado di appropriatezza stilistica di volta in volta adeguato a contenuti, immagini e contesti sempre cangianti. Ciò si poteva ottenere col continuo chiaroscurare del suono e delle qualità affettive dei materiali linguistici, evitando al contempo l’indulgere prolungato o eccessivo su un solo affetto.

La virata stilistica di Willaert e Rore

Vediamo come le istanze bembiane vennero recepite dai musicisti. Se l’intonazione musicale del testo poetico era stata fino agli inizi del Cinquecento monopolio di cantanti a voce sola che improvvisavano al liuto o alla lira (una tradizione che continuerà, tuttavia, come un sottobosco per tutto il secolo, senza escludere neanche i salotti veneziani e quello di Venier), se le prime forme di madrigale (Verdelot, Arcadelt, Costanzo Festa) si offrivano spesso come mere realizzazioni polifoniche di quello stile improvvisativo, con letture che possiamo definire “univoche” del testo poetico, nello «sforzo in esprimer bene le parole», dagli anni ’40 proprio in area veneziana, in particolare con Adrian Willaert e Cipriano de Rore, si cominciano a pubblicare madrigali che paiono rivoluzionare il modo in cui la scrittura polifonica si rapporta con i testi poetici intonati. L’esperienza madrigalistica di Willaert e Rore era in realtà partita da una scrittura vicina alle forme di canzone (o anche di chanson), preferendo testi poetici dalla struttura del tipo a ballata, con ripetizioni, benché adottando soluzioni tecnico-musicali straordinariamente raffinate, intelligenti e, per molti aspetti, innovative. Tecniche già potentemente proiettate a dar risalto, con caleidoscopica varietà di soluzioni e già con una più o meno consapevole applicazione del concetto di decorum, al continuo sfumare espressivo del testo poetico. Ma le discussioni accademiche veneziane (potremmo aggiungere, anche padovane), il bembismo diffuso, il pullulare di nuovi studi sulla lingua e la poesia, da Bernardino Daniello a Girolamo Muzio, da Bernardino Tomitano a Lodovico Dolce, a Francesco Sansovino, fino a Sperone Speroni, diffusero un’attenzione tutta nuova al testo poetico del Canzoniere così come della nuova produzione poetica di ispirazione petrarchesca: in particolare le stratificazioni multiple di senso, gli artifizi di costruzione sintattica e versale, le ricercate figurazioni retoriche, le tecniche di variazione e il concetto di decorum furono alla base di tali studi e trattati. 
A questo punto, compositori di grande sensibilità e maestria come Willaert e Rore, entrambi di stanza a Venezia (benché Rore solo a periodi alterni), non poterono sottrarsi a farsi essi stessi portavoce in musica di così stimolanti istanze.
Il madrigale diventava occasione di risonanza espressiva multipla, di esegesi mutevole e differenziata della realtà poetica: tutto questo avveniva adottando alcune delle tecniche contrappuntistiche tipiche del mottetto, con i suoi spunti imitativi che fanno riverberare la parola in spazi sempre nuovi (sempre se stessa eppure sempre diversa), con le sue possibilità di far fluire le frasi l’una nell’altra, piuttosto che giustapporle, con sovrapposizioni fortemente diagonalizzate dei versi tra le varie voci, con orditi polifonici continui, con le tipiche frammentazioni ottenute attraverso le ripetizioni in modi sempre nuovi di frasi e parole, con un uso ogni volta imprevedibile delle cadenze, ora più sfuggite ed elusive, ora più perentorie e conclusive, segno, queste, di un’azione più potentemente segmentante della forma verbale.
Lo stile omofonico poteva poi agire in contrasto rispetto a tutto questo, quale risorsa ulteriore di varietà stilistica.
Il concetto di variazione interessava anche la gamma di accentuazioni metriche, costruita su gerarchie variabili a seconda delle diverse disposizioni ritmiche delle sillabe sulle linee melodiche, dando conto delle varie e diverse possibilità di declamare le parole con intenzioni retoriche alternative.
Ma, ancor più importante, è che la musica riuscisse a trovare modi per eludere gli stretti vincoli con la struttura poetica, individuando nella sintassi piuttosto che nell’unità versale il rapporto tra testo e musica: questa non aveva più dunque necessità di sostenere quello di verso in verso, in forme melodiche pressoché chiuse, ma poteva interpretarla nelle sue strutture sintattiche o, meglio, nella molteplicità di letture di una sintassi complessa e aperta.

Un esempio di madrigale della prima fase

Partiamo con un esempio della prima maniera del madrigale italiano, i primi tre versi di Madonna qual certezza di Philippe Verdelot, pubblicato nel suo Primo libro de madrigali a quattro voci, Venezia, Scotto, 1533 (ma la composizione rimonta agli anni ’20). Il testo, un componimento poetico in forma di madrigale di Lodovico Ariosto, principia con la seguente terzina:

Madonna qual certezza
Haver si po’ maggior del mio gran foco
Che veder consumarmi a poco a poco?

La struttura versale, come si potrà notare, si inarca in modi sghembi rispetto alla struttura sintattica. Un’analisi sintattica, per esempio, potrebbe separare il vocativo «Madonna», per poi riunire il soggetto con il verbo «qual certezza haver si po’»; quindi il comparativo di maggioranza con il suo complemento di paragone, «maggior del mio gran foco»; infine «che veder consumarmi a poco a poco?», che potrebbe idealmente ricollegarsi al precedente enjambement nella forma: «qual certezza haver si po’ … che veder consumarmi a poco a poco?».

Eppure, Verdelot, nella sua realizzazione madrigalistica, sembra seguire unicamente la proposta di divisione versale, affidando ciascuno dei tre versi a una differente frase musicale, terminante con una cadenza propria.

Non vi sono ripetizioni verbali o frammentazioni testuali: l’intonazione scorre sempre in avanti con un fraseggio del tutto coincidente con le articolazioni versali. Certamente, vi è qualche soluzione locale alquanto caratterizzata, che possiamo definire madrigalismo: una figura di noema, a note lunghe e in perfetta omofonia, a enfatizzare il vocativo di esordio, «Madonna»; uno scioglimento dell’omofonia generale verso un interessante episodio contrappuntistico-imitativo in corrispondenza delle parole «a poco a poco», quasi a volerne rappresentare il senso di lunga e reiterata consumazione dell’io cantante. Ma nulla di più. La lettura è insomma alquanto univoca, senza dar conto alcuno delle ambiguità tra sintassi e struttura del verso, e senza proporre letture retoriche alternative a quelle dei madrigalismi suddetti, che compaiono essenzialmente come gestualità di supporto. Potremmo ben considerarla in larga parte simile alle letture che davano le intonazioni a voce sola improvvisate al liuto o alla lira: la differenza è che qui si tratta di una realizzazione polifonica, durchkomponiert, cioè senza ritornelli, e, per di più, scritta.
È vero, siamo di fronte a una composizione che forse più di tante altre si mantiene entro i limiti di uno stile omofonico alquanto rigido. Tuttavia, anche laddove la scrittura polifonica si fa più contrappuntistica, rimangono degli approcci di lettura di tipo univoco, nel senso già sopra descritto. Discorso simile si potrebbe fare per varie realizzazioni musicali consegnateci dai padri del madrigale italiano, Costanzo Festa, Jacob Arcadelt, sinanche dal primo Willaert.

Un esempio di madrigale della seconda fase

Ma è proprio già con Willaert che si pongono le basi per un rinnovamento del potenziale esegetico del madrigale, un nuovo impulso a cogliere e mettere in rilievo quel significato della poesia petrarchesca, o ai modi del Petrarca ispirata, che passa attraverso complessi e ambigui meccanismi formali, strutture linguistiche, sintattiche, giochi di parole, costrutti retorici, e che va ben al di là della semplice struttura versale o dell’evidenza semantica, anzi ponendosi in raffinato contrappunto con queste ultime. A Willaert è poi necessario accostare la personalità, certamente più eccentrica ed enigmatica, di Cipriano de Rore: insieme costituiscono i pilastri fondanti della nuova attitudine esegetica del madrigale veneziano.

Se prendiamo un celebre e tardo madrigale di Rore, Da le belle contrade d’oriente, pubblicato nel postumo suo Quinto libro di madrigali a cinque voci insieme alcuni de diversi autori, Venezia, A. Gardano, 1566, abbiamo un esempio eccelso dell’avvenuta virata della forma del madrigale in direzione di un’esegesi testuale complessa. E non solo testuale (si veda quanto ipotizza con convincenti argomentazioni Stefano La Via, in Il lamento di Venere abbandonata, Lim, Lucca, 1994): Da le belle contrade d’oriente potrebbe essere stato direttamente stimolato, oltre che dal testo letterario, anche da una delle varie versioni che Tiziano realizzò del mito di Venere e Adone. Tralasciando, però, qui i rapporti di tipo iconografico, che pur sarebbe interessantissimo seguire per capire meglio come il madrigale rappresentasse un crocevia di storia, letteratura, cultura e arte, ci preme tornare al rapporto della musica con il testo letterario. Il sonetto è anonimo: a ogni modo vi si riscontrano elementi petrarcheschi, ma anche del filone lirico veneziano più specificamente femminile che fa capo a Gaspara Stampa; per non dire del soggetto che attinge a modelli letterari classici, Catullo, Ovidio e Virgilio, finanche alle rielaborazioni degli antichi temi del lamento, dell’idillio erotico, del congedo fatte da poeti cronologicamente più prossimi come Ariosto e Tasso.

Il testo, che descrive il congedo degli amanti alle prime luci dell’aurora, dopo un ardente idillio amoroso, è il seguente:

1. Da le belle contrade d’orïente
2. Chiara e lieta s’ergea Ciprigna, et io
3. Fruiva in braccio al divin idol mio
4. Quel piacer che non cape humana mente.

5. Quando senti’ doppo un sospir ardente:
6. «Speranza del mio cor, dolce desio,
7. Te n’vai, haime, sola mi lasci, adio.
8. Che sarà qui di me, scura e dolente?

9. Ahi, crudo amor, ben son dubiose e corte
10. Le tue dolcezze, poi ch’anchor ti godi
11. Che l’estremo piacer finisca in pianto.»

12. Né potendo dir di più, cinseme forte
13. Iterando gl’amplessi in tanti nodi,
14. Che giamai ne fer più l’Edra o l’Acanto.

Non ci permettiamo qui di articolare un’analisi dettagliata della realizzazione musicale, ma potremmo limitarci a segnalarne alcuni elementi fondamentali (approfondimenti ulteriori si trovano nello studio citato di La Via, dove è presente anche la partitura completa).

Nella disposizione generale del sonetto risalta con evidenza l’antitesi affettiva tra la piacevolezza dell’idillio erotico e la gravità del dolore al momento del congedo, in particolare la trasversalità di questa figura retorica rispetto all’impianto formale: che il sonetto abbia la più importante divisione formale tra fronte (le prime due quartine) e sirma (le due terzine conclusive) è cosa nota; tuttavia, nei contenuti, notiamo che il momento della piacevolezza si limita esclusivamente alla prima quartina, mentre già dalla seconda, cioè da metà fronte, inizia la descrizione del lamento, che conduce al discorso diretto che l’io narrante attribuisce all’amata, dal secondo verso della seconda quartina fino a metà della sirma.
Nell’ultima terzina si torna quindi alla narrazione, ora trasformata in abbraccio-congedo. Abbiamo dunque una forma “affettiva” di tipo A (versi 1-4) - B (5-11) - A' (12-14).
Ed è proprio a questa forma “affettiva” che Rore risponde con un piano tonale ad arco, attribuendo un polo armonico incentrato sulla sonorità di fa in cantus mollis (cioè col si bemolle in chiave) a tutta la parte A; un’estremamente instabile zona tonale in la, che oscilla tra una triplice bemollizzazione (si, mi e la) e una triplice diesizzazione (fa, do e sol), oltre al si bequadro, per tutta la sezione B; infine, un ritorno al polo di fa, di nuovo in cantus mollis, per la sezione A'. A ulteriore rinforzo, le uniche tre grandi cadenze del madrigale si trovano proprio al limitare delle tre sezioni: a conclusione del verso 4, una cadenza autentica in fa; a conclusione del verso 11, una languida cadenza “plagale” in la; e alla fine della composizione, nuovamente una cadenza autentica in fa.
Ma, pur in questo piano cadenzale così di sostegno dell’arcata affettiva del testo, Rore si impegna tuttavia a rendere conto, sempre con strumenti tonali, dell’ambiguità tra affettività e struttura prosodica: cosicché proprio alla fine della fronte, in coincidenza dell’interrogativa «che sarà qui di me, scura e dolente?», cioè in quello che dovrebbe essere il momento di cesura formale massima (benché elusa dal senso di continuità del discorso diretto), ci imbattiamo in una sorta di cadenza sospesa dal carattere frigio sul la, attenuata dal ritardo del canto e dalla contemporanea appoggiatura della sesta sulla quinta del tenore: una cadenza che pare in qualche modo preannunciare la successiva cadenza, già segnalata, alla fine del verso 11, a evocare il forte legame di senso tra i due versi (8 e 11), forse anche – perché no? – in virtù della ricorrenza del legame consonantico -nt- tra «dolente» e «pianto».
Partiti da un esempio che fa luce su alcune questioni riguardanti l’impianto generale, passiamo ora a osservare un esempio più particolare: l’enjambement che si verifica tra i versi 2 e 3, dove «et io» si lega sintatticamente a «fruiva in braccio al divin idol mio». L’ambiguità tra struttura prosodica e senso sintattico è molto forte, soprattutto considerando che «et io» completa la coppia rimica proprio nel verso successivo, con «mio». La struttura versale è dunque fortemente palesata dall’impianto sonoro della rima, cosicché il contrasto con la struttura sintattica si fa vieppiù incisivo.

Rore dà voce in questo modo all’ambiguità:

Notiamo che una pausa generale di minima separa nettamente tutta la prima parte del verso 2 dal conclusivo «et io», dando così ragione per una lettura di tipo sintattico.
Ma, se le quattro voci inferiori procedono melodicamente legando effettivamente «et io» con il verso successivo (rinforzando cioè il nesso sintattico), il canto al contrario si ferma, riprendendo con le parole del verso 3 soltanto dopo una pausa lunga più di una battuta. La divisione versale elusa dalle altre voci sembra qui riemergere con potente senso di riscatto. Ma, in questo dar voce all’ambiguità, si insinua un altro elemento, questa volta più di tipo armonico: il pronome «io» si dispone sulla successione accordale sol-re, quasi una cadenza plagale, la stessa identica successione (anche in termini melodici tra le singole voci) che si ripresenta su «mio», al verso 3. Una rima armonica si sovrappone così alla rima prosodica, a riaffermare con mezzi diversi l’integrità della struttura versale, e sonora, minata da quella sintattica.
Non andiamo oltre con gli esempi, benché il madrigale sia virtuosisticamente costruito su una stratificazione vertiginosa di letture esegetiche, sempre declinate con soluzioni musicali ogni volta diverse e imprevedibili, eppure con un grande senso unitario e nell’alveo di una tradizione contrappuntistica solida che evita il pericolo di potenziali azioni centrifughe dei singoli elementi e dei singoli episodi.
Per concludere ci sembrano particolarmente efficaci alcuni concetti ripresi da un vecchio saggio sempre della Feldman (The Composer as Exegete: Interpretations of Petrarchan Syntax in the Venetian Madrigal, «Studi Musicali», XVIII, 1989, pp. 203-238. La traduzione è nostra): «Lo stile madrigalistico veneziano costituì un ideale compagno d’avventura per la sintassi discorsiva dell’idioma petrarchesco. Proprio come Petrarca dava a complemento dei suoi temi di incertezza spirituale un intricato stile verbale, così i Veneziani, per ottenere un effetto paragonabile, si rivolsero a un instabile tessuto polifonico. La loro ammirazione per l’idioma del Petrarca fece sì che la flessibilità sintattica fosse un essenziale requisito del nuovo stile, e si rendessero capaci di produrre letture convincenti della sua poesia. Fu proprio in questo senso che Willaert e i suoi discepoli estesero il principio retorico di variazione. Lo applicarono alle qualità della musica, ma anche a quelle verbali e retoriche, e nel far ciò crearono un nuovo prototipo per la musica italiana capace di offrire le più vivide letture possibili dei testi che essi tanto veneravano».

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